Copertina

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Reginaldo Giuliani O.P.
Medaglia d’Oro

Per Cristo e per la Patria

Salani
Ritratto
Padre Reginaldo Giuliani O. P.
reduce dalla Grande Guerra
Frontespizio

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P. Reginaldo Giuliani O. P.
Medaglia d’Oro

Per Cristo e per la Patria
(Ultimi scritti dall’Africa)

Precede una Biografia del P. Ceslao Pera O. P.
Segue un’Appendice comprendente Scritti del gen. Filippo Diamanti, Alberto Lixia e Carlo Lovera di Castiglione

Casa Editrice Adriano Salani
Firenze - Viale Dei Mille, 114

La presente edizione, della quale è proprietario l’Editore Adriano Salani, è posta sotto la tutela delle vigenti leggi.

Stabilimento A. Salani, 1937 - XV - Printed In Italy

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Avvertenza

Questo è l’ultimo libro scritto dal P. Reginaldo Giuliani, «nel trambusto del campo». Egli aveva intenzione «di stendere due o tre articoli al mese, in modo di averne in breve tanto da cucirne assieme un volumetto». In una ventina di articoli egli sperava raccogliere le sue memorie della «gesta africana».

Con l’agilità del suo stile semplice ed immediato egli fissava in rapidi bozzetti tutti vita e colore le sue impressioni e narrava, con arnmirabile acutezza di osservazioni, gli episodi che più colpivano la sua anima aperta ad ogni luce di bontà, di bellezza e di coraggio.

«I primi due scritti sono come preamboli al libro futuro che tu redigerai, se io non sarò più,» scriveva ai primi di dicembre del 1935 a un confratello.

Ed oggi, la «redazione» è fatta per eseguire una volontà sacra:

«Queste copie conservatele, perchè in questa corsa africana è probabile che io perda tutte le cose mie. Se perdessi la vita, ne potreste curare voi (quando siano sopra i 20) un volumetto. Altrimenti farò io.»

/4/ La collezione non potè avere il suo compimento perchè il 21 gennaio 1936 al Mai Belés, presso il Passo Uarieu, l’eroico figlio di San Domenico – che il 24 agosto 1935 aveva scritto all’Editore di questo libro: «Invoco preghiere affinchè Dio ci renda degni di grandi cose» – consumò, Per Cristo e per la Patria, il suo supremo sacrificio.

Ma la fiamma purissima che divampò in quel magnanimo cuore guizza più fulgida da queste poche pagine suggellate con l’olocausto di una vita tutta votata al sublime ideale di un’Italia forte e gloriosa nella serena luce della cristiana civiltà.

Gli articoli del P. Giuliani sono preceduti da una biografia dettata per questo volume dei suoi ultimi scritti dal suo confratello P. Ceslao Pera.

Queste pagine di commossa rievocazione e di acuta analisi psicologica, rivelano il suo spirito apostolico, domenicanamente proteso verso l’opera divina della salvezza delle anime e fanno comprendere come la forza e l’eroismo fiorissero in Lui dall’intima unione con Cristo.

Seguono gli articoli del P. Giuliani e chiudono il volume due discorsi del generale Diamanti, uno scritto del dottor Lixia sull’ultima giornata dell’eroico Cappellano e uno del conte Lovera di Castiglione su L’Anima del P. Reginaldo Giuliani che pone un aureo suggello al profilo biografico della introduzione.

L’Editore

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Il P. Reginaldo GiulianiO. P.
Medaglia d’Oro

(Biografia del P. Ceslao Pera O. P.)

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Il P. Reginaldo Giuliani O. P.
Medaglia d’Oro

Egli fu l’uomo dei contrasti profondi ed è insieme lo spirito delle armonie più belle. La sua vita esteriore fu agitata e complessa, quella interiore semplice e pacifica.

Ministro di pace come sacerdote, questa pace portò nello scroscio della guerra e fu azzurro lembo di cielo nel buio della tempesta. Apostolo di verità come domenicano, questa verità portò nella foschia dell’errore e fu raggio luminoso alle anime ottenebrate. Maestro di virtù come religioso, questa virtù fece trionfare nelle anime anelanti alla liberazione dalle passioni e dai vizi. Forte fino al punto di non temere la morte e i suoi precursori, egli aveva tenerezze quasi infantili, tanto erano delicate, ed era dotato d’una sensibilità squisita che gli faceva gustare tutta la bellezza d’un tramonto, tutta la grazia d’un bimbo, tutto il fascino d’una sinfonia musicale.

La sua potentissima parola che trascinava sterminate masse di popolo, sapeva trovare accenti delicatissimi e soavissimi, quando si volgeva ad anime appena sbocciate alla vita morale, o consacrate a /8/ Dio nella vita religiosa, o già vicine al tramonto terreno della vita umana.

Uomo d’azione fu sempre un poeta della vita interiore. Entusiasta d’ogni ardita impresa per la grandezza della Chiesa, dell’Ordine Domenicano, dell’Italia, fu sempre ponderato come un positivo che vive senza illusioni nella realtà d’ogni giorno.

Mistico pieno di spontaneità, fu sempre fedele alla più rigida disciplina, anche quando, sotto il torchio dell’obbedienza, com’egli mi diceva, il cuore sprizzava sangue.

Suscitatore delle più belle energie giovanili – e in questo senso educatore magnifico alla vita di dedizione all’ideale morale – sembrava non rendersi conto delle condizioni reali alle quali questa dedizione è praticamente legata.

Egli vedeva tutto bello e anche quando la denigrazione o la calunnia mordevano il lembo del suo candido vestito, sorrideva e generosamente compativa l’umana miseria. Egli giudicava gli uomini migliori dei loro pensieri e delle loro azioni, e, quando s’accorgeva d’essere stato vittima di qualche raggiro, non ne rimaneva insensibile, ma si mostrava superiore, come ogni anima grande.

Ricordo che un giorno, durante il tempo del nostro noviziato a San Domenico di Chieri, s’era insieme nell’ora della passeggiata: prima di uscire, si pescava un numero dal sacchetto appeso in cima alla scala dello studentato e poi dinanzi al portone del convento, dopo ricevuta la benedizione, ognuno diceva il suo numero e si metteva in fila coi compagni datigli dalla sorte.

/9/ Quella volta, io ero in mezzo, fra Reginaldo era alla mia destra, un altro confratello di cui non ricordo il nome, alla mia sinistra. Era un 15 ottobre e fra Reginaldo mi domandò che cosa mi avesse colpito nell’ufficio di Santa Teresa di Gesù; io gli citai l’antifona del Benedictus:

«Dedit ei Dominus sapientiam et prudentiam multam nimis et latitudinem cordis, quasi arena quae est in littore maris

E soggiunsi che «una larghezza di cuore immisurabile come i granellini di sabbia che sono sulla spiaggia del mare» mi pareva desiderabile quale forza incoercibile di apostolato.

Egli, con la sua caratteristica mossetta del capo mi rispose con gli occhi luminosi, folgoranti per un’interiore fiamma, che allora credevo estro poetico, oggi riconosco carità ardente. Si parlò, infatti degli effetti dell’amore nel cuore umano secondo la teoria tomista, studiata qualche mese prima (nell’anno scolastico 1908-1909) e, con fine intuizione, egli mise in rapporto la larghezza del cuore con la forza di espansione della carità fiammeggiante.

Riflettendo ora a tutto lo svolgimento della sua vita gloriosa, da quel tardo autunno del 1909, è per me evidente che tutta la sua maravigliosa forza di irradiazione apostolica sgorgava dal suo cuore largo e generoso. Non solo, ma proprio la sua carità perfetta fu, nella sua vita così complessa, la forza unificatrice che rese semplice la sua linea di sviluppo interiore; fu, nella sua azione così piena di contrasti, la forza ordinatrice che rese /10/ armoniosa la sua opera di apostolato; fu, per la sua stessa personalità esuberante di ricchissime energie, la forza dominatrice che rese pacifica la sua vita più profonda.

E mi pare assai bello scrivere questi miei pensieri nelle prime pagine di questo suo ultimo libro che racchiude non l’ultimo palpito del suo cuore, ma l’ultima espressione, nel nostro terreno linguaggio, del suo affetto per le idealità supreme che, fin dai primi fulgori del suo spirito geniale, avevano rapito il suo slancio generoso e avevano fatto di lui un mistico dell’azione.

Sotto questa luce, la sua vita è un poema armonioso e la sua azione ha un ritmo potente di ascensione divina.

Il primo documento personale del P. Giuliani risale al 16 aprile 1903, un giovedì di Pasqua: sono poche pagine strappate da un taccuino, nelle quali il giovane Andrea volta per volta, e giorno per giorno segna in breve e chiaro sunto le meditazioni e le istruzioni degli Esercizi spirituali predicati dai Salesiani don Zolin e don Carmagnola.

In questi sunti che riferiscono l’orditura dei singoli discorsi, non mancano riferimenti alle sue particolari necessità spirituali e con questo primo documento storico, s’apre uno spiraglio nella vita interiore del giovane Andrea Giuliani.

/11/ Egli ha quindici anni compiti: nato a Torino il 28 agosto 1887 e battezzato il 4 settembre dello stesso anno nella chiesa parrocchiale di San Dalmazzo, egli ha trascorso il periodo dell’infanzia e dell’adolescenza ed è entrato in quella fioritura primaverile dello spirito che incomincia ad aprire gli occhi sulle responsabilità della vita e nel presentimento dell’avvenire, esperimenta i primi palpiti per un ideale di perfezione.

I suoi genitori sono ancora vivi: il padre Carlo Giuliani lavora presso la Tipografia Salesiana; la madre Giuseppina Massaia sta in casa e tutt’e due seguono con affetto lo sviluppo del loro figliuolo, sul quale ripongono buone speranze, avviato com’è per una strada sicura.

Quando da via della Consolata, s’eran trasferiti in corso Valdocco, Andreino aveva frequentato la Scuola Elementare Federico Sclopis (1894-1895; 1895-1896); poi la famiglia era andata ad abitare in via delle Orfane e allora aveva continuato i suoi studi elementari, sotto la guida dei Fratelli delle Scuole Cristiane nella scuola del quartiere della Consolata in via delle Scuole (oggi via Marna). Fratel Giuseppe Cirino Barberis l’aveva avuto per la 3ª classe (1896-1897): era stato promosso ma egli aveva voluto ripetere l’anno (1897-1898) chè tanto aveva tempo e riusciva bene. Poi aveva fatto la 4ª (1898-1899) sempre con lo stesso bravo insegnante, e la 5ª l’aveva compiuta con fratel Teodoreto, un sant’uomo, tutto di Dio e pieno ancora di santo affetto per quel suo allievo privilegiato.

Andrea era poi passato al Ginnasio presso l’Ora- /12/ torio Salesiano di Valdocco: aveva compiuto la 1ª (1900-1901) e la 2ª (1901-1902) ginnasiale, ed ora, mentre stava compiendo la 3ª (1902-1903), si trovava dinanzi a Dio e alla sua coscienza in quel ritiro pasquale, per pensare un po’ di più alle grandi questioni dello spirito.

Quand’era piccolo, dicono che suo padre lo chiamava «’l feramiù» forse, perchè dalle zie e cugine andava raccogliendo libri, ninnoli e cianfrusaglie per poi regalare ai suoi amici e ad altre sue cuginette; forse anche, perchè la sua vivace spensieratezza e una certa tendenza ad amare le privazioni e la vita semplice lo avvicinavano nel pensiero del padre a questo tipo popolare del commerciante nomade che col suo sacco sulla spalla va di casa in casa, passa, da un cortile all’altro, lanciando al cielo il suo squillante annunzio: «’l feramiù!...».

Ora, egli è raccolto in se stesso. La sua vivacità è dominata dalla gravità dei pensieri svolti da don Carmagnola nella sua prima istruzione intorno alla Confessione.

Il giovane Andrea ne fa il sunto sulla pagina del suo taccuino. Nel sunto di questa istruzione c’è un periodo che svela il primo sguardo del suo spirito sulla vita nel suo sviluppo sociale, il suo primo anelito, storicamente attestato in modo diretto, alla perfezione, il suo orientamento primordiale verso l’apostolato.

«La Chiesa si divide in due parti: l’anacoreta che vive di una vita austera, rintanato nelle caverne e confinato nei deserti, e l’apostolo, tutta /13/ dolcezza e bontà, il cui uffizio è quello di spezzare al popolo il cibo della scienza divina e di amministrare i Sacramenti.»

L’istruzione ha per tema la Confessione e le parole citate dall’autografo dovevano formare una specie di esordio sullo svolgimento dell’attività spirituale nella Chiesa: l’uno tutto raccolto nella contemplazione di Dio, l’altro ordinato alla salvezza delle anime. Il giovane Andrea, con leggera inesattezza facilmente spiegabile, riferisce questa distinzione di vita come divisione della Chiesa in due parti e ciò prova soltanto che siamo di fronte ai primi vagiti del suo spirito anelante alla vera vita. Egli sunteggia come sente dentro e la sua simpatia traspare dalla luminosa descrizione dell’apostolo in forte contrasto con l’anacoreta.

Non so se in quel momento egli pensasse a sè – anche se in quella formola lapidaria egli ha fotografato se stesso – ma poichè la decisione di entrare nell’Ordine Domenicano – ordine essenzialmente apostolico – fu presa un anno dopo, noi possiamo considerare nell’«apostolo tutta dolcezza e bontà, il cui uffizio è quello di spezzare al popolo il cibo della scienza divina e di amministrare i Sacramenti», il primo lampo che folgoreggiò nel sua spirito e gli pose dinanzi il suo ideale di vita.

Perchè la sua vita interiore puntava in alto!

Alla fine del ritiro vi sono due ricordi:

1° «Ambula coram me et esto perfectus» (Genesi.)

2° «Sanctum sanctorum peramanter visitetur» (Don Bosco.)

/14/ Sono due ricordi preziosi e due propositi generosi: il primo contiene le parole di Dio medesimo ad Abramo quando strinse alleanza con lui (Genesi, XVII, 1) e queste parola sono diventate come l’imperativo divino della vita spirituale nella tradizione classica della dottrina cattolica.

Questo camminare alla presenza di Dio per essere perfetto, che in quel giorno di gioia pasquale, nel mistico raccoglimento di quelle feconde ore di ritiro, fiorì nel cuore ardente e puro del giovane Andrea come fermo proposito, diventò poi norma reale di vita non solo per lui, ma anche per le anime che si affidarono alla sua direzione.

«Le raccomando dunque la fiducia in Dio e l’abitudine della di Lui amorosa presenza. Niente vale meglio a riempire e farci sentire la bellezza e la dignità e la soddisfazione di vivere, quanto codesta presenza di Dio alla nostra mente.»

Questo lo scriveva nel 1928.

«Se riusciremo a vivere continuamente alla presenza di Dio, non ci sarà più possibile il minimo peccato.»

Questo spesso lo ripeteva negli ultimi tempi della sua vita ad un’anima religiosa della quale aveva preso la direzione dal dicembre 1933.

Dopo trent’anni, ritroviamo la stessa linea spirituale!

Il secondo ricordo contiene lina pratica di devozione eucaristica, espressa con le parole di san Giovanni Bosco:

«Sanctum sanctorum peramanter visitetur

/15/ Queste parole furono udite in un famoso sogno avuto dal Santo nel 1881 e nel quale egli ricevette moniti divini sull’ordinamento dell’opera sua; esse si riferiscono al culto eucaristico: «con intenso amore, sia visitato il Santissimo Sacramento».

L’accento è sull’avverbio: peramanter, che indica il modo di compiere la visita al silenzioso Presente nel tabernacolo.

Dalla presenza divina che avvolge col suo fascio di luce l’essere e la vita dell’uomo nell’ordine naturale, ma che non giustifica l’uomo nè è per lui oggetto di beatitudine, si ascende, con le parole dette ad Abramo, a quella speciale presenza di Dio, che nel giusto pone la sua dimora e, come persona conosciuta e amata, intreccia con lui amichevoli relazioni fondate sulla comunicazione della sua beatitudine all’uomo.

Con la presenza eucaristica, il circolo d’amore senza chiudersi si stringe, mentre lo spirito che a Lui realmente presente aderisce con fede viva, si prepara alla contemplazione svelata sulla quale la fiammeggiante carità porrà il suggello del suo indissolubile abbraccio.

I due ricordi s’integrano con perfetta armonia e nella divina ascensione dello spirito su questa scala santa, noi ritroviamo facilmente la linea classica della spiritualità cattolica.

La formazione del giovane Andrea fu, dunque, eccellente. Le origini della sua vita più bella hanno l’impronta della educazione classicamente cristiana che assicura all’uomo lo sboccio più fiorito delle /16/ sue migliori energie e prepara il compimento più generoso della sua missione nel mondo.

Il senso eucaristico dell’animo del P. Giuliani ha il suo ricordo perenne nella porticina in argento dorato che egli volle per il tabernacolo della sua chiesa di San Domenico di Torino e per la quale egli domandò il concorso del popolo. Questo concorso non mancò e la porticina fu fatta con le preziose offerte di quelle anime umili che egli prediligeva (1929).

Egli volle che san Tommaso d’Aquino – il dottore eucaristico – e la beata Imelda Lambertini – il Serafino dell’Eucaristia – fossero scolpiti ai due lati della «Croce», come omaggio dell’anima domenicana al Salvatore presente.

Come lavoro artistico poteva riuscire meglio; come espressione di pietà e di fede eucaristica, no: c’è il riflesso del suo «intenso amore».

Durante gli anni 1903-1904 Andrea Giuliani fece la 4ª classe ginnasiale; mentre stava per finire l’anno scolastico una grande decisione stava maturando in lui ed egli spesso ha rievocato questo passo in avanti nella via della perfezione: non abbiamo dunque, da immaginare nulla; basta prendere atto di ciò che egli dice.

Quando il Angelo Giacinto Scapardini O. P. (Miasino NO 1861 - Vigevano PV 1937) dal 1909 Vescovo di Nusco BN; poi Arcivescovo tit. di diverse sedi, Nunzio apostolico in Bolivia e Brasile, Arcivescovo a tit. pers. di Vigevano P. Giacinto Scapardini fu consacrato vescovo (6 giugno 1909), fra Reginaldo, per una festa che si fece in onore del nuovo Presule do- /17/ menicano, compose una poesia nella quale ricorda il sorgere dell’ideale gusmano nel suo cuore giovanile:

« . . . . . . . . . . .
Balza in petto alle giovani schiere
gusmane, il generoso cuor che forte
ancor di sacrifizio e di gloriose
imprese, sull’austere
orme tue sospingeva, visione
coronata di rose
– ahi, troppo presto morte! –
sognando: sul futuro lor agone
quest’alme desiose
vedevan già la tua stella brillar quale
lucente sole ch’irradia l’ideale.

« Cosi s’apriva il fior dell’alma mia,
dell’alba tua gusmana al bacio primo,
raggiante dalla fronte immacolata
della Vergine Maria
che Madre e Regina, Torino implora.

« L’idea così gettata
sopra un terreno opimo,
al raggio tuo, cresceva in bella flora . . .
. . . . . . .

Durante il mese di maggio – predicato dal P. Giacinto Scapardini nella chiesa di Maria Ausiliatrice a Valdocco – maturò, dunque, la decisione di entrare nell’Ordine Domenicano.

Questo passo segna una svolta nella sua vita: svolta luminosa indicata dall’invisibile mano che guidava quell’anima buona, attraverso le tappe del suo glorioso e armonioso cammino: dall’ambiente familiare (1887-1894) all’ambiente scolastico elementare (1894-1900), al Ginnasio di Valdocco (1900-1904) fino ai piedi dell’«Ausiliatrice» dove /18/ egli conosce il senso della sua «vocazione». Vocazione divina che lo chiamava là dove egli doveva essere: sarebbe, quindi, cosa grottesca il dire che egli non era fatto per essere salesiano– In realtà, se tale fosse stata la sua vocazione, egli sarebbe stato salesiano perfetto, come fu ed è domenicano perfetto.

In quella primavera del 1904 finiva un periodo della vita del P. Giuliani e ne incominciava un altro.

Verso la fine di agosto o ai primi di settembre di quell’anno 1904, Andrea Giuliani entrava nel convento di San Domenico di Chieri. Valicato il buio androne e passata la soglia, voltando a destra poteva vedere sulla sua sinistra, attraverso le ampie finestre aperte per il caldo di fine estate, un boschetto quasi di cimitero, con intorno sulle mura logore dalle sferzate delle piogge invernali, lapidi mortuarie con incise vecchie iscrizioni o scolpiti antichi guerrieri e che, tolte dal «chiostro dei morti», erano state murate lì a ricordo di vecchie glorie tramontate e di vecchie usanze scomparse.

I lunghi corridoi, le mura che sapevano di vecchio e portavano nei loro fianchi plurisecolari i segni dei lunghi anni trascorsi e delle furiose tempeste passate, il silenzio rotto soltanto dal lontano sbattere dei telai, il quasi squallore della sua /19/ nuova abitazione, avranno forse agghiacciato per un istante la sua anima ardente di poeta.

Ma sulla porticina in fondo al corridoio, egli che aveva fatto la 4ª ginnasiale poteva leggere e capire l’iscrizione a caratteri di scatola, posta intorno a un affresco sbiadito dagli anni: «Induimini Dominicum ut induamini Dominum Jesum Christum1 Questo voleva, questo cercava, questo aveva trovato. Tutto il resto non contava. Era piombato dallo splendore esterno della vita moderna, in pieno Medioevo con la sua gloria nascosta dall’abito dimesso, ma l’Ideale che lo aveva affascinato era presente con lo sfolgorante splendore interno, nella sua attualità perenne, nella sua freschezza giovanile.

Egli entrava con la disposizione fondamentale che non solo permette di abbracciare la vita domenicana con santo entusiasmo, ma assicura anche la perseveranza in essa, con frutto di bene: egli andava a domandare che lo formassero alla vita apostolica «tutta dolcezza e bontà» per vivere questa vita intensamente.

Il 14 settembre – festa della «esaltazione della Santa Croce» – l’Ordine Domenicano incomincia, secondo la sua antica consuetudine, il grande digiuno che si protrae fino al mezzogiorno del Sabato Santo.

Finite le vacanze e prima di riprendere l’attività scolastica, allora s’iniziava il ritorno alla normalità del lavoro intellettuale, con un corso di /20/ esercizi spirituali e i postulanti vi prendevano parte integralmente per prepararsi al gran passo nel raccoglimento più profondo e nel silenzio più assoluto, durante quei dieci giorni di esercizi.

Andrea Giuliani fu vestito il 25 settembre 1904 dal Priore del convento P. Pietro Pistamiglio. I testimoni che firmarono l’atto della vestizione furono il suo maestro P. Benedetto Berro e il P. Bertrando Venzano.

Nella sua vestizione domenicana, egli ricevette il nome di Reginaldo d’Orléans (Orléans 1180 - Parigi 1220), beato fra Reginaldo: nome di quel celebre predicatore dei tempi primitivi dell’Ordine che «invitato dal santo patriarca Domenico ad abbracciare la vita apostolica nell’Ordine dei Predicatori» fu da lui ricevuto nel convento di San Sisto a Roma.

E quando il santo fondatore mandò fra Reginaldo d’Orléans a Bologna, per le sue virtù e per la forza travolgente della sua eloquenza, dette un impulso nuovo a quella nascente famiglia domenicana che si trovava in grandi strettezze e lottava senza successo contro le quotidiane difficoltà della vita.

«Tutta Bologna alla predicazione sua, tanto e sì vigorosamente eloquente che infiammava alla virtù i cuori anche induriti nel vizio, fu sollevata da una calda ondata di entusiasmo con maraviglioso ardore per la pietà cristiana: sembrava che in essa fosse sorto come un altro profeta Elia», quel profeta di cui la Santa Scrittura dice:

« Il Profeta Elia venne fuori come un fuoco,
e la sua parola era come una fiaccola ardente. »

/21/ Se Andrea stesso domandò di avere quel nome, fu iniziale rivelazione dell’interiore fiamma che lo bruciava, dell’ideale al quale aderiva intimamente con tutto lo slancio della sua verginale dedizione.

Se il buon Padre Priore – tenace assertore e rigido conservatore delle nostre più belle tradizioni – scelse lui il nome per il nuovo eletto del Signore, fu mirabile intuizione del valore dell’uomo che aveva dinanzi, dello zelo divorante che, un giorno, dal suo cuore oceanico avrebbe fatto irruzione di conquista nel mondo intero.

Se l’una e l’altra cosa avvenne, fu sempre nome di predestinazione e di consacrazione che in sè racchiudeva tutto un programma di vita interiore, preparazione divina di un’irradiazione apostolica, veramente universale.

Anch’egli, come Gesù Cristo disse del suo Precursore, fu «lampada ardente e luminosa». Ma come per conoscere questo, fu necessario che la morte spezzasse il fragile involucro di creta che nascondeva ai nostri occhi l’interiore bellezza di quello spirito grande, così allora tutto questo nessuno lo sapeva.

Egli era semplicemente il novizio fra Reginaldo Giuliani che, venuto da una grande città e da un grande Ginnasio, ebbe l’onore dei più umili uffici.

Nell’anno dì noviziato semplice (1904-1905) egli prese contatto con l’ideale domenicano: come metodo di educazione, come forma apostolica, come sistema di vita e principio di azione.

/22/ Con lo studio diretto delle Costituzioni e con la pratica integrale di esse nel convento principale della San Pietro Martire Pietro Rosini (Verona 1205 circa - Seveso 1252), nominato inquisitore per le città di Milano e Como, fu ucciso da due catari con una roncola.
La Provincia Domenicana di S.P.M. comprendeva la “Lombardia superiore”
Provincia Domenicana di San Pietro Martire, egli potè comprendere che la vita domenicana è anzitutto un metodo di educazione per il quale ogni singola parte è lavorata e disposta in modo da ricevere in se stessa una forma di spirituale perfezione che attua nell’uomo l’ideale domenicano.

Per mezzo di questa forma sono messe a dispo sizione dell’ufficio apostolico, tutte le più nobili energie, dell’uomo con una sempre più docile sot tomissione alla sua forza irradiante luce salutare.

Attraverso le «osservanze della religione canonica» con la recita solenne dell’ufficio divino, mediante la vita regolare e l’osservanza dei tre voti di povertà, castità, obbedienza, lo spirito è sempre meglio preparato a quella carità perfetta, che è appunto l’interiore forma dalla quale ha da germinare la nuova forza di irradiazione.

Con lo studio assiduo della Sacra Dottrina, la mente si sarebbe poi disposta a suo tempo e a suo modo, a quella contemplazione che ricevendo luce dall’alto, avrebbe a sua volta trasmesso luce ai marciatori della vita.

Come risulta dalla sua vita, fra Reginaldo, docile, si sottomise a questo metodo di educazione, il cui scopo è appunto quello di far sorgere nello spirito quella forma apostolica, che è legata, come a condizione di esistenza, a un determinato sistema di mezzi spirituali costitutivi del complesso pedagogico domenicano.

/23/ Ma se il metodo è la culla, la forma apostolica è la giovinezza. Noi non possiamo nè spezzare nè profanare le culle, mi diceva tante volte più tardi, ma neppure possiamo condannarci a rimanere sempre in culla.

Giudizio sensato, obbiettivo, ardito. Lo raccomando alla attenta meditazione di chi, forse, mai conobbe di quale salda tempra fosse lo spirito religioso del P. Reginaldo Giuliani.

Egli amava nell’organismo domenicano quella forza così plastica di armonioso adattamento, per cui, mentre in sè l’organismo permane integro nelle sue linee costitutive ed essenziali, per i suoi membri vige, come legge normale di lavoro apostolico, un’intelligente elasticità che è larghezza disciplinata e subordinata agli interessi supremi dell’ideale stesso.

La forma apostolica, infatti, che è attuata nell’uomo religioso in armonia col ministro di Dio e sacerdote di Gesù Cristo, è insieme costitutiva di essere, sistemativa del vivere, principio di azione, sorgente di movimento apostolico.

In colui che la possiede è la ricchissima ed eccellentissima sintesi – indissolubilmente unitaria – di contemplazione causante l’azione.

Sono convinto che egli questa sintesi la possedette in modo perfetto; su questo punto, fu capito da pochi, mentre altri più facilmente comprendono l’ideale domenicano nella sua forma statica.

Dinamico per eccellenza, egli sempre combattè ogni tendenza ad irrigidirsi in uno sterile conservatorismo, ma per il fatto stesso della sua chiara /24/ visione dell’Ideale Domenicano – e ciò prova che l’anno di noviziato lavorò sul serio – egli fu pure il più terribile giudice d’ogni profanazione secolaresca e d’ogni inquinamento dello stesso Ideale con elementi estranei.

Questo è il motivo per cui in tutti i suoi campi d’azione, egli portò sempre il suo spirito domenicano e se diceva che «al predicatore è naturale il parlare come all’uccello il cantare» egli traduceva poeticamente la formola tecnica dell’Ideale Domenicano secondo san Tommaso: «Contemplata aliìs tradere».

È il tempo della virilità spirituale. E in realtà, com’egli mi diceva, una concezione integrale della vita domenicana non può prescindere dall’elemento dinamico che è nella forma stessa apostolica, come sorgente di azione in un determinato tempo, in determinati luoghi, su determinate persone.

Qui si comprende il senso pieno della vita del P. Reginaldo Giuliani, il quale ebbe in grado eccelso quella che mi pare possa convenientemente chiamarsi la virilità domenicana.

Qui si ha in mano il filo d’oro che, nel tessuto delle quotidiane azioni in circostanze determinate di tempo, di luogo, di persone, ricama la gigantesca figura di questo nuovo Apostolo della Chiesa e della Patria.

Qui si comprende il valore del suo amato maestro P. Benedetto Berro (morto il 22 ottobre 1936) il quale purtroppo, non ha lasciato nessuna memoria che per noi sarebbe riuscita molto preziosa per dilucidare in modo definitivo alcune pagine /25/ della vita del P. Giuliani – quella di Fiume, particolarmente – che coincisero col Provincialato del P. Berro.

«Noi fortunati» mi diceva «che s’ebbe a maestro il P. Berro: ti dava una salda e generosa quadratura spirituale che non perdevi più; ti ricordi com’era rigido quando ci faceva certe istruzioni in capitolo, e quanta soavità aveva quando ci parlava a quattr’occhi?»

Il P. Giuliani, in quelle nostre amichevoli conversazioni, riconosceva il gran bene che a noi era venuto da quel grande educatore. Ed egli stesso, fine conoscitore di uomini e giusto apprezzatore di fatti, non mancava mai nel chiudere la conversazione, di mettere in rilievo, con la fedeltà alla tradizione che il P. Berro inculcava ai suoi novizi, la innovatrice arditezza dei suoi slanci e dei suoi programmi qualche volta utopici, ma sempre benefici nel suscitare le più belle energie a servizio d’ogni idealità santa.

Da questi ricordi e dalla generosa valutazione del suo primo educatore alla vita domenicana, possiamo indovinare l’atteggiamento e il profitto del novizio fra Reginaldo Giuliani, il quale seppe con gioia esercitare l’umilissimo ufficio avuto per primo – e lo raccontava con la soddisfazione del trionfatore – e imparò pure a raccogliere nel suo alto spirito, tutte le armonie del cielo per cantarle sulla terra alle anime e per dare alla loro vita il ritmo gaudioso d’una sinfonia immortale.

L’8 ottobre 1905, fra Reginaldo si prostrava di nuovo ai piedi dell’altare per domandare «la mi- /26/ sericordia di Dio e quella dell’Ordine». Si presentava dinanzi al priore P. Pietro Pistamiglio e alla Comunità raccolta intorno come corona vivente, per fare la sua professione semplice, in quell’ottava della festa del Santissimo Rosario.

Si conserva ancora l’immaginetta sul cui verso, egli scrisse di sua mano la formola della professione di obbedienza .... usque ad mortem.

L’immaginetta rappresenta Gesù bambino in atteggiamento meditativo con in mano una piccola «Croce». Sotto c’è stampata questa sentenza:

« Tu, o bambino Gesù, mediti per me
la preziosità della Croce ed io la temo
tanto! D’or innanzi l’abbraccerò....
la bacerò. »

Di suo pugno vi aggiunge: usque ad mortem!

«.... l’abbraccerò e la bacerò usque ad mortem»: fino alla morte è l’eco della formola di professione che suggella il suo proposito di vita per un continuo sforzo di azione virtuosa, per uno slancio perenne di spiritualità, a costo del sacrificio stesso della vita, non soltanto per la durata della vita nel suo sviluppo terreno.

Questa sfumatura di pensiero nel proposito di vita formulato allora, non è una mia bizantineria suggerita da fatti posteriori e inserita a forza nei fatti anteriori.

C’è tale e quale nel documento relativo alla sua professione solenne (10 ottobre 1909). In un altro santino scrive la sua formola con le parole rituali: «.... quod ero oboediens tibi, tuisque suc- /27/ cessoribus usque ad mortem». Fra Reginaldo vi aggiunge di suo pugno: «mortem autem crucis», riprendendo per conto suo il motivo paolino nella Lettera ai Filippesi, là dove parla di Gesù Cristo che «se stesso umiliò, fattosi obbediente fino a morte e morte di croce».

Ed è – cosa più confortevole ancora e commovente – in perfetta armonia con la dottrina teologica di san Tommaso d’Aquino sulla morte del Cristo per obbedienza.

«Il milite,» egli osserva tra l’altro «non può vincere se non obbedisce al Duce. Così, l’uomo Cristo ottenne la vittoria, per questo che fu a Dio obbediente, secondo quella parola dei Proverbi: l’uomo obbediente canterà vittoria.»

Io mi arresto confuso dinanzi a questo mistero di grandezza che contiene e prepara nella divinamente feconda virtualità della vita e degli esempi di Gesù Cristo, lo sviluppo radioso dell’ideale religioso, sorgente inesauribile d’ogni eroismo anche civile, d’ogni grandezza anche umana.

Questa scoperta che ho fatto mi riempie l’animo di gioia trepidante e mi fa rimpiangere di aver conosciuto troppo tardi – solo ora nella sua vera luce, proprio solo scrivendo quest’ultima, pagina l’anima bella di chi con noi condivise il pane di ogni giorno e il travaglio continuo di un’estenuante fatica.

Finito l’anno di noviziato semplice e fatta la prima professione, fra Reginaldo entrò nello studentato per i regolari corsi di Filosofia e Teologia (1905-1912): periodo di tempra intellettuale, /28/ quando fuori rombava la tempesta dello spirito col Modernismo e dell’azione sociale col Socialismo.

Per il biennio filosofico (1905-1907) ebbe come testo scolastico la Summa Philosophiae in usum scholarum del Card. Tommaso Maria Zigliara O. P. (Bonifacio Corsica 1833 - Roma 1893), curò una nuova edizione delle opere di San Tommaso Vincenzo Gioacchino Pecci (Carpineto Romano 1810 - Roma 1903) Papa dal 1878 col nome di Leone XIII. Scrisse moltissime encicliche. Aeterni Patris (1879) rilancia la filosofia tomista. Santa Dei Civitas e Catholicae Ecclesiae (1890) sono in sostegno dell’attività missionaria. Diuturnum e Immortale Dei sostengono che la Chiesa non ha prefernze in materia di regime politico, purché questo rispetti il diritto di Dio. Libertas sostiene che la separazione della Chiesa dallo Stato è irragionevole. Rerum Novarum fonda la moderna dottrina sociale della Chiesa Cattolica. P. Tommaso Zigliara, che al tempo di Leone XIII, era stato l’artefice primo della restaurazione tomista, e, fatto Cardinale, aveva mostrato efficacemente come il ritorno a san Tommaso doveva significare non un arresto del pensiero, ma un’aderenza vitale alla dottrina perenne per farsi una testa luminosamente sana, capace di qualsiasi sviluppo perfettivo.

Se nella vita intellettuale del P. Giuliani non ci furono sbandamenti e se fu sempre preciso nelle sue parole e sempre limpido nelle sue idee, questo doppio vantaggio gli venne dalla sua perfetta formazione filosofica, anche se non fu filosofo, perchè poeta per temperamento.

Ho dato una scorsa alle esercitazioni filosofiche che egli fece come studente e delle quali si conserva la formola conclusionale e con una certa emozione mi son reso conto dello sforzo eroico che dovette fare il poeta di quel tempo, per piegarsi alla irsuta disciplina della Logica Scolastica, dove non c’era neppure la soddisfazione tutta divina del brivido metafìsico, ma pura e semplice scarnificazione del pensiero.

Così trascorsero – come Dio volle – i due anni di filosofia e scienze e col 1907-1908, fra Reginaldo incominciava il quinquennio teologico, completando la Filosofia con lo studio della Metafisica dei costumi e delle istituzioni sociali.

/29/ Iniziò lo studio dell’Apologetica e il testo usato allora era la Summa Apologetica de Ecclesia Catholica ad mentem S. Thomae Aq. del P. Vincenzo de Groot O. P. professore nell’Università di Amsterdam: questo solo bastava a far sognare fra Reginaldo e a farlo vibrare di sconfinata ammirazione per lui.

Studiò la Propedeutica e il testo usato allora era la Propaedeutica ad Sacram Theologiam in usum scholarum seu Tractatus de Ordine Supernaturali del P. Tommaso Zigliara che già lo aveva accompagnato nel biennio filosofico e ora lo ritrovava alla porta dell’edifizio teologico per invitarlo ad entrarvi, senza scappucciate.

Dal dicembre 1907 al dicembre 1911, fra Reginaldo mi fu compagno e amico. Giunto al convento di San Domenico di Chieri da quello della Quercia presso Viterbo, trovai in lui il fratello buono che s’interessava amorevolmente del nuovo venuto, e con la vivacità che lo distingueva domandava molte cose dei religiosi della Provincia Domenicana di Tolosa che alla Quercia avevano trovato rifugio dal tempo dell’ultima soppressione e, sapendo già un po’ di francese, ne approfittava per acquistare maggiore facilità di parola in quella lingua. Per questo ci si avvicinò un po’ di più e lo scambio delle nostre conversazioni fiorì in amicizia che valicò il ristretto ambito del Noviziato, rimase intatta nei lunghi anni di separazione, ritrovò tutta la sua giovanile freschezza quando dal 1927 al 1935 ci ritrovammo insieme a San Domenico di Torino.

/30/ Perchè il P. Giuliani era fedelissimo nella sua amicizia e sapeva far sentire questa sua fedeltà con le attenzioni più minute e delicate.

Compagno di vita, prima che lo fosse anche di studio – egli mi raggiunse nel corso di San Tommaso, un anno dopo – ebbe il gran dono di vedere e far vedere la vita dal suo lato bello. Il Nostro era poeta, non tanto per i versi che faceva nelle grandi occasioni nelle quali ci vuole anche un po’ di poesia, quanto per quella certa baldanza entusiasta e gioiosa che comunicava, a chi gli stava insieme, la gioia del vivere.

Girar la ruota per far venir su l’acqua dal profondissimo pozzo del cortile centrale; portar carichi di carbone per la stufa, durante l’inverno; spazzare i lunghi corridoi del noviziato; eran tutte cose che tutti noi facevamo, ma a farle con lui eran diverse. E poi lui sapeva tutto: quando capitava qualche grandinata in capitolo, alla prima occasione riusciva a tranquillizzare quelli che ignari o ingenui non potevano rendersi conto della faccenda.

Era un suo modo di praticare la carità: portare un po’ di sole nelle anime buie e un po’ di caldo nelle anime fredde.

Penso che l’anno scolastico 1907-1908 fu particolarmente fruttuoso per fra Reginaldo sotto un triplice aspetto: prima di tutto lo studio dell’organismo morale umano in se stesso e nei suoi sviluppi istituzionali lo mise in contatto con quella realtà sociale sulla quale egli un giorno avrebbe lavorato con mano efficace e sicura, secondo una linea di condotta intellettuale perfettamente coe- /31/ rente e in piena armonia non solo coi dati della fede cristiana, ma anche coi principii fondamentali della stessa vita umana.

In secondo luogo lo studio del trattato sull’Ordine Soprannaturale – detto Propedeutica con etichetta comune, ma costituente quella che meglio e più precisamente fu chiamata Scienza Apologetica – permise alla sua mente sveglia e acuta, di rendersi conto dei presupposti metafisici e storici della dottrina rivelata e quindi della fede cristiana.

La distinzione dell’Ordine naturale e dell’Ordine soprannaturale; le caratteristiche di questo dal punto di vista dell’essere, del conoscere, dell’operare; l’armonia profonda dell’uno e dell’altro; il valore del senso di subordinazione dell’uomo a Dio che all’uomo comunica i suoi tesori di conoscenza e di vita per la sua perfezione, aprivano alla mente di fra Reginaldo nuovi orizzonti e davano al suo spirito quella elevatezza che fu caratteristica della sua azione apostolica e del suo sforzo di conquista in mezzo agli uomini.

Sotto un terzo aspetto riuscì fruttuoso per fra Reginaldo, l’anno scolatico 1907-1908, in quanto lo studio del trattato sulla Chiesa Cattolica lo tuffò in pieno nel suo elemento.

L’opera del P. De Groot, professore di teologia cattolica nell’Università protestante di Amsterdam, è abbastanza complessa perchè riunisce sotto il comune titolo di Somma Apologetica sulla Chiesa Cattolica un triplice trattato: l’Apologetica della Chiesa; il Metodo teologico secondo lo sviluppo di Melchor Cano O. P. (1509-1560), teologo spagnolo, scrisse De Locis Theologicis 1563 in cui definì le fonti delle dimostra­zioni teologiche Melchior Cano; la Teologia della Chiesa.

/32/ Anche il latino rimane un po’ duretto e le esigenze di ambiente hanno fatto dare maggiori sviluppi alle questioni agitate nel mondo protestante.

Ma il valore dell’opera è veramente grande e con un po’ di sforzo – doppiamente premiato e per il possesso della lingua latina e per il possesso delle idee-madri – l’assimilazione di questa sintesi teologica, aggiornata secondo le esigenze del pensiero religioso moderno, permetteva di rispondere a queste esigenze, senza tradire le istituzioni e senza compromettere i principii.

So che il P. Giuliani negli anni così intensi della sua attività apostolica, ritornava spesso al suo Manuale di studente «fondamentalista» e su quelle pagine preparava le sue conferenze apologetiche.

Cari ricordi di una spensierata giovinezza tutta sacrificata con generoso entusiasmo al servizio di un ideale radioso di vita! Quanto alla sua vita personale, in quell’anno 1907 egli aveva avuto una grande prova e una grande consolazione. La grande prova gli era venuta dalla morte di suo padre, il 5 gennaio, in pieno inverno. Fra Reginaldo fu visto allora nella mistica serenità del suo dolore di figlio piangente per il doloroso strappo che sembra schiantarne l’anima e più profondo sentiva l’anelito alla riunione eterna che non conosce separazioni.

La grande consolazione l’aveva avuta il 2 febbraio quando ricevette la tonsura e gli ordini minori nella sua chiesa di San Domenico di Chieri, da Sua Eccellenza Luigi Spandre (Caselle To. 1853 - Asti 1932) dal 1899 Vescovo ausiliare di Torino, dal 1909 alla morte Vescovo di Asti Mons. Luigi Spandre, vescovo /33/ ausiliare di Torino. Erano i primi passi nella Gerarchia cattolica che lo avvicinavano spiritualmente all’«ufficio sacerdotale» e costituivano un primo compenso ai sacrifici fatti fino allora.

Così che quando incominciò l’anno scolastico di Teologia detta fondamentale egli si avvicinava alle nuove ecclesiastiche discipline con una buona preparazione filosofica, umana e gerarchica, per cui il frutto fu veramente eccellente sotto ogni aspetto.

Alla fine dell’anno scolastico, il 6 giugno 1908 egli fece una dissertazione teologica così formulata dal suo maestro il P. Egidio Perucca:

«Il Cristo costituì nella Chiesa un magistero infallibile col diritto d’insegnare la sua dottrina mediante quella suprema autorità alla quale tutti sono obbligati di obbedire col cuore e con la bocca: corde et ore

È il motivo che sempre ha caratterizzato l’insegnamento di quel venerando maestro.

Nè fu questa una semplice disquisizione accademica: da noi la coincidenza della vita al pensiero classico non permetteva di pronunziare con la bocca quello che il cuore non sentiva e la mente non approvava.

L’adesione doveva essere totalitaria: ciò spiega la salda formazione domenicana del P. Giuliani.

Dopo gli esami finali del 1908, fra Reginaldo Giuliani fu promosso studente «formale»: ciò significava che, per l’eccellenza del suo ingegno, era adatto allo studio diretto della Somma Teologica di san Tommaso d’Aquino. Questa distinzione non lo esaltò; la prese con una certa ingenua disinvol- /34/ tura più per l’intima gioia di avvicinare il grande gigante del pensiero cristiano che sostiene tutta la vita domenicana, che per l’incerta speranza – a lui del resto poco simpatica – di montare in cattedra e fare scuola.

Lo ricordo come se fosse ora: era contento di aver superato le prove intellettuali dei precedenti anni scolastici, ma era una gioia contenuta, anche perchè, come poeta e mistico dell’azione, sapeva quel che l’aspettava, nè si faceva illusioni.

Nell’estate All’epoca in Polonia, divisa fra Russia, Prussia ed Austria, si sviluppò un movimento indipendentista di ispirazione socialista del 1908 ci fu nello Studentato un avvenimento per noi straordinario.

Durante la breve sosta d’una passeggiata nei dintorni di Chieri, mentre si godeva il fresco e gli uni se ne stavano seduti, gli altri in piedi discutendo animatamente, si organizzò lì per lì un meeting pro-Polonia! Parlarono in tre o quattro, dicendo cose molto incendiarie e molto sensate: una specie di pacifica rivoluzione, causata dalla interiore ribellione a una nefasta ideologia sociale. Non ricordo bene che cosa dicessero fra Reginaldo Giuliani, fra Filippo Robotti e altri egualmente entusiasti del programma cristiano-sociale.

So soltanto che mi sembrava d’essere in un «parlamento» di gente che prendeva le cose sul serio e mentre mi rallegravo di trovarmi in mezzo a loro, guardavo il maestro che benevolo sorrideva, come faceva, quand’era nella gioia perfetta. Buon segno!

/35/ Questa fu la scintilla che determinò un incendio d’entusiasmo e sfociò nella fondazione del Circolo «Fra Gerolamo Savonarola»: istituzione non para-scolastica, ma ordinata a farci sfruttare le nozioni avute nella scuola e ad abilitarci alla parola viva.

Ci voleva l’inno ufficiale e si fece ricorso al nostro poeta, il quale compose queste strofe che nella loro spontanea semplicità, racchiudono divinazioni potenti e ci svelano l’interiore fiamma che avvolgeva il suo spirito:

I

Fratelli, scendendo
nell’aspra tenzone
giuriamo la vita
seguiamo il Campione.
Seguiamo il Campione
di vita e di morte
che in terra pugnando
procombe da forte.

Ritornello

Tu nostro duce – tu nostro onore
forma a noi l’anima – dell’oratore;
tu fiero martire – della parola,
salva l’Italia – che a Dio s’invola.

II

Ritorni lo spirto
del Savonarola
ritorni ed accenda
la nostra parola.
Vogliamo la gloria
del nome italiano
la gloria di Cristo
del Papa romano.

/36/

III

Novelli guerrieri
d’antichi ideali
destiamo dei Padri
le glorie immortali.
Il sole risplenda
del Genio d’Aquino,
risplenda e fecondi
l’umano destino.

IV

Avanti! Già s’alza
la nostra bandiera
sui campi già splende
di gloria foriera.
Avanti! Gusmani
pugnate fidenti,
a Cristo rendete
l’italiche genti.

Queste poche strofe nelle quali vibra potente l’anima intiera del P. Giuliani, egli le cantava con noi e, benché discretamente stonata, la sua voce vigorosa s’impastava bene con la massa corale.

Ma egli le ha cantate ancor meglio con la sua gloriosa vita: senza stonature e con la voce potentemente eloquente del suo sacrificio.

Egli solo ha potuto cantarle così.

Ricordo che quando si fece l’adunanza per approvare l’Inno ufficiale e, usciti dalle nostre celle ci avviavamo in fila indiana verso la saletta della biblioteca, fra Reginaldo aveva l’aria di un bimbo scontroso còlto in fallo.... teneva una mano, la destra, quella che aveva il foglio della poesia, sotto /37/ lo scapolare e con un certo fare tra timido e fiero, se ne stava in disparte, aspettando il momento di leggere la sua composizione.

Quando l’ebbe letta con la sua voce squillante nella quale vibrava tutta la sua anima ardente, fu un subisso di applausi: l’Inno era fatto, approvato, sancito. Tutti vi avevano sentito vibrare un pezzo della loro anima e tutti vi sentivano una incoercibile spinta all’azione.

Ripensando ora a queste cose e meditando questo inno alla luce delle esperienze che hanno reso glorioso il nome e la memoria del P. Giuliani, non posso far a meno di costatare che quella fulgurazione della sua vita interiore attraverso il canto di quelle cinque strofe, chiude in sintesi quel che poi fu la sua vita d’azione esteriore.

La forza d’animo, il senso sociale del lavoro apostolico, le necessità dell’ora attuale nell’imperversare dell’opera scristianizzatrice delle forze sovversive, l’energico programma di potenza civile, cristiana e cattolica, la fecondazione degli spiriti mediante la forza elevante e costruttivamente armoniosa del nostro pensiero più schiettamente cattolico cioè universale, la mèta dell’aspra tenzone: «rendere a Cristo l’italiche genti»: tutto questo contenuto ideale, che, dopo avere fiammeggiato nello spirito ardente di fra Reginaldo fu da Lui espresso in quelle piccole cinque strofe, ci fa toccare con mano la verità di quella affermazione che ogni anima veramente grande possiede come un istinto divinatore delle forze benefiche che nella storia aprono nuove vie di progresso e segnano /38/ nuove vie di ascensione, attraverso il dolore fecondo.

L’istituzione del Circolo «Fra Gerolamo Savonarola», non poteva costituire per noi un pericolo spirituale – e cotesto il nostro Padre maestro lo capì subito – perchè per noi la questione savonaroliana non esisteva o se esisteva come fatto storico, svaniva senz’altro, come fatto spirituale.

C’era invece una certa difficoltà nel mantenere la piena efficienza degli studi strettamente scolastici insieme allo sviluppo di questa nuova attività: tant’è vero che, per dare anche la sensazione della nostra buona volontà, da principio si sacrificava il tempo di una ricreazione e ci venivano quelli che si sentivano spontaneamente di prendervi parte. Poi le cose cambiarono, un po’ in meglio, un po’ in peggio, ma intanto l’affermazione della nuova attività permetteva di studiare con più ardore e di far frutto della dottrina studiata. Si doveva attenuare il tecnicismo ermetico della scuola, che poteva rapire in contemplazione altissima l’iniziato al valore d’una forinola trascendentale, ma era pur capace di far morire di fame uno spirito nell’ansia della ricerca d’un pane, adatto alla sua capacità di assimilazione.

Coloro i quali hanno giudicato il P. Giuliani oratore come uno dei soliti chiacchieroni e hanno attribuito i suoi successi alle sue doti eccezionali /39/ di travolgente parlatore, sono pregati di meditare ciò che egli stesso ha lasciato scritto in un piccolo quadratino di carta bianca, e che non solo ci fa penetrare nel suo animo, ma ci permette ancora di comprendere com’egli intendesse il ministero sacerdotale della predicazione.

Se egli voleva per la Parola di Dio lo splendore dell’Arte, questo servizio dell’uomo eloquente alla divina verità significava per lui la consacrazione di tutto se stesso alla dottrina di vita per la salvezza delle anime e la gloria di Dio.

Massime del P. E. D. Lacordaire O. P.
per la formazione alla predicazione

IFuggi l’ozio e lo scadimento d’animo, proponendoti un ideale permanente.

IIRinuncia al frivolismo delle letture moderne tenendoti alla serietà dell’opere antiche: leggi ogni dì la Sacra Scrittura e San–Tommaso.

IIITutti i tuoi studi devono essere formati con una vita di solitudine, riflessiva meditazione e prove di predicazione.

C’è poi aggiunto il seguente versetto biblico (Daniele, XII, 3):

« Qui ad justitiam erudiunt multos
fulgebunt quasi stellae in perpetuas aeternitates
. »1

/40/ Penso che abbia aggiunto questo versetto danielico alle massime lacordairiane, per avere dinanzi agli occhi dello spirito il permanente ideale che il grande e santo maestro dice di proporsi per fuggire l’ozio e lo scadimento d’animo.

Con esso egli vede attuarsi in armoniosa coincidenza, il dovere apostolico, la salvezza delle anime, ascendenti le luminose vie della vita seguendo l’orbita d’attrazione della fulgente stella spirituale, la gloria di Dio che riversa la sua vita beatificante sugli spiriti immortali e questi chiama all’eterna vita mediante i suoi cooperatori, che sono appunto i sacerdoti-apostoli. Perchè «divinissima cosa è diventare cooperatore di Dio» in quest’opera santa di eterna salvezza.

Dal 1908 al 1912, fra Reginaldo studiò la Somma Teologica di san Tommaso d’Aquino, sotto la guida di diversi professori che successivamente tennero quel corso nello studio teologico di Chieri.

Quantunque nell’Ordine Domenicano si sia soliti avvicinare la vigorosa sintesi tomista, dopo una seria preparazione, e non a tutti sia dato prendere contatto diretto col pensiero del maestro; pure, quelli stessi che, per la prima volta, aprono il gran libro dei misteri – dei geroglifici, direbbe il P. Didon – sentono di esser trasportati a vertiginose altezze; la loro intelligenza allora è alla prova del fuoco: o si spezza o si tempra e lo spirito o si chiude o si apre.

È un contatto decisivo e probativo!

Fra Reginaldo in un articolo su san Tommaso Il Principe della Filosofia – del quale mi è stato /41/ impossibile precisare la data di composizione nota fra l’altro, parlando della Somma Teologica:

«Tutto, in questo sublime tempio, è proporzionato, regolato ed è impossibile penetrarvi senza sentire la presenza del Genio che l’ha edificato.

«La forma letteraria è rozza, ma spezzate questa ganga e troverete tutto oro.

«Cosa importa che lo stile sia disadorno, la lingua rude, se qui ci sono delle armonie sovrane e più profonde?

«Bisogna aver pianto su queste pagine per comprendere lo spettacolo che esse possono presentare all’intelligenza che ha saputo vincere le rivolte del senso letterario schifiltoso, che ne ha fatto il suo pane quotidiano.»

Quest’ultimo periodo non è una vuota frase, ma rispecchia la sua attività di studente che, ammesso allo studio della Somma Teologica, per quattro anni fa suo pane quotidiano (oh, quanto secco, e qualche volta senza companatico!) ogni articolo di san Tommaso, che egli o deve imparare a memoria o deve riferire nel suo contenuto sostanziale.

In quel breve periodo è svelato il mistero del primo contatto dell’intelligenza di fra Reginaldo col pensiero tomista: le lacrime sparse sulle immortali pagine della Somma, non risonarono sopra queste come sopra fredde lame d’acciaio, ma formarono nel cielo tomista uno schermo iridescente, attraverso il quale la luce del Sole d’Aquino, filtrando dolcemente nello spirito del giovane fra Reginaldo, lo abilitava soavemente ad aprirsi gigante su vasti e nuovi orizzonti.

/42/ Ci fu un professore che ebbe su lui un influsso decisivo: il P. Antonio Rohner.

Gli altri erano i rappresentanti d’una forte tradizione avente il culto del testo tomista sia per la spiegazione secondo i Classici della Scuola, sia per la difesa contro antichi oppositori specializzati del reparto scolastico: squartatori di fili di ragnatele.

Egli veniva a Chieri da un altro ambiente intellettuale, con una mentalità vigorosa e sensibile alle questioni sollevate dal Protestantesimo, dal Modernismo, dal Socialismo: i tre aspetti della questione spirituale che travaglia ancor oggi la società nostra.

Dall’esposizione calda e luminosa del P. Rohner – che sottolineava i grandi passi dialettici – l’attualità del pensiero tomista emergeva in tutta la sua efficacia.

Il teologo che avvicinava le nozioni metafisiche – con le quali san Tommaso analogamente dilucida i dati della dottrina rivelata – alle nostre anime entusiaste, ci faceva vibrare sotto l’azione dominatrice della verità, esplicante la sua forza armonizzatrice nel dominio della fede.

Così, io penso, nacque nel «poeta» fra Reginaldo, il «mistico dell’azione», in perfetta e inflessibile ortodossia, in consapevole disciplina di pensiero e di vita. Questa intuizione dello sviluppo psicologico di fra Reginaldo nella formazione della sua personalità morale, emergente dai miei ricordi nello sguardo complessivo della sua vita, non è una semplice valutazione soggettiva.

/43/ Essa è pienamente aderente all’ulteriore sviluppo della sua attività apostolica ed è avvalorata da una sua composizione su San Tommaso intero per la Fiorita del 23 maggio 1910: perchè il Circolo «Fra Gerolamo Savonarola» soleva pubblicare per quella data un numero unico compilato da diversi autori – diciamolo pure con tutta semplicità – in omaggio al suo protettore.

In questo articolo il poeta e il teologo confluiscono per creare nell’interiore fulgurazione spirituale il mistico dell’azione, che nella sintesi del grande Dottore coglie il senso integrale d’un programma di vita.

Mi piace riportarlo per intero, anche perchè questo è nuovo documento di quegli anni nei quali andò formandosi la forte personalità del P. Giuliani e ho paura che, essendo produzione giovanile, conosciuta da pochi anche nell’ambiente cattolico, non abbia altrove l’onore d’una pubblicazione.

Nella breve pagina introduttiva, il criterio estetico lascia intravedere il poeta della vita interiore, che dal teologo è messo a servizio del mistico dell’azione.

San Tommaso intero

L’epopea religiosa dell’umanità comprende tre episodi cantati dal genio di Dio e dal genio dell’uomo in tre opere immortali: I Profeti, Il Vangelo e la Somma di san Tommaso.

La giovane natura che s’agita al soffio delle pas- /44/ sioni indomite è l’eroe del primo episodio: nel secondo è la voce del Cristo mite e solenne che svela la dignità e la forza della volontà umana, mentre che il terzo ci trasporta tra i fulgori dell’uomo trasfigurato, nel regno della pura intelligenza. Passione, cuore e mente, ecco le note dominanti della sublime trilogia; le quali, pur caratterizzandone ciascuna delle differenti parti, convengono tutte unitamente sia al Vecchio Testamento, sia al Nuovo, sia alla Somma: passione, cuore e mente essendo l’uomo intero, devon tutte brillare su ciascuna delle tre opere, la cui missione è di sollevare a Dio tutto l’uomo. Come adunque con le minacce dei Profeti sulle passioni frementi si cantano i trionfi della volontà umana e l’alba della rivelazione Divina, come il Vangelo assieme ai precetti del Cristo ce ne racconta le amarezze, l’odio dei nemici, e ci svela tutta la verità religiosa, così nella Somma dell’Angelico col volo dell’intelligenza sull’ali della fede e della ragione si innalza la virilità cristiana, regina di sè e delle sue passioni. Nella Somma adunque abbiamo non solo la luce dell’intelletto, ma l’amore e la lotta, abbiamo tutta la vita dell’uomo.

L’intellettualismo di san Tommaso non ha avuto oppositori: i suoi nemici non lo negarono, lo esagerarono, e lo esagerarono a segno da affermare che san Tommaso considerò l’uomo come sola intelligenza, trascurandone il cuore e le passioni. Questa accusa, accettata anche in parte da uomini che si gloriano del nome di neotomisti, è il più grande insulto che si possa fare al Santo Dottore, /45/ perchè essa nega alla sua dottrina, e quindi, giacche l’uomo è com’egli pensa, alla sua persona, la finalità veramente cristiana d’illuminare l’intelletto affine di muovere la volontà: è negare a san Tommaso l’aureola del santo.

Se volessi rispondere formalmente a questa doppia accusa sulla dottrina e sulla vita del nostro sommo maestro, potrei servirmi di molte fonti: ma per attenermi a un lavoro più personale, io non farò che riportare alcune note di scuola raccolte su quella parte della Somma che finora ho scorso (I, q. 1-82; I-II, q. 1-109), mostrando che la dottrina di san Tommaso ci rivela: 1° che le passioni ebbero la loro parte nella sua vita; 2° che una volontà nobile e forte, era la compagna della sua intelligenza superiore.

1° – San Tommaso e le passioni

Nel trattato della Virtù, san Tommaso, dopo che ne ebbe analizzata l’essenza, si ferma un istante per domandarsi in quale rapporto essa si trovi (I-II, q. 59) con le passioni, da lui esaminate nelle questioni immediatamente precedenti.

Questa domanda se l’eran già fatta i migliori filosofi di Grecia e di Roma, e mentre i Peripatetici rispondevano che la passione ad medium reducta poteva stare con la virtù, gli Stoici ponevano l’ideale della perfezione nell’uomo senza passioni. Il Santo stoico non tocca ne è toccato dal mondo; egli rimane in un’indifferenza assoluta per tutto ciò che è mutevole; costante in ogni evento pro- /46/ spero o avverso, giusto o benevolo con tutti senza aver bisogno di niente e di nessuno.1

Quantunque la mente conciliativa di san Tommaso sulle orme di sant’Agostino, abbia ridotto al nulla le differenze dottrinali delle due scuole, asserendo che gli Stoici, sotto il nome di passione intendevano i moti sregolati dell’appetito sensitivo, tuttavia la storia è là a provarci, anche con autobiografie psicologiche (I ricordi di Marco Aurelio) la vita imperturbabile di Marco Aurelio, il re degli Stoici, che se ne rimane come uno scoglio, tra i marosi delle passioni dell’Impero Romano che si sfascia.

L’autopsicologia tomista ci presenta altrimenti la figura del Santo. Tutta la natura dell’uomo è da lei consacrata e portata alla perfezione: ora questa natura non è solo intelligenza che si sazi del vero, non solo volontà da non bramare che amore, ma è ancora senso che si diletta nelle armonie dei canti e dei fiori. È san Tommaso che sotto la sua mano delicata ed agile ha fatto vibrare, in 27 questioni (I-II, dalla q. 22 alla q. 48) tutte le corde di quest’arpa, ha tratto da ciascuna una voce, per il grande poema della santità.

Il Santo per lui è un cavaliere sempre in arcione: dopo che il peccato originale è venuto a /47/ contestargli lo scettro nel piccolo regno delle sue passioni, egli deve contendergli il terreno a palmo a palmo.1 Il nemico non sono le passioni: indifferenti per sè al bene ed al male, al vizio ed alla virtù, esse costituiscono la conquista, il bottino dell’uno o dell’altra (I-II, q. 49, art. 2 e q. 24). Abbandonate alla mercè della natura corrotta dilacereranno, nell’anarchia delle tre concupiscenze (concupiscentia carnis, concupiscentia oculorum, et superbia vitaeI Joan. II, 16), le speranze della vita individuale e sociale: dirette invece saggiamente dalla ragione saranno l’aiuto e l’ornamento della virtù. (I-II, q. 24, art. 2 ad 3). Ma, si dice, la Chiesa canta di san Tommaso: Pestiferae superbiae numquam persensit stimulum: (Off. S. Tomm.), questa lotta adunque, non venne a scuotere la placida natura di lui. Angelo in carne, egli visse nella carne, come senza carne, e quindi senza passioni.

San Tommaso era un angelo, e come gli Angeli del cielo in un istante si guadagnarono la beatitudine del cielo, così lui, l’angelo della terra, in un istante si guadagnò la virtù, che è la felicità della terra. La sua vita, è vero, non fu una lotta, ma un trionfo. La lotta è stata combattuta a Roccasecca mentre Satana si avvicinava di fuori, e la concupiscenza fremeva di dentro: con un eroismo degno dei canti d’Omero, il santo giovane vinse /48/ l’uno e l’altra. Allora al volo degli Angeli che in premio venivano a cingergli i lombi, facevano eco tutte le potenze dell’anima sua in una perfetta armonia.

Il trionfo inaugurato in quel giorno non era incompleto: le passioni non insorgeranno più contro di lui, perchè il trionfo non è la lotta, ma esse verranno tutte portando l’omaggio della loro sudditanza alle virtù morali dell’Angelico Dottore. Dalla sua viva intelligenza scenderanno i raggi di luce ad illuminare la sensibilità della natura inferiore, ed i polisillogismi usciranno allora dalla sua penna, interpolati da qualche pepato argomento ad hominem,1o al caso di Davide da Dinando, da uno stultissime posuit.2

Il piacere è per san Tommaso una perfezione dell’atto (I-II, q. 33, art. 4), perfezione che non doveva certamente mancare alle sue azioni compitissime. Ma tra le passioni, la prediletta pare che fosse la malinconia a quella malinconia che tutti i Santi hanno provato, e di cui gli antichi dicevano che il genio non può stare senza ella». (P. Lacordaire.) Ispirandosi al Cristo che confessò: «Tristis est anima mea usque ad mortem» (Matt. XXVI, 38), egli annovera i mali che cagionano la tristezza nel Santo: dolori corporali – piccoli peccati, da cui, secondo il saggio, nessuno è immune – i peccati del passato ed i peccati al- /49/ trui; e poi, aggiunge che questa tristezza è utile ancora per allontanare dal male, giacchè «come il diletto ci sollecita nel bene, così e più fortemente ci stacca dal male la tristezza.» (I-II, q. 39, art. 3 in corp.)

Meglio però ci dipinge la dolce e serena malinconia che inondava il suo genio e il suo cuore, quando scrive che essa è quella che impedisce la divagazione dell’animo e lo chiude nella meditazione dei misteri di Dio. (I-II, q. 37, art. 1 ad 1.) Il suo occhio ampio e profondo che dagli spalti del castello paterno o dai bruni chiostri di Montecassino era adusato posarsi sulle solitarie coste della Campania aveva presto scoperto il vuoto delle cose mondane, e provato il desiderio ardente dell’infinito, mentre che il cielo di cobalto e l’oceano e le foreste tremanti alla brezza marina versavano nel suo cuore quella malinconia, divina nostalgia del cielo, che doveva dettargli le pagine più elevate della Somma Teologica.

2° – San Tommaso e la volontà

Dalla prima parte della Somma (q. 82, art. 3), gli avversari ebbero appiglio per rimproverare a san Tommaso (ben a torto: il volontarismo, l’americanismo, e gli eccessi dell’apologetica dell’immanenza dimostrarono ancora una volta, quanto sia preferibile la tesi tomista della preminenza intellettuale sulla volontà, di fronte alla scotista che la nega) la degradazione della volontà dell’uomo: ma innanzi al grande monumento che san Tom- /50/ maso le eleva con tutta la seconda parte, devono tacere.

Noi abbiamo assistito nella prima parte, alla creazione fatta da Dio; ora assistiamo alla creazione, opera dell’uomo. Il nostro maestro ce ne avvisa fin da principio: «restat ut consideremus de homine, secundum quod et ipse est suorum operum principium, quasi liberum arbitrium habens et suorum operum potestatem1 (In prologo.)

La volontà2 è adunque il grande principio di questa seconda creazione che ci formerà l’uomo perfetto, ornato di tutte le virtù acquisite o infuse, il santo cattolico.

Questa potenza creatrice ha due manifestazioni: l’intenzione e l’elezione.

1° – L’intenzione è l’atto con cui la volontà si porta ad un fine. Chi dice fine dice Dio: e Dio infatti è per san Tommaso l’oggetto proprio della volontà. Essa si poserà su cento cose, come la farfalla sui fiori, ma nessuna riuscirà a saziarla: solo Dio le basta. (I-II, q. 1-5.) Come il cervo desidera la sorgente delle acque, così l’anima sua sospirava al suo Signore: e questo anelito a Dio si innalza da ogni pagina di questo poema, come una colonna d’incenso, nel profumo della virtù. Quale /51/ ferma adesione di questo re del pensiero alla fede cattolica! Dopo essere arrivato con l’aiuto di lei, a porre dei principii e a dare delle distinzioni, che essa sola poteva scoprire nell’ordine delle stesse verità naturali,1 si ferma adorando, senza le vane pretensioni di qualche dottore precedente, il mistero: «tenendum est firmiter, secundum fidem catholicam) I, q. 64, art. 2).... «veritas Scripturae inconcusse teneatur» (I, q. 68, art. 1).

E quei lunghi articoli De lege veteri, che qualcuno fu tentato di chiamare trastulli del Medioevo, non sono essi forse la più alta giustificazione che la ragione abbia dato dell’increata Sapienza? È qui che il cuore di san Tommaso palpita nel suo primo amore, è qui che si diffonde nella più forte luce del suo genio, perchè qui egli difende i diritti di Dio. Dalla prima pagina all’ultima della sua Somma, egli insegna inoltre una dottrina, da più di tre secoli combattuta, ma non vinta, una dottrina a cui fu rimproverato ingiustamente di conculcare i diritti dell’uomo, senza pensare ch’essa invece è la più pura espressione dei diritti di Dio. La scuola domenicana che con tutta ragione si è meritata particolarmente in questa questione, il titolo glorioso di scuola tomista, come cercherà sempre la sua pura dottrina in questa miniera, così qui ancora attingerà la forza di proseguire fortemente la difesa dei diritti di Dio.

Dopo Dio viene l’uomo: e l’amore del prossimo /52/ è ancor esso così potente da non ammettere discussione. Due note lo caratterizzano: l’ottimismo e il conciliativismo. San Tommaso sa ben distinguere il cattivo dal buono.1 Non rigetta mai totalmente un’opinione che abbia una minima parte di vero,2 anzi è sorprendente la sua finezza nello scoprire il lato buono delle opinioni errate, specialmente quando si tratta di Santi Padri, al cui riguardo, nella correzione stessa ha una delicatezza impareggiabile,3 anche a costo di sacrificare il suo metodo abituale semplicista, per dare qualche spiegazione un po’ ritorta. Nell’incerto espone la sua sentenza con una grande modestia, ed a questo riguardo ha dei principii esegetici e sperimentali che avrebbero giovato un mondo, per esempio, agli Antigalileiani.4

Chi non ha, infine, rilevato il generoso metodo conciliativo del santo Dottore? In ogni pagina, in capo della maggior parte dei suoi articoli, egli pone le opinioni dissenzienti, e con acuità senza pari, ne mostra i punti di contatto, e ne fa sparire le divergenze, mentre che Zenone ed Aristotele, Socrate e Platone, Aristotele e sant’Agostino si abbracciano. È l’amore che dirige la sua mano in quell’anatomia del pensiero: e l’amore è la concordia, l’amicizia.

/53/ 2° – L’elezione è l’atto con cui si scelgono i mezzi atti a condurre ad un fine determinato: questa scelta è la libertà stessa. Libertà, grande parola, cbe ha scosso tutte le fibre del Dottore Angelico. Guglielmo di Tocco, suo discepolo e storico, batte su ciò, che l’opera del Maestro, era opera di libertà: libertà di metodo, di dottrina; di questioni, di ragionamenti.... E questa libertà limitata solo dal giusto e dall’onesto, non era solo libertà dalla tradizione, dagli altri. Il Genio che così sovente, dopo aver dominato gli altri, cade sotto la schiavitù di se stesso, in san Tommaso s’alzò tanto alto da dominar anche sè, e la Somma ci è testimone di questi voli della sua Volontà in cui il grande Maestro con un tratto di penna cancella un pensiero che gli era tanto costato, ma che alla luce di nuove rivelazioni si oscurava.

Ma l’inno della libertà è cantato da san Tommaso nel trattato De lege nova. (I-II, q. 106-108.) Ispirato al grido dell’Apostolo: «Qua libertate Christus nos liberavit» (Ad Galatas, IV, 31), egli spezza con vigorosa dialettica le catene della legge mosaica, assieme allo zelo indiscreto di coloro che vorrebbero rendere troppo minuziosi i precetti della libera vita cristiana (I-II, q. 107, art. 4).

È così che la personalità di san Tommaso si rivela tutta intera nella Somma Teologica sotto il duplice aspetto teorico e pratico. Questa grande /54/ figura appare a chiunque ne studi l’opera con intelletto d’amore, senza pregiudizi, come, in qualcuno dei capolavori del genio toscano, sotto le sembianze di un Cristo o di un Santo, si rivela il ritratto dell’artista.

Fra Reginaldo Giuliani

Mentre pazientemente compiva il corso teologico sulla Somma di san Tommaso, date preziose s’incidevano sulle tavole d’oro del suo spirito: il 10 ottobre 1909 faceva la sua professione solenne nelle mani del P. Stefano Vallaro, Provinciale; e fu allora che alla formola rituale, aggiunse un pensiero grande di dedizione generosa: «.... sarò obbediente fino alla morte.... e morte di croce»; il 24 settembre 1910 fu ordinato suddiacono nella Cappella del Seminario metropolitano di Torino, da Sua Ecc. Mons. Costanzo Castrale; il 29 luglio 1911 fu ordinato diacono nella chiesa di Sant’Antonio dei RR. Padri Gesuiti di Chieri, da Lorenzo Angelo Bartolomasi (Pianezza 1869 - 1959) fu dal 1910 al 1919 Vescovo titolare di Derbe e Vescovo Ausiliare di Torino; altre notizie in →  nota a Le Vittorie di Dio Card. Agostino Richelmy (Torino 1850 - Torino 1923) Vescovo di Ivrea, poi Arcivescovo di Torino dal 1897, Cardinale dal 1899 Sua Ecc. Mons. Angelo Bartolomasi vescovo ausiliare di Torino; il 23 dicembre 1911 ricevette l’ordinazione sacerdotale nella Cappella privata dell’Arcivescovado, da Sua Eminenza il Cardinale Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino.

L’ideale vagheggiato era raggiunto come possesso dell’«ufficio.... di spezzare al popolo il cibo della scienza divina e di amministrare i sacramenti» com’egli scriveva con raggiante semplicità il 16 aprile 1903. Con l’ordine, infatti, egli era perfezionato socialmente, ricevendo la potestas re- /55/ gendi multitudinem nel modo e nelle vie che la Provvidenza avrebbe disposto.

E poichè il Sacramento dell’Ordine è efficace medicina contra dissolutionem multitudinis egli si sentiva doppiamente gioioso di lottare contro lo sgretolamento sociale provocato dalle teorie sovversive dilaganti; di lavorare intensamente per ridonare alla società lo splendore dell’ordine cristiano, incidendo nei cuori la Croce luminosa del Redentore divino.

Intanto egli, nel raccoglimento supremo, finirà i suoi studi.

Lo studio delle Scienze Filosofiche e Teologiche, secondo il programma saggiamente ordinato nello Studio Generale di San Domenico di Chieri, avevano attrezzato la mente di fra Reginaldo in modo da renderlo sempre meglio disposto alla sua futura opera di apostolato per «spezzare al popolo il cibo della scienza divina».

Nell’ultimo anno del suo studio teologico, egli raggiunse una tale maturità spirituale che, con la profondità dei suoi studi nelle varie discipline ecclesiastiche: Sacra Scrittura, Patrologia, Eloquenza Sacra, Diritto Canonico, Teologia, Storia Ecclesiastica, mette in rilievo anche uno speciale orientamento della sua vita interiore.

Non avrei osato additarlo alla considerazione di tutti, se non ne avessi trovato una indiscutibile attestazione che mi ha permesso di dire anche questo.

L’11 marzo 1912, il P. Reginaldo Giuliani fece un «Circolo» discutendo l’articolo di san Tom- /56/ maso: «Se il martirio sia atto di fortezza» (Somma Teologica, II-IV, q. 124, art. 2).

Il «Circolo» è una classica esercitazione della Scuola, nella quale colui che difende la tesi espone l’argomentazione che la giustifica e l’avvalora. Poi si alza colui che impugna la tesi e con una serie di argomenti: tre legati in forma sillogistica e tre esposti senza tecnica dialettica, batte in pieno la posizione dottrinale, che dev’essere salvata dall’attacco nemico. Perciò colui che ha esposto la verità deve svolgere i suoi principii dottrinali, polverizzando il macchinario di guerra, che l’errore muove contro la verità affermata e provata.

Qualche volta è la grande strategia, qualche altra, è la piccola guerriglia dello spirito.

Non si può parlare di martirio senza cercare la causa per la quale uno morendo è detto martire. San Tommaso ne parla nell’articolo 5 della stessa questione, domandandosi «se la fede soltanto sia causa del martirio».

Non ricordo come si svolse quel Circolo; io avevo finito i miei studi e, in generale, il «Circolo» è così poco simpatico per uno studente – è invece cosa prelibata per i grandi guerrieri dello spirito che fatta l’esercitazione, si tira un respirone di sollievo.

Però il P. Giuliani ha lasciato tra le sue carte un minuscolo rettangolino di carta bianca, sul quale ha scritto:

«Secondo la teologia cattolica sono veri martiri (?) – certo: contro gli infedeli; opinabile: contro i fedeli – quei che muoiono in guerra civile /57/ giusta, se lo fanno per Dio, per amore della giustizia e della legge divina Charles René Billuart O.P. (1685-1757) teologo francese, scrisse la Summa sancti Thomae hodiernis Academiarum moribus accommodata 1746-1751
François DuBois (“Sylvius”) (1581-1649) commentatore di San Tommaso
(v. Billuart e Silvio).»

Nel verso del rettangolino, egli ricorda alcuni dei grandi eroi:

«Andreas Hofer: eroe tirolese e tedesco; Guglielmo Tell: eroe svizzero; Giovanna d’Arco: eroina francese “il cui nome, come una cupola azzurra si estende su tutta la nostra storia” (Victor Hugo); Balilla: eroe genovese; Pietro Micca: eroe torinese; Maccabei: eroi ebrei; Leonida: eroe spartano; Orazio Coclite: eroe romano.»

In un altro rettangolino più minuto ha lasciato scritte due frasi; l’una di Orazio: «Dulce et decorum est pro patria mori»; l’altra del Carducci:

« Che ben risorge e vince
Chi per la Patria cade ne la santa
Luce dell’Armi. »

Non ho potuto determinare il tempo nel quale fu scritto il duplice documentino, ma non mi pare che ciò abbia eccessiva importanza per quanto c’interessa ora.

A me basta quella noticina relativa ai caduti in guerra «civile» – cioè non propriamente avente carattere religioso – e giusta. La dottrina è precisa e mi ha fatto pensare al Circolo tenuto a Chieri l’11 marzo 1912, quando dovette studiare un po’ più a fondo la questione. Poi ho accolto il suo invito a consultare gli autori citati, ho aperto anch’io i loro grossi volumi e ho capito tante cose nella sua vita: ho capito soprattutto che egli ha vissuto la sua vita teologicamente.

/58/ Se si osserva la prima noticina, egli non osa affermare la caratteristica di martire e tra parentesi mette un punto interrogativo, così: «martiri (?)»....

Il riferimento al Billuart chiarisce tale oscillazione di pensiero (Summa S. Thomae.... Tractatus de Fortitudine, dissertatio, I, art. 2 de Martyrio).

L’autore citato si domanda: «Coloro i quali, non per causa della fede sono uccisi in una guerra giusta, soltanto per la difesa del bene comune, ammesso che militino con riferimento a Dio, per esempio, per soddisfare al dovere di giustizia sociale per la quale sono in obbligo verso la Nazione, sono essi martiri?». E risponde: «Non ita constat». Il P. Giuliani traduce: «opinabile».

Appoggia la sua risposta a san Tommaso il quale nell’art. 5 della questione sul martirio, nell’ad 3 osserva:

«Il bene sociale è il principale tra i beni comuni. Ma il Bene divino, che propriamente è la causa per la quale si subisce il martirio, è da più del bene umano. Tuttavia, poichè il bene umano può divenire divino, come quando si riferisce in Dio, perciò qualunque bene umano può essere la causa per la quale si subisce il martirio, purché si riferisca in Dio.»

Poi cita il pensiero del Silvio:

«Lo stesso pensa il dottissimo interprete di san Tommaso, il Silvio, commentando questa risposta e dice che coloro i quali per la difesa della Nazione sono uccisi in una guerra giusta, possono essere martiri (ecco la spiegazione del «?») se la difendono per Dio, con amore della giustizia e /59/ della legge divina; poichè così muoiono per non abbandonare il dovere della virtùposse esse martyres si illam defendant propter Deum, amore justitiae et legis divinae; sic enim moriuntur ne virtutis officium deserant

Il testo del Silvio (Commentarii, II-II, q. 124, art. 5, ad 3) è degno di nota, perchè ha un aspetto positivo – già riferito dal Billuart – e un aspetto negativo: «nella risposta alla terza difficoltà, nota che coloro i quali per la difesa della Nazione sono uccisi in una guerra giusta, possono essere martiri se la difendono per Dio, con amore della giustizia e della legge divina, non però se lo fanno in vista della paga militare o del bottino o per qualche altra intenzione o cattiva o riferentesi a un bene soltanto umano – posse esse martyres si illam defendant propter Deum, amore justitiae ac legis divinae, non vero si stipendii militaris aut praedarum intuitu aut alia aliqua intentione vel prava vel bonum dumtaxat humanum spectante».

Il Billuart mi sembra che, riferendo l’aspetto positivo messo in rilievo dal Silvio, ne ha giustificato il valore con quel suo splendidissimo argomento: «Perchè così, muoiono per non abbandonare il dovere della virtù».

È pure da ricordare un’osservazione di san Tommaso nel Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo e che si trova anche nel Supplemento alla Somma Teologica (q. 96, art. 6, ad 9) parlando dell’aureola dei Martiri:

«Sufficiente causa di patire il martirio è non soltanto la confessione della fede, ma qualunque /60/ altra virtù non civile, ma infusa la quale ha per fine il Cristo. Perchè con qualunque atto di virtù uno diventa testimone del Cristo, in quanto che le opere che il Cristo compie in noi, sono testimonianze della sua bontà.»

E con uguale chiarezza, rispondendo ad un’altra difficoltà (ad 11) dice:

«Quando uno subisce la morte per il bene comune non riferito a Cristo, non merita l’aureola. Ma se questo è riferito al Cristo, meriterà l’aureola e sarà martire, come se uno difende la Nazione dall’assalto dei nemici che tentano di corrompere la fede di Cristo e in tale difesa incontra la morte.»

Ho riferito obiettivamente il pensiero di quegli autori ai quali ci rimanda il P. Giuliani nella sua breve noticina sul martirio, perchè meglio si comprenda la sottostruttura teologica del suo spirito e più limpidamente si percepisca – se non manca la facoltà visiva – da quali profonde sorgenti sgorgava la mistica della sua azione.

Per ora, queste idee-madri, fornite dal più robusto pensiero teologico, sono come germi nascosti nel solco profondo della terra silenziosa. Forse è già cominciata la loro germinazione nelle pieghe recondite dello spirito, scaldato dal raggio fecondatore della carità, virilizzato dal segno incancellabile del carattere sacerdotale, ma non possiamo andare oltre la soglia, sulla quale s’arresta il nostro piede, mentre il nostro spirito con riverenza si raccoglie, meditando in silenzio il mistero di Dio.

/61/

Il programma d’azione apostolica del P. Giuliani l’abbiamo visto tracciato da san Tommaso in quelle parole già citate:

«Bonum reipublicae est praecipuum inter bona humana.... tamen.... bonum humanum potest effici divinum, ut si referatur in Deum1

Tutto lo sforzo d’azione del P. Giuliani convergerà verso questo scopo: dare a tutto ciò che è bene umano e al bene sociale, che tra i beni umani è il principale, questo riferimento in Dio, affinchè il bene umano possa diventare divino!

Il 27 giugno 1912, il P. Reginaldo Giuliani si presentava all’esame di «letterato in sacra teologia» con la tesi: la resurrezione dei corpi. L’esame andò bene e il titolo di «lettore» gli fu concesso, non tanto in vista della scuola per la quale non era portato, quantunque ne avesse la capacità, quanto per quel certo senso di onore che quel titolo rappresenta nella tradizione dottrinale dell’Ordine e che è presupposto per certi particolari incarichi d’interna amministrazione.

Il 27 settembre dello stesso anno, egli faceva l’esame per le Confessioni ed era approvato.

Aveva venticinque anni: dopo un perseverante e tenace lavoro di preparazione, egli aveva raggiunto il suo sogno di apostolo.

Egli è pronto per il lavoro: la formazione do- /62/ menicana è stata completa; parrebbe che questa «lampada ardente e luminosa» dovesse esser messa subito sul candeliere. Pure, senza esser messa sotto il tavolino, sembra che, umanamente parlando, non abbia avuto subito il suo posto d’onore: lo storico pensa a Torino, la grande città, dove il suo spirito aveva avuto i primi palpiti verso la vita superiore. Invece, passeranno nove lunghi anni prima che egli sia assegnato al Convento Domenicano di questa città.

Tempo perso? Chi ha spirito di fede risponde: no! Chi ha senso storico soggiunge che anche questo nuovo periodo ebbe il suo valore nello sviluppo ascensionale della vita del P. Giuliani.

L’irradiazione apostolica di questo classico Frate Predicatore, che nel breve periodo di ventiquattro anni spiega un’intensa attività luminosa, si svolge in due fasi distinte delle quali possiamo segnare i diversi momenti di evoluzione.

1° –Insegnante di lingua italiana nel Ginnasio della Scuola Apostolica Domenicana di Chieri e di storia civile agli studenti del Collegio filosofico (1912-1913).

2° –Uomo di azione apostolica nel convento di Trino Vercellese con un campo di lavoro limitato al Piemonte (1913-1916).

3° –Richiamato sotto le armi con la classe dell’87; dal Corpo di Sanità, passa Cappellano Mili- /63/ tare del 55° Fanteria. In servizio per la Patria, egli rivela le sue doti eccezionali (1916-1919). La sua autobiografia è consegnata nel libro Le Vittorie di Dio, nella monografia: Il 55° Fanteria e nel libro Gli Arditi.

4° –Il Cappellano della Gesta Fiumana «dove egli è fiaccola d’amore e lampada di sacrificio» (1919-1920).

5° –Il Frate Predicatore nel Convento di Trino Vercellese (1920).

6° –Il Professore di Apologetica nel Convento di Chieri (1920-1921).

7° –La «lampada ardente e luminosa» nel Convento di Torino:

IIl primo soggiorno a San Domenico di Torino (1921-1928).

IIMissione nell’America del Sud (1928).

IIIIl secondo soggiorno torinese (1929).

IVMissione nell’America del Nord (1929-1931).

VIl terzo soggiorno torinese (1931-1935).

VIA servizio della Patria nella Gesta Africana (1935-1936), della quale parla questo libro, che raccoglie i suoi ultimi pensieri e racchiude l’ultimo riflesso del suo spirito immortale nel costante anelito di dare all’uomo il senso di Dio.

Il P. Filippo Robotti che prepara la vita del P. Giuliani penserà a lumeggiare i singoli momenti di questa vita apostolica nel suo vasto sviluppo di /64/ lavoro, che abbraccia i campi più disparati e le regioni più lontane.

Il mio compito è più modesto, non dico più facile. Vorrei, anche in questa turbinante attività, rilevare alcune linee interiori di spirituale sviluppo, alcuni motivi che ritornano, a modo di più slanciata ripresa, nella potente sinfonia di gloria che fu la sua vita di apostolo. Vorrei giustificare, con serena obiettività storica e con riverente affetto, le geniali intuizioni del nostro veneratissimo Pastore e Padre, Sua Eminenza il Maurilio Fossati (Arona NO 1876 - Torino 1965).
1924: Vescovo di Galtellì-Nuoro;
1929; Arcivescovo di Sassari;
1930 Arcivescovo di Torino;
1933 Cardinale.
Durante la II G.M. salvò molti ebrei e aiutò i partigiani; nel dopoguerra lanciò il movimento dei “cappellani del lavoro”.
“Deferente verso le autorità costituite (anche il regime fascista), non fu mai servile (le parole più elogiative le pronunciò in occasione della guerra di Etiopia), ma prudente e schietto sempre.” G.Tuninetti, G.D’Antino Il cardinal Domenico Della Rovere, costruttore della cattedrale, e gli arcivescovi di Torino dal 1515 al 2000 Cantalupa TO 2000
Cardinale Maurilio Fossati arcivescovo di Torino in una sua lettera del 30 aprile 1936 al Molto Reverendo Padre Enrico Ibertis, Provinciale della Provincia di San Pietro Martire, alla quale appartenne il P. Giuliani.

«Padre Reginaldo Giuliani» scrive l’Eminentissimo Principe della Chiesa «non può essere tanto facilmente dimenticato dagli Italiani; egli deve rimanere sul candelabro per ripetere ai nemici della Chiesa, se ancora ve ne fosse bisogno, che l’amore di Patria viene sublimato fino all’eroismo dall’amore di Dio e che il Sacerdote ha una missione divina da compiere anche tra l’infuriare delle guerre.»

Se «col suo sacrificio ha consacrato una vita spesa a bene delle anime, come Religioso, come Predicatore, come Cappellano Militare», sarà fraterno e doveroso omaggio alla sua cara memoria, seguire con devoto affetto la linea d’ascensione di questo spirito grande nella perfezione della carità.

/65/ Potremo anche noi contemplare «la figura del P. Giuliani così complessa per i diversi aspetti che assumeva secondo i bisogni delle anime che gli stavano di fronte, e tanto semplice nell’unica finalità sopranaturale di bene» e da questo sguardo, potremo meglio comprendere col valore della vita cristiana, il dovere dell’ora presente.

Perchè, conchiude con mirabile intuizione Sua Eminenza, «tra le mura del Convento o sui pergami delle grandi cattedrali d’Italia, o nelle trincee, P. Giuliani è sempre il Religioso osservante, il Sacerdote integerrimo, il Domenicano co’ suoi tre grandi amori a Dio, alla Chiesa, alla Patria, ai quali si può ben aggiungere l’amore al suo Ordine.

La morte in lui ha spezzato una fibra d’acciaio, ma non una vita, perchè egli continuerà la sua missione di Apostolo anche oltre tomba e la sua memoria sarà in benedizione».

Questi autorevolissimi giudizi mi hanno tracciato la strada e con sì eminente Guida sono sicuro che il mio cuore di fratello, di amico, e di collaboratore – com’egli stesso più volte si degnò chiamarmi – non mi tradirà.

Per quanto difficile sia il compito che mi sono assunto, spero di riuscire ad assolverlo bene anche in questa seconda parte, nella quale, attraverso il complesso tessuto della sua attività apostolica, intendo mettere in rilievo la semplice e costante linea ascensionale del suo spirito interiore, che anima il suo fervore apostolico.

In tal modo, da questo libro che, postumo e in- /66/ completo, esce alla luce per narrare il preludio dell’epica gesta africana, egli stesso, come «apostolo della Patria», potrà continuare a dire alle generazioni presenti e future come ogni bene umano possa diventare divino, se a Dio sia riferito e come a Dio possa riferirsi.

Così ritroviamo il motivo, emerso dalle precedenti indagini, fatte sulla scorta dei documenti più autentici, del suo spirito tutto permeato di vita soprannaturale.

E siamo, io penso, nella condizione giusta, per comprendere anche storicamente, il senso preciso di questo Mistico dell’azione, il quale, in un modo così mirabile, ha mostrato quanto inesauribilmente feconda sia la vitalità del Sacerdozio Cattolico per la salvezza degli uomini e delle umane istituzioni, quando abbia a suo servizio spiriti generosi, consacrati al sacrificio dalla vita religiosa.

Quando il 30 luglio 1912 fui ordinato Sacerdote raggiunsi il P. Reginaldo e, passate le vacanze, all’inizio dell’anno scolastico 1912-1913, ci trovammo insieme per l’insegnamento nella Scuola Apostolica ai nostri cari giovani. Nulla di speciale, il solito giro di occupazioni ci prese, lui sempre gioviale, semplice, modesto: anche quando spiegava le ali per i primi voli apostolici nei dintorni di Chieri e in Chieri stessa, quando ritornava, sembrava uno qualunque. Era però contento, quando /67/ – come diceva – «andava bene» e questo voleva dire non tanto che la predica gli era riuscita, quanto che la sua parola aveva fatto frutto nelle anime.

Ricordo soltanto che il 15 novembre 1912, ritornando da Torino mi dette due pagelline dicendomi:

— Prendi, ho fatto scrivere anche te in questa associazione per i benefizi spirituali che vi sono annessi. —

Una di queste pagelline portava un quadrante sul quale era segnata l’ora di adorazione che, anche per lui, credo fosse dalle sei alle sette del mattino; l’altra attestava l’iscrizione nell’«Associazione delle Anime Vittime in unione ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria».

Lo scopo è il seguente: «Le anime vittime si abbandonano senza restrizione al Cuore adorabile di Gesù, affinchè disponga di loro come gli piacerà, accettando anticipatamente tutte le pene e le sofferenze dell’anima, del corpo e dello spirito che a Lui piacerà di mandar loro, in ispirito di riparazione, per cooperare con le proprie immolazioni alla maggior dilatazione del regno del Cuore di Gesù; per ottenere l’esaltazione della Santa Chiesa; benedizioni abbondantissime sul Sacerdozio Cattolico, e la salvezza delle anime».

Gli feci osservare che con i nostri voti – olocausto e consacrazione di tutto a Dio – nulla più ci rimaneva da offrire o da accettare, dal momento che l’abbandono di tutto il nostro essere per la Sua gloria e per la salute delle anime era completo.

/68/ Mi rispose:

— È vero, ma per noi questa devozione può essere un richiamo. —

Nulla si aggiunge all’offerta fatta nello slancio della fede che ha rapito la nostra giovinezza, ma il «richiamo» quotidiano all’offerta fatta è disposizione eccellente al quotidiano sacrificio.

Capisco ora che egli era molto devoto e aveva molto spirito di fede.

Il 18 maggio 1913 io ero destinato alla nostra missione di Costantinopoli e così ci dovemmo separare: ci ritrovammo a Chieri il 7 marzo 1921 quando vi ritornai dall’Oriente.

Era sempre lo stesso, ma nel frattempo aveva acquistato un’amabile fierezza e una tempra d’animo che gli rifulgeva negli occhi con bagliori di soavità conquistatrice.

Nulla mi disse delle sue cose passate, molto si interessò delle mie avventure di missione e poi si conchiuse di lavorare dove si era.

Così che per quel tempo durante il quale fummo tanto distanti l’uno dall’altro, debbo ricorrere alle sue testimonianze, quali possono raccogliersi dai suoi scritti inediti o stampati.

Il 30 ottobre 1913 il P. Giuliani fu assegnato nel Convento Domenicano di Trino Vercellese. L’uomo d’azione, in quell’ambiente tutto speciale, ebbe modo di esplicare il suo zelo apostolico nella predicazione della parola di Dio, che lo tenne occupato per quasi tre anni.

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Tra le sue carte, c’è l’abbozzo d’una relazione, pubblicata poi nel Bollettino bimestrale dell’Arciconfraternita della Santa Agonia di Nostro Signor Gesù Cristo nell’Orto (maggio-giugno 1915) e che riguarda un episodio della sua vita apostolica, verificatosi nel novembre 1914.

Esso riflette un interesse particolare per noi, perchè rispecchia fedelmente la lotta di quei tempi, aspramente impegnata tra il pensiero cattolico e il pensiero socialista e ci manifesta l’atteggiamento interiore del «nuovo atleta del Signore». Anche nell’abbozzo, egli parla in terza persona quasi a nascondere o scancellare se stesso. Solo nell’ultima frase, sfuggitagli dal cuore sulla tomba del giovane convertito, egli oppone al grido forsennato e blasfemo dei «rossi», il suo atto di fede e di amore, con accento personale che impressiona..

«Gesù agonizzante e la Vergine del Santo Rosario ci hanno dato una chiara e indiscutibile prova dell’onnipotente loro bontà. Nella seconda metà dello scorso ottobre, giaceva infermo disperato dai medici, un giovane ventitreenne, che per sua disgrazia era stato uno dei capi del movimento socialista del paese. I suoi compagni della Lega continuavano le visite, incoraggiando il moribondo a rifiutare i sacramenti, affine di potergli fare, dopo morto, la sepoltura civile: il nuovo scandalo che /70/ i sovversivi vorrebbero dare ad ogni costo alla nostra cittadina.»

Coloro i quali hanno visto, vedono, o vedranno nel movimento socialista un indirizzo sociale di indole esclusivamente economica, sono invitati a riflettere su queste parole del P. Giuliani che mettono a nudo l’interiore struttura anticristiana e disumana di tale movimento.

«Ma attorno al letto dell’infermo, venivano pure spesso alcune pie vicine di casa, che, tra un servizio e l’altro, suggerivano al malato la confessione e lo ammonivano a rinsavire.

«Queste buone parole non parevano ad altro atte che a turbare il malato e a provocare escandescenze dannose alla sua stessa infermità.

«Si tentò un’ultima prova: il Padre Domenicano che predicava il mese di Ottobre fu introdotto quasi furtivamente nella camera del malato, mentre egli smaniava protestando di non volerlo ricevere.

«Le buone grazie del Padre non riuscirono ad altro che a potersi trattenere circa un’ora e mezzo col malato, nonostante le sue continue proteste.

«Gli argomenti più seri, le verità più consolanti della fede non parvero scuotere l’ateismo e l’epicureismo più sfacciato del giovane incredulo, che non si potè indurre a dire neppure una preghiera nel suo cuore a Dio.

«Egli ripeteva di volere il Paradiso di qua, non di là.»

La deformità mostruosa del pensiero socialista è tutta in questa semplice relazione di una tra- /71/ gedia giovanile ne’ suoi due atti: ateismo-epicureismo.

Questo si chiama parlar chiaro e non farsi illusioni!

Ecco, un corpo a corpo spirituale – se è lecito esprimersi così – che attua in un momento storico dell’apostolato del P. Giuliani, l’ansia e l’anelito già segnalati nelle pagine precedenti e che non abbandoneranno più questo spirito gagliardo e generoso, fortemente temprato alle lotte del pensiero e della vita.

«E diceva al Padre:

«— Se nel suo cuore Ella stessa non crede a ciò che afferma.

«— Caro mio, come può Ella dire ciò? Se io le giuro che sono pronto a morire per qualsiasi verità della mia santa fede?

«— Ebbene, morirebbe per la sua idea! —

«Contro questo cinismo, nulla valse, e il buon Padre si ritirò con un sorriso e un arrivederci, mentre il malato gli proibiva per un’ultima volta di ritornare a lui.

«Fuori di una grazia specialissima, di un vero miracolo, non c’è nulla a sperare. È di un’ostinazione inconcepibile. Pregate e speriamo.

«Si pregò da tutte le parti e sotto il cuscino del malato fu posta la Medaglia Miracolosa.

«Il Padre tornò dopo alcuni giorni: il malato che da principio tentò novamente respingerlo, si calmò poi e divenne trattabile per una mezz’ora di animata conversazione, in cui si parlò, come si dice, del vento e della pioggia, mentre il Pa- /72/ dre gettava abilmente qua e là qualche parola per far breccia in quel cuore e si conchiuse con una buona stretta di mano, come tra amici e con un arrivederci, questa volta, vicendevole.

«La verità si era aperta la strada e mentre la malattia faceva progressi nel suo corpo, ormai consunto, la salute dell’anima si faceva prossima.

«Ciò accadeva due giorni prima della solennità di tutti i Santi.»

Al mattino della festa, verso le tre, una scampanellata svegliò i Padri del Convento.... eran venuti a chiamare P. Giuliani che accorse dal suo amico moribondo strappato alla disperazione del sovversivismo e vivificato dalla speranza cristiana.

«Sulla tomba – è aggiunto in calce – il socialista gridò: “Noi ti ricordiamo, ma non preghiamo per te”.

«E con un singhiozzo più che di affetto, di rabbia, come alla iena quando le sfugge la preda, son fuggiti arrossendo.

«Io, invece, per te prego, o pecorella smarrita.»

Quando nel maggio 1915, l’Italia entrò in guerra, P. Giuliani mostrò il suo spirito soprannaturale di sacerdote e di apostolo con una preghiera nella quale il poeta, divinatore dei futuri sviluppi di gloria nazionale, dà la mano al cittadino vibrante di generosa dedizione.

Egli compose questa poesia-preghiera, nel set- /73/ tembre e, musicata dal P. Francesco Robotti O. P., fu cantata per tutto il mese di ottobre nelle chiese domenicane:

I

« Fratelli in quest’ora – tremenda di guerra
leviamo concorde – dall’itala terra
un grido d’angoscia – sgorgante dal cuore,
un grido di fede – a nostro Signore.

Ritornello

« Onnipotente Signor degli eserciti,
dona ai tuoi figli una grande vittoria
fa’ che ritorni splendente di gloria
l’Italia nostra ai tuoi sacri aitar.

II

« Per l’aspre montagne – pei mari incantati
che Tu, o buon Dio – a noi hai donati,
combattono uniti – i padri ed i figli!
Difendili Tu – fra tanti perigli.

III

« Il Cielo commuovono – le preci ardenti
di pargoli afflitti – di spose piangenti:
al sen delle madri – i figli pugnanti
ritornino presto – in pace esultanti.

IV

« A Te, Santa Vergine – di pace Regina
dall’Alpi al mare – l’Italia s’inchina,
sei Tu la speranza – di tutta una gente
soccorri gran Madre – l’Italia fremente.

V

« Nel sangue dei prodi – rinnova il vigor,
più bella e più grande – la terra dei fior.
Novelle speranze – Iddio le concede
speranze di pace – di gloria, di fede. »

/74/ Ora che tutto è compiuto, così com’egli aveva divinato, noi meglio comprendiamo l’altezza spirituale di colui che noi chiamavamo il nostro poeta e che, quando stavano maturando nuovi destini per la Patria, seppe trovare nel suo cuore ispirati accenti d’amore e trarre dall’intimo spirito, visioni serene di restaurazione.

Egli era fatto così e per questo, penso, irradiava intorno a sè fervore di vita migliore, anche quando un ostacolo, umanamente insormontabile, sembrava volesse arrestare, con maligna volontà, tale irradiazione di bene.

Perchè s’era costruita nell’intimo santuario dello spirito, una sintesi luminosa e calda di vita e, quando la contemplava, tutto si esaltava – nel senso più bello della elevazione sopra ogni grettezza e bruttezza – e quando agiva, rapito da questa visione, rovesciava su quanti attraeva nella sua orbita d’influsso, torrenti caldi di luce fecondatrice.

Quando anch’egli fu richiamato con la sua classe dell’87, nel maggio 1916, dapprima fu nel corpo di Sanità e poi Cappellano del 55° Fanteria; qui potè meglio esplicare la sua fervidissima attività sacerdotale.

Tra le «pie vicine di casa» che amorevolmente avevano vegliato alla spirituale salute del giovane ventitreenne, c’era la signora Berta, la quale, il 18 novembre 1916, ricevette dal P. Giuliani la seguente lettera che segna un nuovo momento nello sviluppo spirituale suo e si allaccia con visibile filo d’oro ai precedenti momenti già segnalati.

/75/

«Gentilissima Signora,

«Le scrivo da una comodissima cameretta che se non avesse tanti specchi nè il termosifone, potrebbe sembrare alla mia invidiabile celletta di Trino. Adunque, stia certa che almeno per ora, sono al sicuro.

«La nuova nostra fronte è tranquillissima: appena si sente qualche cannonata a ricordarci che siamo in guerra. L’albergo in cui abito a circa 1300 m. è delizioso e grandioso: lo spettacolo tutto bianco della valle e dei monti che di qui si gode, rallegra e consola. E si aveva pure bisogno di un po’ di quiete.

«Non posso darle un’idea di tutto ciò che ho visto nei giorni trascorsi sul Carso, ove prendemmo parte all’ultima grande azione. Io sono rimasto per otto giorni in prima linea e anche oltre, mentre i miei battaglioni si avvicendarono a dare il loro inefficace, ma pure enorme tributo: vi lasciammo più di due terzi dei nostri uomini.

«Mi hanno assicurato i più provetti della guerra, che il bombardamento cui soggiacemmo non fu mai sentito così intenso e frequente.

«Ebbi la consolazione di celebrare la Santa Messa in linea, alla vigilia dell’assalto, con la bandiera spiegata – assai timidamente, poichè ci svolazzavan sul capo gli aeroplani nemici – e quantunque, anche durante la celebrazione, abbia avuto dei feriti, colpiti al mio fianco, pure tutti furono consolati.

«Ho pure potuto dare l’assoluzione in massa in /76/ due distinti punti, proprio nell’istante in cui dovevano lanciarsi all’assalto.

«Non mi sono risparmiato: sono pure andato a raccogliere i feriti là dove nessuno voleva andare, in mezzo alla grandine delle mitragliatrici, senza timore, confidando che se al Signore fosse piaciuto farmi morire nel compire un’opera buona, questo fatto solo sarebbe stato di un valore apologetico infinitamente più grande di tutte le parole che avrei potuto pronunciare nella più lunga vita: e tutto a beneficio delle anime.

«E sapesse quanto bene ha fatto questo piccolo e sciatto mio eroismo: tutto il reggimento mi stima e mi dimostra una grandissima gratitudine.

«Ieri sentendomi un po’ meglio sono stato al battaglione più vicino, a due ore di distanza: se avesse visto con quanti abbracci mi accolsero gli ufficiali e come mi circondarono i soldati e con quale piacere il Maggiore mi fece leggere la proposta troppo lusinghiera da lui fatta per ottenermi la medaglia d’argento al valore.

«Ogni cosa, a gloria di Dio.

«In Lei mi confido, come in mia madre. Ed ora, il mio programma è questo: passo la settimana coi battaglioni, uno dei quali tra i posti avanzati fino ai 2800 m. e al sabato me ne ritorno qui al comando del reggimento, ove celebrerò ogni domenica.

«In tale giorno, devo inoltre fare da parroco a un paese vicino, privo di sacerdoti; quei buoni montanari mi hanno ricolmato di gentilezze e sono così buoni che sospirano le funzioni religiose.

/77/ «Preghi ancor molto, poichè se non vi è più tanto fuoco, abbiamo però il freddo che ci tormenta e soprattutto le valanghe che spesso fanno molte vittime.

«Mi riverisca la signorina C. Montarolo e mi creda sempre in Cristo Gesù,

«R. M. Giuliani O. P.»

A nessuno sfuggirà la bellezza di questa lettera, nella quale egli svela un po’ della sua vita intima e manifesta con squisita semplicità il riflesso mistico della sua azione.

Il «piccolo e sciatto eroismo» fa risentire al nostro orecchio la parola del suo babbo che lo chiamava «’l feramiù», ma è «eroismo»; ed eroismo non solo per l’azione esplicata sul campo di battaglia, dove ognuno che abbia amor di Patria, diventa eroe per la sublime corrente che l’avvolge, lo trascina, lo trasumana, ma per quell’interiore fuoco divino che tutto l’avvampa e gli fa dire: «non mi sono risparmiato» e gli fa intravedere, nella purpurea luce del sacrificio, la bellezza affascinante di un’immolazione nel compimento del suo dovere a bene delle anime.

È quindi normale nello sviluppo della sua vita interiore che, quando lo svolgimento dei fatti lo riportò al sentimento eroico dell’azione, ritornasse pure l’atteggiamento eroico del Ministro di Dio ed egli mirasse con limpido occhio di fede a verificare nella sua vita le condizioni spirituali della sua immolazione.

/78/

Non risparmiarsi è spendersi e spendersi è il programma dell’Apostolo secondo san Paolo. Perciò non fa maraviglia, ma rientra nel normale sviluppo del pensiero e della vita del P. Giuliani, che egli nel XV capitolo del suo libro Le vittorie di Dio ponga come titolo le parole stesse del grande Apostolo e Maestro di azione: Impendam et superimpendar. Questo capitolo fu definito da un buon conoscitore dell’anima del P. Giuliani, «un magnifico autoritratto», nè possiamo dimenticare le nette linee che lo fanno entrare nella corrente classica della spiritualità cristiana.

Il testo del titolo è tolto dalla lettera seconda di san Paolo ai fedeli della chiesa di Corinto, cap. XII, v. 15:

«Ego autem libentissime impendam et superimpendar ipse pro animabus vestris, licet plus vos diligens minus diligar1

Il programma d’azione tracciato da san Paolo ha due aspetti: esprime quel che egli è disposto a fare e quel che l’aspetta da parte dei fedeli di Corinto. Il P. Giuliani – e questo pure è caratteristico – prende l’aspetto positivo e lascia il secondo aspetto che rileva l’ingratitudine....

Questo programma di dedizione apostolica è svi- /79/ luppato da san Tommaso in una mirabile pagina del suo commento a queste parole di san Paolo, sulla quale piegò la sua fronte pensosa il P. Giuliani, quand’era studente:

«poichè io sono vostro padre, perciò son pronto a dare a voi quel che ho;» questo è espresso nelle parole «con grande piacere darò a voi i beni non solo spirituali con la predicazione e con gli esempi, ma anche quelli materiali. Ciò appunto faceva san Paolo predicando ed elargendo ai bisognosi di Corinto le offerte delle altre chiese.

«E queste tre cose deve somministrare ai propri sudditi ogni prelato; perciò il Signore disse tre volte a san Pietro: – Pasci le mie pecorelle; pascile con la parola, pascile con l’esempio, pascile con l’aiuto temporale. –

«Soggiunge poi l’apostolo san Paolo: – Nè io soltanto queste cose a voi elargirò, ma sono pronto a morire per la salvezza delle anime vostre. – Perciò dice: e mi sacrificherò per le anime vostre. Questo è nella tradizione promanante dal Cristo Gesù il quale dice: il buon Pastore dà la sua vita per le sue pecorelle. Nessuno ha un amore maggiore di questo che è dare la propria vita per i suoi amici.

«In conformità con questo insegnamento lo stesso apostolo san Giovanni scrive: “Abbiamo conosciuto l’amore di Dio dal fatto che Egli diede la propria vita per noi; anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli.”»

Era necessario ricordare questa tradizione dell’eroismo apostolico, per comprendere i lineamenti /80/ spirituali del luminoso profilo nel quale, parlando del «Cappellano Militare», ritrae se stesso.

«Nella seconda lettera scritta da san Paolo ai fedeli della città di Corinto per difendere il suo ministero dalle accuse di maligni avversari, l’Apostolo erompe in questa forte dichiarazione: – Impendant et superimpendar.1 e – Non vi fu apostolo che abbia potuto fare, con maggior verità, una tale asserzione: fatiche innumerevoli, viaggi, peripezie e la morte stessa provarono evidentemente la carità che gli fiammeggiava nell’anima.

«L’esempio del Maestro dell’apostolato deve commuovere il sacerdote cattolico e fargli esclamare con lo stesso trasporto e con la stessa sincerità: – Impendam et superimpendar! –

«Solo chi è punto dalla sete ardente della salute delle anime, sino al desiderio della propria immolazione, è degno del nome di apostolo

Questa nuova testimonianza – intimamente legata alle precedenti – mette in luce l’anelito profondo del P. Giuliani verso l’ideale dell’apostolato che egli poneva molto alto, aureolato dall’eroismo del sacrificio.

Ed ecco questa fiamma trasformante della santa e divina carità, in contatto col rogo ardente e purificante della guerra:

«La guerra apriva un campo nuovo alle ardenti e intelligenti mire dell’apostolato; onde.... parecchi sacerdoti scesero in campo con un fervore di bene che li fece ammirevoli ai credenti e agli in- /81/ creduli: non erano agitati da spasimo patologico di romantiche avventure o da energumeno patriottismo, ma venivano attratti dal desiderio puro e ardente di dilatare nei cuori il regno di Dio, di aprire le porte del Paradiso ai morenti e di mostrare al mondo contemporaneo che la carità predicata dal Sacerdote non è una bella formola cristallizzata trasmessa da vecchi maestri, sonnecchianti sulle cattedre millenarie, ma una forza sempre viva, una sorgente perenne di virtù e di beneficenza eroica, sconosciuta al mondo.

«Sul teatro tragico del combattimento, dove la civiltà falliva e la vita perdeva le maschere e gli inganni, e la gioventù stessa era di continuo minacciata dagli spettri della morte e della disperazione, poteva solo brillare l’unico sole che non tramonta mai, la fede cristiana.

«Ma per apportare e rendere accettabile la grazia del Signore a questo popolo di combattenti.... bisognava andarlo a cercare sul luogo del suo martirio, mostrarsi e affratellarsi a lui quando tutto lo abbandonava, e condividere i suoi dolori e affrontare al suo fianco la morte.

«Questa carità di fatti e non di parole, spontanea e non stilizzata in pratiche convenzionali, eroica e non misurata, è la forza che convinse meglio assai delle più penetranti argomentazioni ed aprì largamente la via alla redenzione divina

Egli dunque ha sempre pensato – e questo pensiero fu per lui norma di azione e ideale di vita – che la fiamma trasformante della carità perfetta, poteva vincere anche la morte, divenendo veicolo /82/ di redenzione divina per le anime immortali, emergenti dall’onda tempestosa del sangue fluente dai corpi falciati.

Ora, uno sguardo alle anime vibranti nel «popolo di combattenti»: sguardo di pessimismo superficiale, di ottimismo profondo; sguardo univer<ver>sale come l’abbraccio del Cristo Gesù, sguardo profetico come quello del ministro di Dio:

«Cercare, conoscere le anime era il primo desiderio e la prima causa del martirio del sacerdote destinato all’assistenza spirituale dei combattenti.

«Poche sono oggi le anime educate e conservate nel giardino della Chiesa come pochi sono i fiori coltivati nelle aiuole domestiche, in paragone della flora silvestre, di cui la generosa mano del Creatore ricopre le zolle e le rocce.

«Innumerevoli sono le pecorelle smarrite. Chi non ha viscere di carità di vero Pastore, viene tentato d’irrigidirsi in un gesto di perpetua maledizione nel comodo ovile, ove sono rimaste solo le reliquie del gregge cristiano,» – irrigidirsi è un effetto del congelamento.... come capisco bene ora quel che mi diceva nella conversazione del 15 ottobre 1909 sulla larghezza di cuore – «ma colui che non è sordo al gemito del divino Maestro: ho altre pecorelle che sono fuori dell’ovile e sono mie e bisogna portarle a me, prova una compassione stringente di questo popolo abbandonato ai pascoli venefici ed è martoriato dalla voluttà irrefrenabile di guidarlo all’ovile. Per le anime smarrite il Redentore ha sborsato il prezzo inestimabile del suo Sangue: anime più infelici che perverse, più cie- /83/ che che ostinate, più traviate che irreducibili per natura e per sola colpa propria.»

Cerca poi la «prima ragione dei loro traviamenti» e con preciso senso storico dei nefasti effetti del Liberalismo e del Socialismo, osserva che nella famiglia e nella scuola la coscienza infantile, soffocata dai miasmi della corruzione, non aveva avuto lo sviluppo e l’educazione che le avrebbero permesso di crescere nella verità e nella rettitudine.

«Cresciuta senza convinzioni etiche, senza ideali cristiani, la gioventù aveva afferrato con ambo le mani il calice d’oro del piacere, tracannandone il beveraggio, quando la colse la diana della guerra.

«Così venne trascinata nella corrente violenta di sangue....

«Bastava conoscerli questi cuori di vent’anni, per aprire fiduciosamente le braccia.

«Nella giovinezza nulla è radicato, niente è profondo, neppure il male.

«E poi quante buone risorse vi sono, anche tra mezzo al vano rigoglio del vizio!

«Quale latente potenzialità» – nel senso scolastico e tomista di capacità ricevitrice d’una perfezione – «di sopranaturale, in queste vigorose nature!

«Uno sguardo alla sfuggita, un colpo d’occhio complessivo gettato prima della guerra sulla gioventù sciamante all’uscita dei licei o delle officine, ci aveva dato una stretta al cuore: in una cognizione superficiale tutte le nostre speranze cadevano.

«Ma quando fummo chiamati a curare e con- /84/ fortare questi spiriti sul campo, una comunicazione intima con essi ci aprì il cuore alla speranza e spesso ci lasciò umiliati dalla rivelazione di bellezze morali inaspettate.»

Non si poteva meglio diagnosticare la psiche della giovinezza che nel crogiuolo della guerra seppe redimersi e preparare alla Patria nuovi e fulgenti destini.

Non si poteva con migliore ottimismo – fatto d’intelligenza e d’amore – guardare questa eroica giovinezza che andava incontro alla morte, nella piena coscienza del supremo sacrificio, per essere degna del suo nome italiano.

Non si poteva con più grande senso di fede e con più grande simpatia di carità, dare alla giovinezza pronta ad esser trapiantata nel giardino celeste, una più certa speranza d’immortalità e alla giovinezza purificata nel fuoco dell’eroica sofferenza, la coscienza di una nuova missione provvidenziale del popolo italiano.

Questo il grande merito del P. Giuliani e questa la direttrice luminosa che ormai segna il suo glorioso cammino.

Ora possiamo leggere un’altra pagina dello stesso capitolo, ma questa dobbiamo meditarla in silenzio, religiosamente, dinanzi a Dio: «La forza del nostro apostolato, dopo la Grazia di Dio, fu l’amore potente di cui eravamo accesi per i nostri cari soldati.

«Non era possibile conoscerli, come noi li conoscevamo, senza amarli calorosamente.

«Il nostro affetto molto valeva ad attirarci i /85/ cuori, perchè poteva dimostrarsi con l’argomento più significativo che vi abbia, col sacrificio.

«Il Sacerdote, destinato all’assistenza spirituale dei combattenti, doveva immediatamente offrire a Dio la vita in olocausto per le sue pecorelle, poichè spesso tornava impossibile compire i doveri essenziali del proprio ministero, senza esporsi al pericolo di morte.

«Se poi tutta l’anima sua s’infiammava alla vera carità evangelica, che spinge ad esporre volentieri la propria vita per i fratelli, allora non c’era mattino in cui il Sacerdote non si domandasse: – Potrò io giungere a vedere la sera? –

«Non eravamo chiusi in una passiva rassegnazione, come chi è convinto che bisogna pur sottomettersi al supremo supplizio, ma una virtù celeste ci faceva sopportare la nostra sorte con una pace e una soddisfazione che ci rendeva maravigliati di noi stessi

Con questa pagina veramente mirabile, egli ci ha manifestato tutta la sua anima e ci ha pure rivelato il suo profondo spirito di pietà.

Lo svegliarsi alla vita era per lui il richiamo alla morte, come il richiamo alla morte era per lui lo svegliarsi alla luce della vita soprannaturale che non conosce tramonto.

Io mi rammarico con me stesso, di non averlo conosciuto nella sua vita spirituale quando egli poteva dire tante altre cose della sua vita intima, che ora sfuggono alla nostra ricerca affettuosa e ansiosa.

Ma forse è anche un bene che sia stato così, /86/ perchè la «virtù celeste» meglio si comprende ora che la morte – così com’egli bramava negli anni più belli della sua fiorente virilità – togliendo il velo della sua carne mortale, ha fatto rifulgere nel mondo il suo spirito immortale.

Ed ora che la «sorella» morte, spezzando il fragile involucro d’argilla che tante cose nasconde degli spiriti più eccelsi, ha operato in me – e credo in molti altri – questa specie di rivelazione interiore per la quale lo spirito vede lo spirito e ne contempla l’interiore vita ascensionale in Dio, mi pare di poter soggiungere, a conforto di tutti, che questa sua vita vera, mentre da una parte rimane saldamente aderente alla sorgente inesauribile che è il Cristo Gesù, dall’altra mantiene tutto il plesso delle relazioni sociali in contatto armonioso col Bene divino, con una semplicità e una coerenza che la morte, vincendo l’opacità della materia, ha rivelato veramente eroiche.

Egli trovò nel suo «popolo di combattenti» le corrispondenze più profonde, perchè dell’anima di questo popolo divinava le ansie e benediva le speranze, non soltanto per l’al di là, ma per l’al di qua e per quella che egli più tardi, chiamerà la «Missione provvidenziale del popolo italiano».

Questa coincidenza del senso sociale cristiano con la realtà nazionale, intesa come istituzione sacra avente il suo posto nella gerarchia delle nazioni e la sua missione nella storia della Chiesa e degli uomini, è per me una delle più luminose intuizioni del P. Giuliani, Cappellano del 55° Fanteria, Cappellano degli Arditi, Cappellano /87/ dei Legionari Fiumani: nei tre momenti della sua attività sacerdotale che precedono il nuovo Risorgimento italiano.

Quando descrive la costruzione della Cappelletta del Tonale (agosto 1917) tale intuizione acquista una formazione plastica che avrà la sua ripetizione nella rozza stele di Addi-Caieh, sul tramonto che incominciava a rosseggiare.

«.... Il Genio lamentava che si consumasse troppo cemento nelle nostre trincee: ma non sapeva quale difesa potente si stesse erigendo col materiale, che non ci pareva mai abbastanza scelto e abbondante.

«L’opera corrispose al desiderio dei buoni fanti.

«Due massicci pilastri recanti la data (agosto 1917) col numero del reggimento e della compagnia (55° fucilieri, 5ª comp.) stringono la Cappelletta e ne sorreggono l’arco sormontato dalla Croce.

«Nell’arco s’apre un grazioso timpano che incornicia una lapide triangolare su cui furono incisi i versi dettati dal papa Leone XIII per la Madonna del Rocciamelone; i quali, benché mutilati dall’imperizia di chi li ricordò, molto bene si attagliavano al monumento e al tempo in cui fu costruito.

«È una fresca invocazione alla Vergine, che dice: Guarda, o Maria, l’Italia tua, difendine i suoi confini

/88/ Il motivo è ripreso dall’omelia del 20 gennaio 1918 agli Arditi:

«Quando noi eravamo bambini, con l’obolo di tutti i fanciulli d’Italia, si fece la bella statua di bronzo della Vergine che i soldati alpini portarono sull’alta vetta del Rocciamelone (agosto 1899).

«Il papa Leone XIII dettò questa preghiera che venne incisa ai piedi della Vergine: guarda l’Italia che è tua e difendine i suoi confini.

«Oggi più che mai, o cari soldati, abbiamo bisogno di sentirci vicina ai confini contrastati della Patria ove si combatte, la Vergine protettrice d’Italia.

«A Lei, con la devozione degli antichi crociati, rivolgiamo la nostra supplice preghiera, certi di trovare un’eco nel suo cuore materno: Vergine Santa, salva l’Italia e gl’Italiani!

«L’epigrafe da Leone XIII dettata per la Madonna del Rocciamelone nel suo testo integrale suona così: Alma Dei Mater – nive candidior – Maria – lumine benigno – Segusiam respice tuam – Ausoniae tuere fines – coelestis Patrona

Il P. Giuliani (già ce lo ha fatto osservare lui stesso) «... benché mutilati dall’imperizia di chi li ricordò» (e questi, che cita a memoria e li adatta allo scopo, è lui) – aveva fatto suoi quei versi così: «Italiam respice tuam – Ausoniae tuere fines» come più tardi, sulla stele africana, farà scolpire questa nuova adattazione: «Italos respice tuos – Patriae dilata fines».

Questo è il filo più lungo che mi sia stato dato di scoprire nella sua vita, perchè dal 1899 – quando /89/ egli aveva dodici anni – attraverso il 1917, va fino al 1935, formando nel suo spirito un trittico mariano di squisita fattura, nel quale si svolge un movimento di pensiero e di azione veramente fecondo e restauratore.

Ed è questo uno dei lati più attuali della sua vita di pietà mariana, che emerge luminoso da un’altra pagina delle sue Omelie agli Arditi, dei quali era Cappellano dal settembre 1917. Egli spiega loro la parabola nella quale il Divino Maestro dice che «il regno dei cieli è simile al lievito che una donna nasconde in alcune misure di farina e la mette tutta in fermento».

Arditamente il P. Giuliani commenta così:

«Questo fermento è la rivoluzione intima prodotta nella umanità da quella forza interiore, da quel principio di vita che è lo stesso Cristo vivente nella Chiesa.

«Una Donna, Maria Vergine, ha messo al mondo il Figlio dell’uomo, lievito divino: piccolo e umile in apparenza: egli non è che un bambino in una stalla, un operaio in una bottega, un amico degli umili, un condannato sul patibolo.

«L’umanità invece è grande e immensa: gl’imperi, i regni e le nazioni occupano tutta la faccia della terra.

«Ma non importa! La Vergine Madre ha ormai messo per tutta questa massa inerte, il lievito sopranaturale che tutta la agiterà. Gesù vivente nella Chiesa sua, ecco la ragione di tutte le conquiste: Egli stesso lo aveva detto prima di lasciare i suoi discepoli, che sarebbe rimasto in mezzo a loro fino /90/ alla consumazione dei secoli e mantenne la sua promessa.

«Nient’altro che la presenza reale della Divinità può spiegarci la conquista del Cristianesimo e i frutti di virtù e di santità che la carne umana in quello ha prodotto.

«Gesù che ha stabilito la Chiesa, ancor vive come anima e forza di lei.

«Pentiamoci, adunque, d’aver vergogna di mostrarci veri cristiani, figli della Chiesa, di questa associazione universale che fu costituita e che ancora è animata dallo stesso Gesù Cristo.

«Impariamo dai martiri nostri fratelli a non rinnegare il nostro Maestro nè con le parole nè coi fatti e a confessarlo, anzi, anche davanti ai tiranni delle coscienze, che deridono le virtù più belle.

«Rispettiamo i Capi di quella Chiesa a cui Cristo disse nella persona dei loro antecessori: – Come il Padre ha inviato me, così io invio voi. – Accettiamone gli insegnamenti.

«Così le Nazioni potranno tornare ad abitare nell’ombra fresca e tranquilla dei suoi grandi rami e i nostri cuori daranno nuovi frutti di sopranaturale virtù.»

Questa pagina rivela pienamente il Mistico dell’azione che guida il suo «popolo di combattenti» verso la mèta gloriosa di ogni conquista più alta. E poichè la sua esaltazione è intelligente, la restaurazione ch’egli preannunzia non è sovversione, ma ricostruzione e ristabilimento di ordine, secondo i perenni valori naturali e soprannaturali, che assicurano ogni umana perfezione.

/91/ In ciò la sua visione sociale si distingue nettamente da ogni vana utopia e rimanendo aderente alle grandi realtà istituzionali egli è radicalmente innovatore, senza nulla distruggere o sovvertire, senza staccare la libertà dall’azione di Dio, ma anche senza allontanare l’azione di Dio dall’uomo.

Così il 1° gennaio 1918 nell’Omelia del Capo d’anno, egli scruta l’avvenire e come ogni spirito eccelso nel presente che agisce, legge il futuro che si prepara:

«Un anno è trascorso: uno nuovo ne è incominciato!

«Sarà lieto o triste?

«Sarà ancora tutto coi suoi dodici mesi anno di guerra, oppure sarà l’anno della pace?

«Chi potrà scrutare questo essere misterioso che s’avanza velato da capo a’ piedi?

«Amici, fratelli, non paventiamo questo mistero che si avanza: l’avvenire sbigottisce i fatui, ma non i forti e gli illuminati i quali sanno che esso sta nelle mani di Dio e anche nella nostra volontà

Ho voluto sottolineare questo periodo, nel quale il forte e l’illuminato sfugge alla morsa dell’insipiente fatalismo e dell’utopismo fanatico, perchè esso racchiude la fondazione più sicura della nostra storia più bella, nella sua armonia più profonda.

«Chi se non Dio dà il sole o la pioggia, la vittoria o la sconfitta? Pieghiamo il cuore di Dio ai nostri desiderii con la promessa efficace di osservare la sua santa Legge; uniamo le nostre preghiere alle mille e mille voci che s’alzano dagl’in- /92/ focati petti de’ figli d’Italia, e il Cielo ci sarà sempre propizio.

«Il secondo indispensabile artefice dell’avvenire felice è la nostra buona volontà. Gli antichi dicevano che ognuno è fabbricatore della propria fortuna e il nostro bel proverbio toscano soggiunge che: «Chi s’aiuta il Ciel l’aiuta». Ci vuole adunque un fermo ed efficace proposito di opere buone, di maggiore impegno nel compimento dei nostri doveri. Se l’anno scorso per qualcuno di noi è stato un anno di colpe, il nuovo dev’essere tempo di emenda salutare; se fu un passato buono, diventi un avvenire migliore.

«Ad ogni modo dobbiamo progredire sempre e diventare migliori uomini, migliori soldati, migliori cristiani.

«Dodici lunghi mesi saranno spettatori d’infinite vicende, ma o liete o tristi, sappiate che ogni momento, ogni pensiero, ogni atto avrà la sua responsabilità.

«Destini importantissimi si maturano per la Patria nostra, ma la Grazia del Signore e la nostra buona volontà saranno le due ruote che porteranno il carro della fortuna d’Italia, attraverso alle lucenti aurore del 1919.

«Questo l’augurio, la preghiera, il voto dei nostri cuori: questo compia Iddio per il bene delle anime, per il trionfo della giustizia, in premio dei sacrifizi che col suo aiuto sosterremo nel nuovo anno.»

Questa germinazione della gloria, nel dolore presente e nel sacrifizio della vita stessa, è un mo- /93/ tivo che trasfigura l’uomo di carne in uno spirito veggente che spande la gioia, come il sole la luce.

«Soldati,» egli dice nell’Omelia di Pasqua (31 marzo 1918) «non neghiamo i nostri dolori: riconosciamoli, ammiriamoli, esaltiamoli per la virtù eroica dei nostri Martiri, e soprattutto per il germe di vittoria che essi contengono!

«La nostra settimana di passione sta per finire: dopo la morte, viene la vita, la resurrezione, la vittoria.... dalle trincee.... noi ci alziamo raggianti di nuova vita per goderci il sole della vittoria e della pace.

«Campane tutte delle nostre torri tacenti, preparatevi a intonare l’alleluia della resurrezione dal Piave e dallo Stelvio e fatelo correre in metallica ghirlanda giuliva fino alle ultime rive della Sicilia....

«Soldati, la gran causa di giustizia sociale e di redenzione nazionale per la quale noi combattiamo, è santa e lo scopo non può fallirci!

«Portiamo in pace con santa nobiltà i dolori che ci rendono simili a Gesù flagellato: abbiamo fiducia in Lui morto per la redenzione del mondo e, come Lui, presto la nostra amata Italia, sciogliendo i vincoli della sofferenza, si rianimerà nella gioia radiosa di vittoria e di pace, che Iddio concede ai popoli martiri della giustizia.»

Spirito veggente, egli non è un visionario: ha la percezione precisa del reale, nel suo aspetto più positivo dal quale mai si stacca. In ciò si riconosce facilmente la sua tempra tomista.

«Il grande segreto della vittoria sta nella disci- /94/ plina dei combattenti, ma la disciplina è insuperabilmente forte quando quello che comanda e quello che ubbidisce hanno un cuore e un’anima sola.

«Signori Ufficiali! Soldati!

«Per l’affetto che portiamo alla nostra madre l’Italia, per il desiderio che abbiamo della vittoria, per il precetto dell’amore che Gesù ci ha dato, stringiamo i nostri cuori in un fraterno amplesso e Iddio nel cui nome siamo adunati ci benedirà e sarà nostra guida e nostro Pastore.»

Questo aspetto della Mistica sociale del Cristianesimo, che nel Comunismo avrà la sua stortura più anticristiana e più disumana, prende nell’Omelia del 14 aprile 1918: il Buon Pastore, il suo sviluppo armonioso che assicura all’organismo umano la sua salvezza.

Ritorna nell’Omelia della domenica seguente (21 aprile): dopo il dolore, la gioia.

«.... i vostri sacrifizi sono noti a tutta Italia, ma per amore di Patria, per carità verso voi stessi fate che questi sacrifizi virtuosamente sostenuti siano il seme di liete vittorie.

«Il primo premio vostro sarà quella maturità di mente che è frutto non degli anni che non avete, ma dei prematuri sacrifizi che compite. Voi siete giovani, ieri non eravate che bambini e se foste rimasti nelle case vostre forse sareste bambini ancor oggi. Invece l’asprezza della vita, il con- /95/ tatto con la natura; la prossimità dei pericoli e soprattutto lo slancio col quale vi siete sobbarcati a tutti questi gloriosi sacrifizi, vi han dato l’esperienza e la tempra, che forse non avreste acquistato che sui quarant’anni.

«Infine, frutto dei vostri eroici sacrifizi sarà quella vittoria che tutti ci aspettiamo. Quanto più scrupolosamente compirete i vostri doveri militari, tanto più presto i vostri sacrifizi saranno coronati. Nel giorno della vittoria.... quale sarà la soddisfazione di essere stati gli artefici, i creatori di una gloria così grande!

«.... come la madre che ha partorito il figlio, vi rallegrerete di aver partorito la vittoria e la pace alla Patria, la giustizia al mondo.»

E nell’Omelia dell’Ascensione (9 maggio 1918):

«Soldati, la guerra che oggi noi combattiamo può dirsi un grande sforzo che la migliore e maggior parte dell’umanità tenta verso il bene sociale!

«Voi sapete che noi combattiamo per la libertà, per la giustizia, per il diritto di tutte le Nazioni.... Ogni vittoria nostra è un passo avanti dell’umanità per le vie del vero progresso, è un’ascensione per un sentiero difficile e sanguinoso. Ma sono le vie ripide che portano alle grandi altezze, come il Calvario di Gesù portò alla sua ascensione celeste.

«Soldati, fate adunque ascensioni nel vostro cuore, salendo dal male al bene, dal bene al meglio, dal meglio all’ottimo, dalla terra al cielo, nostro ultimo destino, felicità e patria nostra!

«Fate ascendere, con l’opera vostra di buoni /96/ soldati, l’umana società per le vie del progresso morale e sociale che Iddio le ha tracciato e in capo a queste Nazioni che si elevano col sacrifizio cruento dei loro figli, sia sempre l’Italia, che, per il destino che Iddio le ha dato, deve rimanere la forza morale e la guida dei Popoli tutti.»

Quel «deve rimanere» vibrato a piena voce, «là ove non si scrive che col sangue» ha ancor oggi la potenza spirituale che in quel momento dovette far ondeggiare in commozione profonda, il «popolo di combattenti».

Al quale, egli, nell’ultima Omelia della Pentecoste (19 maggio 1918) annunzia la rigenerazione della Patria con quella sicurezza, che è data quando si contemplano le cose create nella luce della fede:

«.... Sappiamo per esperienza che quanto più l’anima è illuminata e forte, tanto più atti diventiamo a compire coscienziosamente il dovere verso la Patria.

«Oggi più che mai il soldato di Gesù Cristo dev’essere soldato d’Italia: perciò la Pentecoste dell’anima sarà Pentecoste ricreatrice dell’amata nostra Patria.

«Ci illumini questo Spirito Santo, le vie di nuove vittorie e ci dia la forza di superare ogni debolezza e ostacolo, per poter effettuare i destini di gloria che Dio ha assegnato alla nostra razza

Con queste testimonianze, noi abbiamo còlto il valore nazionale di un uomo che nella guerra fu «figlio di pace» perchè dinanzi agli uomini, come ministro di Dio, metteva in atto l’efficacia dell’ordine sacerdotale per reggere la moltitudine e im- /97/ pedirne la dissoluzione e la inesauribile vitalità della dottrina cristiana per rendere bella e armoniosa la vita umana.

Immagini tra le pagg. 96 e 97
Comunione al campo
La Comunione al campo nella Grande Guerra
Madonna delle rose

La «Madonna delle Rose»

(Pittura eseguita nelle trincee del Tonale dai soldati Sartorio, Cafolla, Muraro nel 1917 e da essi offerta al loro Cappellano P. Giuliani)

Cappellano militare
Padre Giuliani Cappellano Militare nella Grande Guerra

Era quindi normale che egli fosse amato da tutti e che nel suo popolo di combattenti egli fosse simbolo vivente di forza conquistatrice, veicolo delle migliori energie.

Non erano solo belle parole quelle del P. Giuliani. L’interiore clima eroico che annunziavano i suoi discorsi, le sue azioni lo affermavano in modo concreto, fattivamente e luminosamente.

La medaglia d’argento proposta per il fatto del 4 novembre 1916 a Hudi Log non fu concessa, egli ebbe solo la medaglia di bronzo al valor militare. Altra medaglia di bronzo al valor militare egli ebbe il 26 ottobre 1918 con questa motivazione che racchiude nella obiettiva sintesi dello stile militare, sempre aderente alla realtà e alieno da ogni fronzolo rettorico, i lineamenti classici del P. Giuliani:

«Impareggiabile figura di prete e di soldato, sempre volontario con le pattuglie di punta e nelle imprese più rischiose, prestava, ove maggiormente infuriava la lotta, la sua opera di carità ai feriti italiani e nemici. Circondato da una trentina di austriaci, mentre curava un loro ferito, seppe convincerli ad abbandonare le armi e arrendersi alle truppe italiane, ormai in piena vittoria.»

Il 30 ottobre 1918 al Romanziol, P. Giuliani ebbe una medaglia d’argento al valor militare, con una bella motivazione degna della ricompensa superiore. Ma confesso che la precedente motivazione per una semplice medaglia di bronzo, mi /98/ piace di più, perchè inequivocabilmente ci pone dinanzi colui che per prestare la sua opera di carità, sceglie volontariamente i punti più pericolosi, manifestando luminosamente il suo eroico amore per le anime dei suoi Arditi.

Così venne il giorno della vittoria (4 novembre 1918). Una pagina di storia era compita e ne incominciava un’altra più difficile: quella della ricostruzione degna del sacrifizio di tanti eroi, degna del sangue sparso per la redenzione della Patria e delle Nazioni.

Margherita Sarfatti nel classico profilo del Dux ricorda a un certo momento «l’aspettazione messianica del dopoguerra, delusa da Wilson e i quattordici punti, delusa da Lenin e il bolscevismo»: sono i due estremi tra i quali oscilla l’ansia della ricostruzione, sono i due grovigli dai quali lo spirito italico si svincola con lo sforzo eroico dì chi non vuole nè essere soffocato nè essere avvelenato e rompendo gli indugi tira diritto per la sua strada.

Questa continuità ideale della vita italiana nella trincea per vincere e dello spirito italiano nella Nazione per salvare la vittoria, fu messa bene in rilievo dal P. Giuliani nel discorso del 17 aprile 1929.

«Quando il popolo de’ morti surse cantando a chiedere la guerra, lanciava la parte di sè più viva, più dinamica contro due ostacoli, rivelatori di inusitati eppur fondamentali veri. Il combattente fu /99/ messo a contatto con due grandi cose: la natura e la morte.

«La prima gl’insegnò a ripudiare le convenzioni, le menzogne, per respirare l’azzurra atmosfera di sentita, passionale realtà.

«La seconda gli fece sentire la necessità del divino, di quella religione i sacerdoti della quale egli aveva imparato a disprezzare sui banchi della scuola atea.

«Perciò la massa grigio-verde, che innervava le trincee dallo Stelvio al Mare, venne presto pervasa da uno spirito nuovo, riallacciato alle millenarie tradizioni di fede, ribelle a tutto il barocchismo anticlericale.

«E come il nostro generalissimo Luigi Cadorna ebbe talvolta a reagire con un imbelle governo precaporettistico, così le masse dei combattenti, pur volte al secolare nemico le mitraglie e i cannoni, furono iniziate sul campo a quelle salutari reazioni di cui portarono il lievito possente in Patria, al domani della vittoria

La prima salutare reazione fu la gesta di Fiume, insurrezione dello spirito contro le menzogne convenzionali della diplomazia.

Normalmente P. Giuliani fu il Cappellano dei Legionari di Fiume come normalmente era stato il Cappellano degli Arditi d’Italia, perchè erano sempre i suoi figliuoli che esigevano la spirituale /100/ assistenza del Padre: nè questi si sentiva l’animo di abbandonarli nel momento più critico della vita nazionale, quando la vittoria poteva naufragare miseramente nella morta gora delle menzogne diplomaticbe e delle brutture morali.

Parlare di conflitto interiore tra la sua coscienza di frate e il senso di fedeltà al giuramento degli Arditi, è favoleggiare sopra una situazione psicologica che con la sua stessa linearità distrugge ogni finzione.

Nell’attesa della smobilitazione, egli aveva continuato la sua opera di bene presso i reparti d’assalto, con una breve visita a San Domenico di Torino per la festa di San Giuseppe (19-24 marzo 1919) dov’era il suo Provinciale il P. Giuseppe Maina il quale potè facilmente riconoscere nella limpidezza dei suoi occhi e nella fermezza del suo sguardo, la fedeltà del suo spirito all’ideale domenicano.

Aveva poi predicato il mese di Maggio a Trieste e aveva preparato per le stampe la sua prima opera Gli Arditi, dove, a giudizio dei competenti, il sacerdote esemplare, l’intrepido patriotta si rivela scrittore insigne con pagine degne di passare nelle nostre antologie e ci passeranno quando si vorrà meglio far risplendere la vita come scuola d’eroica passione per la bellezza degli ideali supremi.

Mi dissero cbe P. Giuliani – certamente portato dal suo zelo divorante e dal suo affetto per ì suoi Arditi – avesse giurato di condurre la vittoria sugli spalti di Fiume con essi, pronti a un cenno del comandante Gabriele d’Annunzio.

/101/ Secondo il decreto Redeuntibus della Sacra Congregazione Concistoriale del 25 ottobre 1918, «i Sacerdoti sia secolari, sia religiosi, di ritorno dal servizio militare, sono tenuti nello spazio di dieci giorni dal ritorno, a presentarsi al loro Ordinario....

P. Giuliani ai primi di settembre (9-10 settembre 1919) fu a Treviso per il congedo dal 55° Fanteria, al quale era rimasto legato come a suo centro di provenienza. La smobilitazione lo coglieva in piena preparazione della spedizione Fiumana. Il decreto gli dava dieci giorni a reditu.... perciò non poteva sentirsi impedito in alcun modo, dal seguire i suoi Arditi e il 12 settembre era a Fiume coi Legionari della nuova Crociata.

Ma la domenica 14, celebrata la Messa al Campo, egli partì immediatamente da Fiume e al lunedì mattina, 15 settembre, egli, probabilmente dopo aver viaggiato tutta la notte, era a San Domenico di Torino.

C’era allora a Chieri il Capitolo provinciale di elezione ed era stato eletto il P. Benedetto Berro. P. Giuliani, senza dubbio, andò a Chieri per presentarsi al suo Provinciale e informarlo della situazione che s’era delineata nel suo apostolato militare.

Dal modo di agire del P. Giuliani nel marzo successivo, mi pare di poter arguire con ogni certezza che il nuovo Provinciale, il quale molto apprezzava il suo zelo, gli lasciò piena libertà d’azione per il bene delle anime. Fiume si presentava come una Missione, tanto più che era vicino il mese di /102/ ottobre e così il 16 settembre, celebrata la Messa in San Domenico di Torino, P. Giuliani ripartì tranquillo per Fiume, se non con l’autorizzazione del Vescovo Castrense dal quale più non dipendeva, certamente col permesso del suo Provinciale, del quale era suddito obbediente e fedele.

La nuova gesta – che a vero dire appariva esternamente come un’avventura d’eroica passione nazionale al modo dei grandi moti insurrezionali e perciò non da tutti era veduta di buon occhio – poteva contare sul suo spirituale contributo di fede, di zelo, di forza morale, come splendidamente risulta dall’accurata monografia della signorina Clotilde Bonino su questo capitolo della vita del P. Giuliani a Fiume. Egli più che mai seppe comprendere il senso delicato del nuovo momento storico.

Egli s’era presentato al suo Provinciale dopo i lunghi e penosi anni di vita militare con la sua bianca tunica luminosa e pura: nè il fango della strada l’aveva macchiata, ne la polvere del mondo l’aveva offuscata. Egli era ambasciatore d’anime, legate a lui con vincolo sacro e per lui avvinte al Cristo con legame divino, e a queste anime egli ritornava «fedele».

Predicò a Fiume il mese di ottobre, il mese sacro alla Regina del Rosario, a Nostra Signora delle Vittorie: ogni anima domenicana può facilmente comprendere le belle e divine cose che egli disse in quel mese per Colei che, il 20 gennaio 1918, egli aveva salutato dinanzi ai suoi Arditi: «la Vergine Protettrice d’Italia» ed alla quale «con la /103/ devozione degli antichi crociati» aveva invitato a rivolgere la preghiera suprema: «Vergine Santa, salva l’Italia e gl’Italiani!».

Quegli stessi suoi Arditi erano ad ascoltarlo proprio lì sul confine della Patria, contrastato dalle finzioni giuridiche di uno Statista nuvolare e dalla congiura internazionale d’interessi oscuri. Erano là, pronti a tutto, sicuri di agire per una causa santa che doveva aprire alle Nazioni una via di progressiva elevazione e di amichevole cooperazione, più e meglio di qualunque finzione giuridica o di qualsiasi congiura ai danni dell’Italia. Abituati a marciare sul terreno saldo della realtà, tutti sentivano, perchè prima l’aveva sentito il Comandante, che lo spirito italiano doveva, col suo sacrifizio, liberarsi dall’ipocrisia farisaica, se voleva liberarsi dall’utopia slava e ritornare se stesso.

Oggi che l’utopia slava sotto la specie bolscevica ha fatto della vicina Spagna un campo trincerato dove nell’urto supremo di due antitetiche sintesi mentali sono in giuoco i destini stessi dell’Europa, meglio si comprende il valore storico della gesta fiumana e meglio possiamo immaginare lo scempio più atroce, se il focolare d’infezione invece che al di là del mare, avesse potuto svilupparsi nella zona slavizzata delle orientali coste adriatiche.

Ma non a tutti è dato rendersi conto di queste tragiche possibilità della storia ed è per questo che nel giudicare uomini e fatti, spesso si rimane alla superficie dell’episodietto edificante o curioso, mentre è eroicamente sublime contemplare lo svol- /104/ gimento della nostra storia alla luce radiosa che promana dagli spiriti grandi che la conducono.

Io penso che un uomo di fede come P. Giuliani non poteva andare, vivere, agire e soffrire a Fiume, senza sentir crescere nella sua coscienza di cittadino della nuova Italia di Vittorio Veneto, questo senso grande della vita nuova. Solo così, riesco a spiegarmi l’affetto del Comandante per questo Domenicano, che ai suoi occhi doveva rappresentare l’intransigenza più inflessibile: c’era una zona di spirito nella quale i valori perenni della vita sfolgoreggiavano nella loro divina bellezza e lì era possibile un’intesa, il cui successo era ancora un mistero d’anima. E mi spiego pure l’affetto di Fiume per questo apostolo dell’Italia nuova, che dissipava con la sua parola e con la sua azione, ogni prevenzione e faceva splendere dinanzi agli occhi di tutti, la purissima e profonda religiosità dell’anima italiana, facendo insieme vibrare nelle membra disiecta il palpito della vita in comunione perfetta con la Madre Patria e con la Chiesa cattolica.

Ciò sarebbe diventato realtà a suo tempo, ma intanto, mentre splende la visione dell’ideale, è necessario il sacrifizio che feconda l’ideale, adeguando ad esso l’azione quotidiana.

Mentre P. Giuliani fedelmente compiva il suo dovere sacerdotale e con ogni mezzo cercava di rendersi utile alle anime dei Legionari e dei Fiumani, un fatto semplicissimo venne a dare alla sua vita un nuovo giro segnando nella sua attività apostolica una svolta decisiva.

/105/ Le signore di Fiume, volendo dare al Comandante un segno della loro riconoscenza che fosse insieme pegno della loro fedeltà, fecero cesellare un artistico pugnale d’oro che, e per la forma che aveva, simboleggiava l’Arditissimo Legionario e, per la materia ond’era fatto, diceva la preziosità dell’alleanza sancita a prezzo di sangue, oltre la morte, per la vita.

La benedizione di questo dono doveva affermare lo spirito religioso dei nuovi Legionari, messi in cattiva luce da iniqua propaganda, e insieme consacrare l’alleanza spirituale di Fiume con la Madre Patria.

Tutto doveva svolgersi secondo le prescrizioni disciplinari della Liturgia cattolica. Se non che il 20 gennaio 1920 una pioggia dirotta obbligò a svolgere in chiesa anche la seconda parte del programma con quella forma privatissima, che è consentita dalle leggi ecclesiastiche in simili circostanze.

P. Giuliani, dopo aver fatto quel che doveva e poteva fare, usando per la benedizione del dono simbolico la formola comune per qualsiasi oggetto, lasciò che il programma si svolgesse secondo che le circostanze avevano imposto, con quella forma austera che avrebbe avuto pure fuori del luogo sacro. Nè vedo come avrebbe potuto comportarsi diversamente, dal momento che l’Autorità superiore – militare e civile insieme – aveva da compiere un atto interessante la comunità italiana di Fiume, che da lui allora dipendeva.

Perciò, indipendentemente da quanto si potrebbe /106/ rilevare da una lettera pubblicata dopo la morte del P. Giuliani – lettera che alcuni credono falsificata, altri ritengono mutilata e perciò di nessun valore – P. Giuliani non solo in tale occasione agì con rettitudine, ma nessuno mai avrebbe avuto a ridire sulla sua condotta, se il fatto semplicissimo non avesse avuto una stortura calunniosa.

Sopra un giornale della Penisola fu pubblicato un articolo nel quale il gesto della passione civile e il dono della riconoscenza patriottica, apparivano come la bieca esplosione di un’indomita sete di sangue.

Il giuramento sancito col dono prezioso e chiamato dal Poeta-Comandante «sacramento del ferro», secondo lo stile classico non ignoto anche ai grandi scrittori cristiani, fu giudicato profanazione diabolica. P. Giuliani che s’era prestato al giuoco, un vigliacco traditore della Chiesa, vittima della sua illusione funesta.

Come suole avvenire, quando le notizie vengono da lontano nè facilmente possono essere verificate, soprattutto quando vi sono interessi latenti e inconfessabili a far camminare in fretta le notizie così deformate, l’articolo che metteva alla gogna dell’opinione pubblica dei cattolici il Cappellano dei Legionari Fiumani, ebbe un triste effetto.

Si ebbe, pare, compassione di questo avventuriero gettato dalla forza ineluttabile degli avvenimenti in una bolgia infernale, dove rischiava di dannarsi l’anima, insieme a gente perduta....

Ma, per contrasto, reso più evidente dalla gret- /107/ tezza del suo calunniatore e dalla difficile posizione in cui veniva a trovarsi il suo Provinciale, P. Giuliani, obbedendo all’ordine di rientrare in convento, tagliava netto ogni complicazione; mai è apparso più grande che nella prontezza di tale obbedienza: più eroico nella sua fede religiosa, più luminoso nel candido splendore del suo abito, che nessuna sbavatura potè offendere, nessuna flessione potè sgualcire, anche menomamente.

Qui si vide di quale forte tempra fosse P. Giuliani e quanto aderente all’agire fosse il suo pensare sacerdotale e religioso. Che queste, non siano semplici supposizioni, ma tocchino l’intimo eroico della sua anima rettilinea, lo si deduce dalle sue parole in una celebre circostanza, quando alla Radio di Torino parlò della Conciliazione il 17 aprile 1929. Pochissimi capirono allora l’intima tragedia che egli rievocava: – io non la conoscevo ancora e ricordo che la sua rievocazione mi commosse profondamente – certo, nessuno più di lui gioiva nel vedere attuata nella storia nazionale la sua più luminosa intuizione di guerra. Questo carattere personale spiega l’accento altissimo d’incoercibile entusiasmo che qualcuno trovò perfino esagerato.

«Nel 1920 quando il sottoscritto venne difeso in una polemica giornalista dal foglio di battaglia che serviva di trincea quotidiana all’on. Mussolini, fu affermato su quel foglio che un bivio poteva aprirsi inevitabile dinanzi ad ogni prete, ad ogni cattolico d’Italia; il bivio di Chiesa e Patria.

ce No, io scrissi allora: dinanzi a me sacerdote, /108/ frate, in tutto me stesso – da’ piedi a’ capelli – dinanzi a me guida spirituale di Fanti, di Arditi, di Legionari, no, dinanzi a me non v’è, non si aprirà mai il bivio fatale.»

La dichiarazione a cui egli allude è del 6 febbraio 1920 e di questo eroico atto di fede possiamo essere riconoscenti al fatto di Fiume.

«No, non sarò mai costretto a scegliere tra la Chiesa e la Patria perchè nel bene dell’una ho sempre trovato il bene dell’altra, a dispetto di giudizi prematuri e superficiali che in qualche occorrenza tentarono dimostrarli in opposizione» riaffermando «con piena sincerità e con tutto l’ardore di buon ardito d’Italia, la mia assoluta e incondizionata dipendenza da quella autorità che è il fulcro della fede, la quale animò tutta la mia opera di guerra e per la quale voglio sempre vivere e morire

Il mistico dell’azione – superando il conflitto tra la spontaneità interiore e la coercizione esteriore, tra la libertà personale e l’autorità giuridica – acquista il suo valore supremo e ritrova il suo splendore più radioso con la disciplina intelligente attinta dalla vera e sana dottrina di fede.

La dissertazione del 6 giugno 1908 s’era trasfigurata in affermazione di vita, al disopra delle piccole e meschine contingenze umane, s’era fatta volontà di trionfo nel tormento gaudioso dell’obbedienza!

Alcuni giorni dopo, il Comandante stesso entrava in lizza per difendere il suo Cappellano. Nelle due lettere a Don Rubino e a Mons. Barto- /109/ lomasi anche oggi si coglie un arcano accento di profondo e sincero dolore.

Il 16 febbraio 1920, Gabriele D’Annunzio mandava a Don Rubino il testo del discorso pronunziato il 20 gennaio e accompagnava l’invio con la seguente lettera:

«Mio caro fratello,

«Ti mando il testo del mio discorso religioso che fu ascoltato in chiesa non senza lacrime. Non vi fu nulla di profano nella cerimonia. La commozione fu in tutti pura e profonda.

«P. Giuliani fu nobilissimo come sempre. Non so dirti quanto io ti sia grato d’avermi concesso questo soldato di Cristo veramente esemplare....»

Il 21 marzo 1920, più esplicitamente parla a Mons. Bartolomasi, della misura disciplinare presa dal Provinciale dei Domenicani e con accento accorato, «incitato dalle sollecitudini dei Legionari», si rivolge a lui perchè sia scongiurato il pericolo. Più che una preghiera è un grido angosciato di anime che s’aggrappano all’estrema àncora di salvezza.

«.... P. Giuliani è stato richiamato all’improvviso, perchè lasci in Fiume il suo ufficio pietoso e animoso per rientrare nel suo convento.

«Il nostro amato compagno ha reso alla santa causa, inestimabili servizi, col suo fervore, col suo esempio, con la sua inesausta bontà, con la sua abnegazione senza limiti.

/110/ «La mia anima gli deve la più profonda gratitudine per i benefici che ha ricevuti nelle ore del dubbio e della tristezza.

«I Legionari a un tratto rimangono senza guida religiosa, senza confortatore. E si trovano smarriti, mentre s’approssima la settimana di Passione che renderà più cupa la passione della città-olocausta.

«Oso rivolgermi alla carità dell’E. V. R. perchè voglia rimandare P. Giuliani a Fiume dove egli è fiaccola d’amore e lampada di sacrificio....»

Testimonianza più bella nessun Superiore potrebbe mai desiderare per un suo suddito e nessuna Autorità – anche dal semplice punto di vista di umana giustizia – potrebbe mai avere per difendere un suo suddito, testimonianza più veritiera.

Il 23 marzo 1920 P. Giuliani partì da Fiume col cuore straziato per l’obbrobriosa campagna, ma con l’anima fasciata di luce per la gloriosa vittoria del suo spirito che portava con sè tutta la bellezza del suo ideale da nessuna nebbia oscurato, da nessuna beffa profanato, da nessun colpo mancino infranto.

Egli ebbe la medaglia commemorativa della Marcia di Ronchi per avere «ben servito la causa e ben meritato della Patria».

La motivazione conchiude col motto: «Ut vehementius ardeat, ut tutius vincat» e racchiude il programma della vita del P. Giuliani nella sua fase finale quando con maggior veemenza eruppe il suo ardore e con maggior sicurezza egli trionfò vittorioso.

/111/

Dopo una breve sosta a San Domenico di Torino (25-28 marzo) P. Giuliani compiuta la sua missione di Cappellano Militare, ritornava al suo convento di assegnazione in Trino Vercellese (29 marzo 1920): nel silenzio eroico della quotidiana vita di immolazione, egli modestamente e gloriosamente riprendeva la sua vita di «Frate Predicatore». Rimase a Trino Vercellese sino alla fine del mese di ottobre che egli predicò, poi a novembre fu assegnato al Convento di Chieri, dove rimase fino al novembre dell’anno seguente, quando fu assegnato al Convento di San Domenico di Torino.

La sua azione in questo periodo fu eminentemente apostolica e anche quando ebbe ad occuparsi del movimento sociale cristiano, egli, che poteva essere un affascinante condottiero di masse, si limitò ad essere una fiamma di conquista: che poteva coartare il suo slancio, ma non poteva negare se stesso.

Durante l’anno scolastico 1920-1921, egli dette lezioni di apologetica ai giovani studenti, alternando il lavoro scientifico col ministero apostolico per la difesa dei diritti della Verità Cattolica, contro il Socialismo invadente.

«Ormai tutta Chieri risuona dell’eloquenza del P. Giuliani. Non vi è pubblica manifestazione, solennità, festa dove non brilli la sua bianca figura.»

Le feste commemorative del VII Centenario /112/ della morte di San Domenico celebrate a Chieri dal 29 luglio al 7 agosto 1921 riuscirono un trionfo di fede e di pietà, anche per lo zelo e la parola calda e travolgente del P. Giuliani.

Alla fine di agosto s’imbarcò a Venezia per Costantinopoli e Smirne facendo in quella nostra missione diverse predicazioni e conferenze sui due centenari domenicano e dantesco, durante i mesi di settembre e di ottobre.

Quando il 15 novembre 1921 P. Giuliani poneva piede a San Domenico di Torino, «la lampada ardente e luminosa» era posta sul candeliere, che l’aspettava da dieci anni. Ve l’aveva preceduto di qualche mese il P. Enrico Ibertis che col suo speciale senso organizzativo doveva portare al vecchio convento di Torino una vita nuova e una fisionomia più conforme alle nuove esigenze dell’apostolato domenicano.

P. Giuliani rimaneva lo spirito del nuovo organismo che si sviluppava all’ombra del bel San Domenico e la fiamma che alimentava i nuovi entusiasmi.

Proprio per questa attività svolta con eroico zelo apostolico, qualcuno trovò a ridire. Eppure seppe raggiungere nella sua vita una così intensa dedizione all’ideale domenicano, che a nessuno dei suoi intimi sfuggiva il fremito di vibrante entusiasmo che tutto lo pervadeva, quando riusciva a scoprire /113/ nell’attualità perenne di quell’ideale, nuove ispirazioni di lavoro domenicano.

Egli lo amava questo ideale di vita con tutte le sue forze, come sorgente di azione salutare per i suoi contemporanei che intorno a lui vivevano e a lui domandavano il pane della verità e della giustizia. E come nel Cristianesimo metteva in atto la sua forza di conquista, così nel Domenicanesimo, fiorente nel giardino del Cristo Gesù, bramava mettere in atto le forze della sua azione salutare. È naturale quindi che egli sentisse prepotente il bisogno d’azione apostolica nelle forme più adatte alle spirituali necessità del mondo contemporaneo: anche in ciò fu precursore, perchè fece suo quello che poi divenne patrimonio comune dell’Apostolato Domenicano.

Mentre la società si agitava convulsivamente cercando la sua strada e mentre la Nazione sotto l’influsso di forze nuove reagiva affannosamente per allontanare da se l’incubo bolscevico, P. Giuliani lavorava con inesausto zelo di apostolo Domenicano a salvare la gioventù e il popolo dai pericoli dell’ora.

Tutta la sua intensissima azione di apostolato aveva sempre questo scopo veramente degno della sua grande anima e il suo apostolato della parola, per il quale era servito da eccezionali doni di natura e di grazia, sgorgava da profondissima sorgente: il suo spirito contemplativo riversava abbondante la luce salutare della sacra dottrina e si sentiva nel palpito poderoso del suo cuore ardente, tutta la fiamma che internamente consumava /114/ ogni scoria terrena per tutto condurre al divino Sovrano.

La forza del suo eloquio era travolgente e conquistatrice. Io gli dicevo: «Tu sei come Ercole che devia il fiume Alfeo per pulire le stalle di Augia», ed egli ne rideva di cuore, soggiungendo: «A *** ebbi a confessare un duecento uomini che non si confessavano più da trenta, quaranta o cinquant’anni». Questa forza, quando ti prendeva non ti lasciava più e ti piegava come molle cera: poteva urtare quanti preferivano, per taglio mentale o per educazione spirituale, metodi più compassati e una maggior soavità d’azione, specialmente nella voce, ma nessuno potrà dire che la sua esuberanza fosse scomposta e molto meno che fosse priva d’una certa sua unzione di grazia, particolarmente efficace nel fare amare la vita cristiana. In certe circostanze, anzi, fu talmente pieno di grazia (gratiosus, nel senso medioevale) da quasi sembrare un altro.

Quanto alla sostanza della sua predicazione, egli la derivava tutta dalla Sacra Scrittura e dalla dottrina della Chiesa. E, cosa commovente che attesta il suo grande spirito di umiltà, spesso domandava spiegazioni e aiuto dottrinale a qualche confratello che egli giudicava competente in questa o quella parte delle Scienze ecclesiastiche. Confesso che mi fece molta impressione la sua aperta preferenza per la Bibliotheca Concionatoria Moralis Evangelica del P. Vincenzo Houdry S. J., che io perfino ignoravo, e per i Commentaria in Sacram Scripturam del P. Cornelio a Lapide S. J., per /115/ i quali mai ebbi eccessiva simpatia. Ma lui era più intelligente e ci trovava preziosa miniera di testi e di spiegazioni di cui con arte raffinata si serviva per la creazione delle sue prediche che gli uscivano di getto dal cuore, come lava incandescente da vulcano.

Era poi cosa del tutto aliena dal suo carattere il menar vanto dei suoi trionfi o l’esagerare i suoi successi. Ricordo che quando al ritorno da qualche corsa apostolica gli domandavo com’era andata e come stava, egli si limitava a rispondere: «Bene, grazie a Dio!». Poi scherzava e raccontava qualche piacevole avventura o buttava là qualche ardita barzelletta, ridendo con tanto buon gusto da far venire il buon umore anche a un condannato a morte.

La sua gioia non la nascondeva, ma era la gioia dell’anima semplice e schietta che gode di avere obbedito al comando del divino Maestro: «Così risplenda la luce vostra dinanzi agli uomini, che vedano le vostre opere buone e glorifichino il Padre vostro celeste».

Era la gioia limpida e tutta divina di chi ha ricevuto lo spirito di Dio per conoscere e mettere in valore i doni da Lui elargiti per far diventare l’uomo cooperatore suo nella santificazione delle anime.

Tutte le anime egli abbracciava col suo gran cuore di apostolo temprato alle lotte della vita con forza conquistatrice e con soavità di fanciullo. Mai nel suo cuore venne meno questa larghezza che fu il suo ideale fin dai primi anni della sua vita re- /116/ ligiosa e mai nessuno partì da lui che non avesse avuto particolari segni di benevolenza: anche quelli che abusavano della sua bontà e lui, sapendolo, li compativa.

I giovani erano i suoi beniamini: ovunque; a San Domenico di Torino ebbero la sua predicazione i giovani del Circolo di Azione Cattolica Fiamme Bianche e del XV Reparto Esploratori Cattolici Lepanto, nome di vittoria questo; nome di ardimento quello.

Quando egli venne a San Domenico, i giovani del Fiamme Bianche erano stati organizzati da poco, con intento squisitamente spirituale e cattolico e quando li preparò per l’inaugurazione del loro vessillo, che ebbe luogo il 4 dicembre 1921, tutti conobbero il senso altissimo del giuramento cristiano: «O Cristo o Morte!»: anelito di martirio in un periodo molto tempestoso della vita cittadina, quando le forze massoniche e sovversive sembravano trionfare.

I giovani del Fiamme Bianche seppero in diverse circostanze mostrare che il loro giuramento non era una vana parola e che il carattere combattivo, dato al cristiano dal Sacramento della Cresima, non era un’etichetta qualunque.

Ho sotto gli occhi la pagella d’iscrizione al Fiamme Bianche. Tra le «enorme generali» leggo le seguenti dichiarazioni: /117/ «Il Circolo Fiamme Bianche ammette i giovani i quali vogliono schivare i pericoli del mondo, seguire fedelmente i dettami della fede e della virtù, praticare francamente il culto cattolico, e compire seriamente la propria religiosa e civile educazione

Quattro finalità degne veramente d’ogni anima generosa!

Per l’inaugurazione del XV Reparto Esploratori Cattolici Lepanto, presso la chiesa dei Padri Domenicani, il 4 febbraio 1923, egli fece una conferenza: «L’Esploratore Cattolico», nella quale, da pari suo, illustrò tra l’altro, lo scopo della nuova organizzazione:

«Il Reparto Esploratori Lepanto costituito presso la chiesa di San Domenico, e diretto dai Padri Domenicani, raggruppa i giovani più volenterosi che intendono ricevere una formazione religiosa, culturale e civile intensa e disciplinata e si prestano docilmente al decoro, all’ordine delle feste religiose e sociali. Purezza, pietà, obbedienza, disciplina formano la caratteristica del Lepanto

Quando il 15 aprile 1923 egli parlò della «Finalità dello Scoutismo» in occasione dell’inaugurazione della Fiamma del XV Reparto Lepanto, tutti compresero che nel cuore del P. Giuliani i giovani avevano realmente il loro posto d’onore e, nell’accento del suo affetto fiammeggiante, vibrava tutta l’ansia della rigenerazione sociale per mezzo delle generazioni nuove.

Furono giornate radiose quelle della «Tendopoli Domenicana» al Pian d’Invrea presso Varazze dal /118/ 2 al 17 agosto 1924. Tutti i giovani cari al cuore del P. Giuliani: quelli del Fiamme Bianche e quelli del XV Reparto Lepanto, erano su quella spiaggia raccolti in «ritiro spirituale»: espressione bellissima, tutta domenicana, che dice il senso pieno della vita nuova nella giovinezza com’egli la voleva, in contatto con la natura per rimanere o ritornare semplici, in contatto con Dio per essere sempre avvolti nel raggio luminoso della sua grazia salutare.

Con la prima domenica d’ottobre di quell’anno, egli iniziava un nuovo apostolato, come Cappellano della R. Accademia d’Artiglieria e Genio di Torino: erano ancora i giovani, ma giovani nei quali cominciava a ritrovare il suo antico amore, temprato sui campi di battaglia a ogni dedizione. Attraverso il suo apostolato sacerdotale, egli veniva a ricostruire nel suo programma di educazione, la sua stessa vita di sacrificio, culminante nello stacco e nella frattura del marzo 1920. La sua attività apostolica lo conduce a poco a poco a saldare quella frattura, ma per uno slancio supremo che lo condurrà al sacrificio della sua stessa vita.

A questi «Custodi della Patria» egli rivolgeva in una famosa conferenza dell’11 febbraio 1925 il grande monito:

«Siate custodi dell’anima e dello spirito dei nostri soldati e l’Italia così potrà continuare la sua strada nel cammino della civiltà, con in testa il /119/ suo Esercito, che sarà forte non solo per le armi, ma per la limpidezza della sua anima.»

Egli parlava per esperienza: ritornava, attraverso la fiamma del suo cuore di apostolo, l’esperienza dell’antico cappellano militare che con tanta superiore intelligenza aveva guardato in faccia alla dolorosa realtà delle cose e degli avvenimenti, e in questo ritorno egli appariva come un simbolo di realtà nuove che maturavano nel seno della Patria e alle quali egli si avvicinava, per il movimento storico che, nell’esistenza contemporanea, andava segnando un solco profondo.

Nel gennaio del 1926 fu eletto Presidente – «il babbo» – dei Pesciolini del Po,1 egli conserverà questa carica con un affetto particolare fino alla sua morte come risulta da una sua lettera del novembre 1935 nella quale egli «che da otto mesi è nella terra d’Africa con i militi che preparano le sorti della nuova Italia imperiale» rivolge il suo invito di bene ai Pesciolini del Po, sempre fedeli all’opera di beneficenza.

La irradiazione dell’apostolato del P. Giuliani in mezzo alla fanciullezza, all’adolescenza, alla giovinezza dell’Italia nuova è come un’oasi di pace /120/ nel furore delle lotte che travagliarono quegli anni: nessuno egli rifiutò di accogliere in quei giorni di tempesta e, sempre vigile scolta all’estrema trincea dell’apostolato sacerdotale, egli seppe con piena coscienza di perfetto cittadino corrispondere alle esigenze dell’ora, anche quando queste domandavano sacrificio.

Il 18 agosto 1926 gli morì la Madre che era andata ad abitare in un modesto alloggio di via Sant’Agostino n.° 6, insieme alla figlia Gabriella.

Questo dolore toccò profondamente l’animo del P. Giuliani, il quale vedeva a poco a poco spezzarsi i vincoli più sacri che ancora potevano dargli la dolce illusione di avere una casa sua. Egli si sentì più solo che mai e tentò ancora di aggrapparsi agli ultimi frantumi della sua casa, ma ne ebbe amare delusioni, più tardi.

Egli era così semplice che forse non si rendeva conto della complessità tortuosa delle cose umane e nel desiderio di fare del bene a tutti, era così generoso e largo che forse passava sopra alle possibili complicazioni della vita umana.

Ma anche quando più terribile si scatenò l’uragano che gli strappò anche le ultime gioie della sua famiglia, lo vidi profondamente commosso, ma eroicamente silenzioso e forte.

Dal profondo del suo spirito tutto avvolto di luce soprannaturale attingeva un’energia che traspariva anche dal suo volto irrigidito dal dolore, ma non pietrificato dalla disperazione.

Egli poggiava molto in alto, egli aderiva con tutta l’anima alla sorgente inesauribile di vita e /121/ perciò guidava con mano forte la sua barchetta attraverso i flutti tempestosi della vita presente, nella scìa luminosa della grazia divina.

Penso che temprato dal dolore egli acquistasse così quel supremo distacco dalle comodità della vita che fu una sua caratteristica. Si sarebbe detto volentieri un «nomade»: di quelli che camminano sempre per giungere più presto alla mèta.

Con la La legge 3 aprile 1926 istituiva l’Opera Nazionale Balilla per l’assistenza e l’educazione fisica e morale della gioventù (ONB) per i fanciulli dagli 8 ai 14 anni (Balilla) e i giovani dai 14 ai 18 (avanguardisti), con il compito di curarne l’addestramento e la preparazione alla vita militare.
Il nuovo organismo, diretto dall’ex ardito Renato Ricci (Carrara MS 1896 - Roma 1956), si trovò immediatamente in concorrenza con l’associazionismo cattolico; il 24 gennaio 1927 in seguito ad una lettera di Pio XI al cardinal Gasparri le organizzazioni scoutiste dei piccoli centri confluirono nell’ONB, mantenendo una propria identità, mentre nei grandi centri veniva sciolto il legame tra scoutismo e Azione Cattolica; ma col decreto 13 aprile 1928 fu abolita ogni residua autonomia dello scoutismo cattolico. Nel 1933 lo stesso Baden Powell visitò Roma ed espresse il suo apprezzamento per l’ONB.
Giuseppe Gamba (San Damiano d’Asti 1857 - Torino 1929), dal 1923 Arcivescovo di Torino, dal 1926 Cardinale P. Enrico Ibertis ... † 1989 I G. U. F., nati nel 1920, furono riorganizzati nel 1927
disposizione pontificia del 24 gennaio 1927, in merito agli Esploratori Cattolici e col prevalente sviluppo dell’Opera Nazionale Balilla fondata l’anno precedente, pur rimanendo in piena efficienza l’apostolato giovanile nelle Associazioni d’Azione Cattolica, s’imponeva alla più grande attenzione la questione dell’educazione religiosa delle grandi masse giovanili organizzate nelle nuove opere che il Regime Fascista, trionfante in tutti i settori della vita nazionale, andava creando.

Nel novembre del 1927 Sua Eminenza il cardinale Giuseppe Gamba che nel suo gran cuore di Pastore e Padre trovava inesauribili motivi di affetto per tutti i suoi figli, volle che il P. Giuliani fosse il Cappellano dell’Opera Nazionale Balilla per la Provincia di Torino e a suo fianco – affinchè l’assistenza spirituale non subisse interruzioni a causa delle corse apostoliche del titolare – volle che fosse il P. Enrico Ibertis, suo collaboratore nelle diverse opere di organizzazione cattolica.

/122/ Il 28 dello stesso mese s’inaugurava il Corso di Cultura Religiosa al Gruppo Universitario Fascista (G. U. F.) di Torino e il P. Giuliani fece la lezione d’apertura. Fu un’ardita innovazione che non solo aveva il merito di riprendere un’antica nobilissima tradizione dell’Ateneo torinese, ma aveva anche il vantaggio di rispondere alle esigenze della nuova forma mentis, immessa dallo spirito fascista nella Scuola.

La Rivista Universitaria, periodico ufficiale del G. U. F., dichiarava apertamente queste nuove esigenze:

«Vogliamo che gli Studenti Universitari abbiano un corso di coltura religiosa da svolgersi secondo la Fede e la prassi Cattolica.»

Questo atteggiamento spirituale – nuovo nell’ambiente universitario, anche se non nuovo negli ambienti universitari nei quali la Federazione Universitaria Cattolica Italiana da tempo agiva come fermento di pensiero e germe di vita – era determinato da questa confessione intellettuale che contiene la precisa coscienza dell’integrale valore rivoluzionario del Fascismo:

«Noi eravamo carichi di bardature preconcettistiche: l’anticlericalismo sanculotto francese, di pari che l’ateismo immanentista utopistico teutonico, avevano quasi soffocato nella mentalità pubblica e privata, quelle belle doti di chiarezza e di buon senso, di lealtà, di cui tradizionalmente si orna l’intelligenza italica.

«Il Fascismo ha richiamato ogni gregario a un esame spassionato dei propri doveri, ad una re- /123/ visione delle proprie mansioni e quindi a un aumento dei contributi individuali alla comune restaurazione.... La scuola non poteva che riprendere le nobili tradizioni italiche, respingendo e distruggendo tutte le intrusioni esotiche e balorde.»

Ricordo ancora il lampo di gioia che sprizzò dagli occhi profondi del P. Giuliani, quando mi portò a leggere questa dichiarazione che doveva preparare spiritualmente il corso di coltura religiosa nella Regia Università – da pochi mesi ero stato assegnato al Convento di Torino e da quel tempo (settembre 1927) potevo seguire più da vicino il vasto movimento che s’andava svolgendo – e ricordo benissimo il gesto vittorioso della sua testa capace, protesa nella visione lontana d’una conquista sicura.

Aveva dinanzi agli occhi la sfida di Alfredo Oriani nel cap. XV della II parte di Rivolta Ideale e le parole del grande divinatore dei tempi nuovi gli sonavano in cuore come un vibrante squillo d’assalto.

«.... Le vecchie milizie acquartierate nei conventi, vi oziano senza pensiero e vi dormono senza sogni: nessuno aspetta la diana, i confini sono troppo remoti, la vita della penitenza meno aspra forse di quella del peccato.

«Chi vigila nell’ombra?

«Quando un raggio, battendo sulle vetrate di una cattedrale, farà dunque voltare tutte le teste come uno squillo?

«La guerra è vicina: domani, forse, l’ideale riaprirà le grandi ali bianche in alto, dove l’az- /124/ zurro traluce e una linea quasi invisibile appare come un’altra sponda.

«Nessuno può dire che cosa prepari alla storia la magnifica vitalità cristiana....»

Con la forte preparazione tomista ricevuta negri anni del suo studentato e con la ricca esperienza vissuta negli anni della guerra e del suo apostolato, non era difficile per il P. Giuliani raccogliere, con efficace conquista, il pensiero espresso da Oriani in tono di sfida e, eliminando ogni allacciamento di questo pensiero con le teorie di Gioacchino di Fiore e dello Hegel, dare alle sue ansie di elevazione un senso rispondente alle esigenze dell’anima moderna e a quelle non meno sacre delle cristiane istituzioni, promananti dalla immutabilità obiettiva della Legge nuova.

L’originalità e l’arditezza del pensiero del P. Giuliani fu appunto di avere gettato nell’ambiente universitario questo fecondissimo principio che stabilisce la condizione del progresso spirituale degli uomini nell’atteggiamento di subordinazione alla Legge nuova di Grazia, definitivamente costituita nella nostra società dal Cristo Gesù.

Riferendo il fatto nuovo dell’inaugurazione del Corso di Coltura Religiosa nella R. Università, i giornali questo mettevano bene in rilievo:

«P. Giuliani ricorda come Alfredo Oriani in una delle sue pagine più belle si domandi quale sarà quel giorno in cui un raggio di fede e di luce passerà dalle vetrate delle nostre cattedrali e si diffonderà benefico ovunque.... e rileva come l’ora è venuta per volontà del Duce... dimostra, con /125/ acuto ragionamento e con logica efficace e persuasiva che la coltura religiosa è necessaria, indispensabile anzi, per integrare la morale, per contribuire alle ricerche e alla risoluzione dei problemi della scienza, per conoscere la storia, e infine per ricostruire l’Italia....»

Alla fine, rivolgendosi al suo uditorio, ebbe questa esclamazione nella quale tu senti vibrare tutta l’ansia dell’Apostolo della Patria:

«O felici e fortunati voi, o giovani, che avete questo grande orizzonte cristiano di ricostruzione, all’alba fiorita della vostra radiosa giovinezza.»

Così avvenne il primo contatto del P. Giuliani col Fascismo: attraverso l’«Opera Nazionale Balilla» e il «Gruppo Universitario Fascista».

Egli che per temperamento e per libera elezione s’era consacrato all’educazione cristiana della gioventù e su di essa puntava per immettere nella società il lievito della vita buona e sana, dalla gioventù di massa e di aristocrazia intellettuale era stato messo in contatto col movimento nazionale che aveva strappato il popolo italiano alle illusioni nefaste del bolscevismo, dopo avere ridato alla Nazione la coscienza e la fede della vittoria.

Mi è caro pensare che il P. Giuliani abbia formulato la sua mirabile definizione del movimento nazionale, sotto l’azione armoniosa della sua esperienza di guerra e del suo amore per la giovinezza, speranza della Patria:

«Il Fascismo integrazione perfetta della duplice vittoria italiana contro il secolare nemico e poi contro il Bolscevismo.»

/126/ Ed è stata per me intima gioia l’aver ritrovato nella sua prosa brillante la mia definizione data in un tempo in cui all’interno e all’estero non era tanto facile veder chiaro nelle cose della Storia nostra.

Nella monografia Le Catholicisme en Italie mandata alle stampe il 7 marzo 1928 per la Collezione di Studi religiosi del Belgio a Liegi, definivo il Fascismo in se stesso come vis destructiva (aspetto rivoluzionario) et constructiva (aspetto rinnovatore) ed egli sentì come ciò delinea bene la realtà del nuovo indirizzo nazionale:

«Questa formidabile potenza ricostruttrice più che un’idea o una teoria ci appare come una forza, un dinamismo irresistibile: il Fascismo, armato di un singolare senso di onestà umana – che non poteva certo ingenerarsi fra la vecchia politica camorrista – sbarazzò il campo dalla massoneria, dalla mafia, dal settarismo, covi tradizionali dell’anticlericalismo mondiale. Nel restaurare il concetto di autorità, nel risanare la famiglia, cellula prima dello Stato, nel ridare l’anima alla Scuola, un infallibile senso pratico guidò il Fascismo verso i cieli sereni della Sociologia cristiana. E così, ribellandosi alle astruse sottigliezze del razionalismo, il Fascismo si orientò verso la nostra fede millenaria.»

La condizione nella quale venne a trovarsi il P. Giuliani, pur senza scendere nella politica di partito, gli permise di non straniarsi dalla realtà contemporanea e di attuare su più vasta scala il suo programma iniziale:

/127/ «Il Bene della Nazione è il principale tra i beni umani.... e il Bene umano può divenire divino se riferito in Dio....»

Egli combatte l’Idealismo sovvertitore dei perenni valori della Dottrina cristiana e il Bolscevismo sovvertitore dei perenni valori della vita cristiana nelle fondamentali istituzioni umane: famiglia e patria. All’uno e all’altro oppone la Filosofia perenne come realtà di pensiero e di vita e di questa gode trovare la testimonianza nel «singolare senso di onestà umana» di cui vede armato il Fascismo.

Questo mistico dell’azione ritrovava nello svolgimento della vita nazionale i motivi più profondi delle sue gioie più pure: così mi spiego il suo entusiasmo e la sua libertà; perchè nessuno meglio di lui disse alla società contemporanea le parole ammonitrici che salvano l’uomo, la famiglia, la Nazione dal ritorno al Paganesimo.

Un ultimo fatto segna perciò il suo destino futuro. Il 19 giugno 1928 mentre egli era nell’America del Sud, il Presidente dell’Associazione Nazionale Volontari di Guerra, Eugenio Coselschi, gli comunicava che la Presidenza dell’Associazione lo aveva nominato, su sua proposta, Cappellano dei Volontari d’Italia.

«Il Cappellano degli Arditi e dei Battaglioni d’Assalto, il Cappellano dei Legionari di Fiume, decorato più volte al valore, era naturalmente designato ad essere l’interprete della fede e della passione dei volontari italiani verso il Dio della Patria e i suoi morti immortali.»

/128/ Questa nomina maturava nel suo spirito la dedizione suprema.

Prima di segnare gli ultimi aneliti del suo cuore generoso a questa suprema dedizione – perchè ormai risulta evidente che nella sua coscienza intima egli esperimentava in tutta la sua piena attrattiva la divina bellezza di questo sacrificio – vorrei mettere in rilievo due fiamme del suo cuore ardente di apostolo: l’amore alla giovinezza domenicana e lo zelo per l’educazione cristiana del popolo italiano.

11 6 agosto 1928 egli scriveva:

«L’America ha tante cose belle, però niente che faccia dimenticare l’Italia. Io ci starò dieci, venti anni e magari cinquanta, quanti vorranno i Superiori, certo però che sarò sempre un povero esiliato. Vi è troppa dimenticanza di Dio e della nostra Santa Fede.»

Ma non v’è sconforto nel vero apostolo. Più grande è il bisogno, più fervida è l’azione:

«Per far qualcosa io ho dovuto imparare lo spagnuolo ed ora predico in questa lingua....»

La conoscenza di questa lingua gli permise di tradurre in italiano l’opera del Venerabile P. Luigi di Granata (morto il 1589) Guia de Pecadores, della quale c’erano già traduzioni, ma vecchie e malandate. Egli ce ne regalava una fresca e arzilla. Pensava, traducendo il classico manuale della /129/ vita cristiana, alla «gente di mondo» quella «che smidolla l’anima nelle letture frivole e mondane e che pure prova le imprescindibili necessità di scosse salutari, d’incitamenti energici».

Con questa opera preziosa, il Predicatore dei mille e mille discorsi al popolo, mentre occupa un posto d’onore nella letteratura spirituale d’Italia, lascia qualcosa che sopravvive alla sua parola e di questa continua la missione, mirando oltre il solito scopo di «alimentare la pietà delle suore, dei religiosi, del clero» per rispondere all’«anelito mistico» nel «mondo dei laici», massa immensa, troppo lontana dalle limpide sorgenti della verità, che per lo più soffre del suo spirituale tormento, quasi senza speranza alcuna.

In questo, che è un po’ come il testamento spirituale del grande Predicatore e Conferenziere, c’è tutta la calma serenità, che è il volto più sincero della verità. Il titolo stesso, che egli coraggiosamente volle conservato in italiano Guida dei Peccatori – mentre altri non avevano osato tanto e avevano cambiato il titolo spagnolo in altro meno aspro – è una sfida alla superbia umana che rode nell’intimo le viscere dell’umanità: da quella che fu chiamata «santità laica» forse in omaggio alla maniaca ossessione di Gian Giacomo Rousseau, a quella che fu detta «purezza del sangue» in omaggio infantile alla insipienza razzista.

Coloro i quali, svegliandosi alla vera vita aprono gli occhi per riconoscere in sè la limitazione creaturale e lo stigma del peccatore, hanno in questa «guida» un’efficace ed eccellente direzione per /130/ raddrizzare, elevare, risanare, migliorare la propria vita spirituale.

Tra il fariseismo antico e moderno che bada solo all’esterno e lo spiritualismo degli «eretici moderni» che vaneggiano in una vaga e vacua esperienza religiosa, il Venerabile Autore traccia la via maestra secondo «la vera e cattolica dottrina» la quale «rifugge» da questi errori; elevando l’uomo al livello divino secondo l’ideale che Gesù chiude in sè, egli pone nella vita virtuosa interiore, la sorgente feconda degli atti esteriori e costruisce così una spiritualità integrale, che dal di dentro fiorisce e fruttifica abbondantemente nei vari stati e nelle diverse condizioni degli uomini nella società.

P. Giuliani, facendo nostro il capolavoro del grande apostolo spagnolo, permette all’anima contemporanea – così travagliata da opposte convulsioni spirituali – di comprendere meglio la grande legge storica del nostro incivilimento che attesta e prova come per essere veramente uomini sia necessario vivere cristianamente secondo la «vera e cattolica dottrina».

Egli sentiva tutta la responsabilità di questa sua missione e non mancava di raccomandarsi alle preghiere delle anime pie per corrispondervi nel miglior modo possibile.

Trovandosi ancora nell’America del Sud, il 22 ottobre 1928 scriveva:

«Io ricevo ora dai Superiori l’ordine di avvicinarmi all’Italia, senza lasciare l’America. Mi sposto a Nuova York. Ho ancora un mese di pre- /131/ dicazione in castigliano e poi alla fine novembre partirò.

«Vede quindi che la mia permanenza in questi paesi si prolunga ma noi non siamo altro che poveri soldati viventi nella più stretta obbedienza.

«Preghi adunque il Signore per me e mi aiuti sempre a meritarmi quei mezzi che mi sono indispensabili al mio ministero

Qui, in questi due ultimi periodi, P. Giuliani solleva un pochino il velo che cuopre la sua vita interiore sorgente della sua vita esteriore: vita di disciplina militare sotto e nel quadro religioso; vita di preghiera e di immolazione per essere efficace ministro di Dio nell’azione apostolica.

Nel dicembre del 1928 egli faceva ritorno in Italia (via Amburgo) sul piroscafo tedesco Monte Cervantes a bordo del quale scrisse la prefazione alla sua traduzione della Guia de Pecadores, in cui egli manifesta chiaramente – come ho messo in luce – il suo intenso desiderio di educare cristianamente il popolo. Tutto l’immenso suo lavoro apostolico si può considerare condensato in quest’opera classica.

Altra fiamma divorante nel suo cuore oceanico fu l’amore alla giovinezza domenicana: amore che gli sgorgava ed erompeva dalla sua dedizione eroicamente integrale all’ideale domenicano.

Qualcuno ebbe a dire che egli non aveva un /132/ accentuato spirito religioso, essendo fatto più per la caserma e la piazza che per il convento e la chiesa.

E certo dalle apparenze esteriori si poteva forse ragionare così, considerando la sua vita turbinosa, la sua andatura marziale, se pur composta e modesta, tanto che quando si sforzava ad assoggettarsi a certe maniere di stile monastico ed entrava in refettorio con le mani sotto lo scapolare, o passeggiava nel corridoio con gravità solenne e il cappuccio in testa, o si accusava, nel Capitolo, delle colpe con umiltà profondamente sentita, o si buttava in venia con uno slancio che sembrava ricordare le passate manovre guerresche per sottrarsi ad una raffica di mitragliatrici, in tutte queste circostanze della nostra vita claustrale, si poteva benissimo notare lo sforzo per mettersi in linea e confesso che quasi sempre mi faceva sorridere con la sua serietà grave e maestosa.

Ma chi lo conobbe anche in momenti nei quali sotto la torchiatura dell’obbedienza il cuore sprizza sangue – l’espressione è sua – non potè mai dubitare neppure un istante, del suo spirito religioso.

L’unica cosa che si può dire – e ciò è tutto a sua lode – è che egli non era capace di ammettere nè la grettezza, nè la comodità, massimamente quando l’una e l’altra apparivano ammantate di zelo, a scapito della carità e della giustizia. In questo caso, egli era inflessibilmente severo, perchè era prima di tutto sinceramente austero per se stesso. Ma anche quando nei suoi giudizi era /133/ tagliente come una lama di ben temprato acciaio, sapeva fare emergere uno spirito di carità così delicatamente soave che manifestava tutta la bontà del suo gran cuore, tutta la generosa elevatezza della sua mente.

Ricordo che quando il 23 ottobre 1934 egli fu delegato dal M. R. P. Provinciale Enrico Ibertis, a dare l’abito domenicano al dottor Arturo Scaltriti, questo doppio aspetto del suo spirito domenicano integrale mi colpì profondamente.

Dopo aver parlato delle aspirazioni della gioventù contemporanea ed essersi felicitato col postulante di aver trovato nell’Ordine Domenicano, quanto poteva soddisfare la sua brama di verità e di santità, egli venne a tratteggiare un ideale di vita austera e laboriosa – nel doppio senso di faticosa e operosa – che non era una semplice declinazione di doveri in formole giuridiche, ma un’espressione calda ed entusiasta d’una vita intensamente amata, appassionatamente vissuta.

Ascoltando la sua parola, pensavo che il più rigido dei Provinciali non avrebbe potuto rimanere più aderente alla norma costituzionale e che il più mite dei Superiori non avrebbe potuto portarvi soavità più squisita e dolcezza più delicata.

E ricordo ancora con quanta solennità e forza al giovane esuberante d’energia e d’intelligenza, d’entusiasmo e di dedizione, ricordava che nulla egli portava all’Ordine.... mentre l’Ordine tutto gli avrebbe dato.... che egli doveva entrare con profondo senso di subordinazione per lasciarsi formare dall’Ordine, per mettere a servizio dell’ideale /134/ domenicano tutto se stesso, per dare, attraverso questa fulgida incarnazione dell’ideale domenicano nella sua vita d’ogni giorno, splendore nuovo e rinnovato all’azione apostolica domenicana.

Questa visione obiettiva della bellezza dell’Ordine in sè, come forza perennemente agente nella storia delle anime, è forse l’aspetto più caratteristicamente profondo dello spirito religioso del P. Giuliani, il quale avrebbe voluto che le bianche legioni dei suoi confratelli avessero risposto in massa, alla sfida lanciata da Alfredo Oriani in Rivolta Ideale alle «vecchie milizie acquartierate nei conventi».

Quello che anche si deve dire è che questa grande anima di apostolo soffocava nel povero convento di San Domenico, che non dà nessuna possibilità di una qualsiasi confortevole abitazione. Egli però aveva la fortuna di fare lunghe peregrinazioni apostoliche. Tuttavia il suo cuore l’ebbe sempre nel suo convento, anche se povero, e nella sua celletta, anche se ristretta e disadorna.

Perchè, pur avendone occasioni innumerevoli, egli mai cercò, fuori, sostituzioni di sorta: questa è per me una nuova ed efficacissima prova del suo spirito religioso.

Questo amore alla vita domenicana e questa visione della sua perenne attualità, mai offuscarono in lui la giusta valutazione degli altri Ordini e delle altre Congregazioni che egli amava e stimava molto.

E lo spinsero questo amore e questa visione a cercare per la Provincia piemontese uno sfogo più /135/ degno della sua attività apostolica, nella sua stessa città di Torino.

Egli avrebbe voluto che anche nell’espressione architettonica la vita domenicana avesse la maniera sua propria per svolgersi armoniosamente e per imporsi simpaticamente.

Trovato il terreno, egli avrebbe voluto che la nuova costruzione fosse stata semplice e austera e lui stesso ne fece uno schizzo.... Poi le cose cambiarono e n’ebbe crudele amarezza. Ciò nonostante egli scrisse una pagina nella quale nascondendo l’opera sua e mettendo in luce gli altri, egli si fa mendicante per i suoi amati confratelli, per amore della giovinezza gusmana, per salvare, già allora, l’opera a lui tanto cara!

«.... Ecco le belle primavere di gioventù domenicana che preparano nel mondo un’ondata di santa conquista. Da tutte le parti d’Italia, giungono notizie che fanno piangere di consolazione i nostri vecchi e aprono il cuore a insperate speranze.

«I nostri conventi, i noviziati sono diventati troppo angusti allo straripante numero di vocazioni.... Avevano dunque ragione quei buoni Padri che, qualche anno fa, presentendo questa primavera di vocazioni si aggiravano per i sobborghi della bella Torino in cerca di qualche popolazione che li invitasse, di qualche terreno propizio che si offrisse per un grande studentato.»

Si noti questo periodo ultimo! Egli si nasconde.... mentre quei «buoni Padri» non erano altri che lui, proprio lui, e il P. Enrico Ibertis, suo collaboratore.

/136/ Il presentimento è l’effetto di ogni grande amore che urge nel cuore e, nel rigurgito della vita, da ogni lieve increspamento alla superficie, intuisce il vigoroso rigoglio nel profondo.

E il «grande studentato»? Nella città sabauda che possiede un illustre Ateneo, che da vari anni vedeva i domenicani lavorare con frutto in mezzo alla gioventù universitaria, egli voleva questo centro di coltura domenicana per stabilire un contatto di vita del pensiero tomista col mondo contemporaneo.

«.... Ma l’intraprendere tali lavori, senza possedere nulla potrà parere audacia» (è lui stesso che sottolinea!) «a chi non conosce come nascano le opere volute dalla divina Provvidenza.

«Tutte le opere volute da Dio nacquero così: Egli ne fece toccare con mano la necessità a chi doveva intraprenderle e poi le aiutò toccando il cuore di coloro che Egli volle eleggere a’ suoi cooperatori nelle opere buone.

«Noi abbiamo sentito la necessità dell’opera nostra. Nè lo zelo che Iddio ci accese nell’anima, nè il cuor nostro ci potranno mai permettere di rimandare tutta quella gioventù che viene ad implorare la grazia di servire la santa causa sotto le insegne domenicane....»

Ho sottolineato questo periodo.

Soggiunge fiducioso:

«E forse che dovremo dubitare della carità delle anime generose? Forse che non abbiamo avuto prove bastanti della generosità delle anime pie verso quell’Ordine Domenicano che sul suo na- /137/ scere ha costruito le più belle e più grandiose basiliche d’Italia?

«Ora che vi è un fermento di vita che rinnova la nostra primavera, mancheranno gli aiuti? La pietà saprà vincere tutte le difficoltà anche quelle finanziarie.

«Quel Gesù benedetto che ha promesso un premio ad ogni bicchier d’acqua dato in suo nome, che cosa darà in ricompensa a chi vorrà dare la casa alla gioventù cara al suo cuore di Redentore, alla gioventù sacrificata alla redenzione delle anime?...»

Il 25 novembre 1929 P. Giuliani – vero pellegrino apostolico – s’imbarcava sul Biancamano in rotta per gli Stati Uniti d’America.

Fedele al suo principio di rendersi utile con ogni mezzo e di attrezzarsi perfettamente per il suo ministero, imparò l’inglese e mentre lavorava nelle sue missioni apostoliche, preparava pure un sufficiente materiale storico per un volumetto sulle Figure Domenicane più rappresentative del sec. XIX ponendovi come titolo: Eroi obliati.

Quando sarà pubblicata, questa Galleria spirituale, costituirà la prova più lampante e sarà il documento più irrefragabile del suo altissimo spirito domenicano.

Perchè quando un figlio di famiglia è così geloso custode delle grandi memorie, non si può davvero tacciare d’ingratitudine o d’infedeltà: l’ingrati- /138/ tudine e l’infedeltà hanno altre manifestazioni e si conoscono da altri segni.

Nel maggio-giugno del 1930 dalla Louisiana egli scriveva:

«La sua è venuta a cogliermi qui, ultimo angolo degli Stati Uniti, in una baracca di legno tra mori e indiani, dove i nostri Padri tengono le loro missioni e dove io predico gli esercizi ai dispersi italiani. Sono lieto delle notizie che ella mi dà.

«Se vi è da combattere, accetto tutto dalle mani di quel Dio che non manca di prepararci al premio eterno.»

Ho messo in evidenza questo periodo, perchè – senza aver potuto determinare di che fatti possibili si tratti – esso racchiude il senso e l’orientamento del suo spirito, anche di fronte a quel dovere per il quale qualche anno dopo egli avrebbe sacrificato se stesso nella suprema immolazione.

Nell’America del Nord, egli ebbe a soffrire più che nell’America del Sud. In quell’ambiente privo di slancio spirituale, egli sentiva ancor di più la mancanza di quella calda temperie nella quale fioriva il suo spirito e per la quale le ali gli si aprivano in volo largo e vigoroso. L’amorevole senso di amicizia, al quale l’anima sua ingenuamente si apriva con gioia, come un fiore in primavera, era un non-senso sotto un cielo diverso da quello d’Italia.

Così ritornò per la terza volta al suo San Domenico di Torino e il 23 aprile 1931 potè di nuovo scaldare il suo cuore nell’onda esuberante della sua chiesa. Riprese con ritmo accelerato il suo la- /139/ voro apostolico, trovando modo di dare lezioni e fare conversazioni in inglese con alcuni suoi piccoli amici che egli riceveva con grazia pudica e amorevole, e istruiva con pazienza facendosi bambino con loro.

Ed era il tempo della sua attività più intensa e della sua vitalità più esuberante: tanto che nel 1933 oltre i due Quaresimali di Milano a San Fedele e a San Francesco da Paola, ne fece pure uno alla Cattedrale di Novara. E mi disse che nonostante tutta la fatica di quei tre Quaresimali, mai lasciò la recita dell’ufficio divino.

«Che vuoi? È l’unico momento in cui lo spirito può riposarsi.»

Sono sue parole che rivelano anche queste un senso profondo di vita interiore come sorgente di vita apostolica intensamente attiva.

Egli era maturo per le opere perfette della virilità spirituale ordinate alla elevazione della società: di nuovo puntò sulla gioventù universitaria fascista e nel gennaio-marzo egli tenne alla R. Università di Torino delle lezioni di coltura religiosa.

Di queste lezioni, due – quelle del 26 gennaio e del 21 marzo – furono redatte in modo da poter essere pubblicate e lo furono infatti nell’opuscolo Conferenze Patriottiche.

Sulla prima, il P. Filippo Robotti fa questa osservazione:

«La Conferenza sulla Missione provvidenziale del Popolo Italiano, per la sua forte genialità e per la sua alta passionalità, richiama alla mente e fa un felice riscontro con la celebre conferenza /140/ del P. Lacordaire sulla vocazione della Nazione Francese con la quale il sommo nostro oratore vinse la sua battaglia sull’opinione pubblica francese fino allora ostile al ristabilimento in Francia degli Ordini religiosi.»

Il richiamo è suggestivo e mi dispiace che nella breve prefazione il caro confratello non abbia avuto modo di sviluppare questo suo raffronto. Comunque, nei due grandi c’è almeno lo stesso senso provvidenziale dello sviluppo storico della vita delle Nazioni che compiono nel loro corso una vera e propria missione.

A me preme notare che P. Giuliani, riallacciandosi alla sua lezione inaugurale del 28 novembre 1927, in questa sua lezione del 26 gennaio 1934, non ha preoccupazioni di guerra nè ha da vincere su elementi ostili: egli spiega un senso di pace eminentemente costruttivo e dà ai suoi giovani, con limpidezza di argomenti, con larga visione storica e con acuta penetrazione psicologica, la coscienza del loro nobilissimo compito nell’attuazione della vera e reale missione provvidenziale del Popolo Italiano come Patria e culla di umana e cristiana civiltà.

All’orizzonte si vede spuntare il terribile nemico di questa umana e cristiana civiltà, ma egli, fedele al suo programma di vita apostolica già precedentemente delineato, assicura la vittoria richiamando gli spiriti alla sorgente della vera forza: il senso cristiano della vita umana nella Patria del tempo.

/141/

Quest’ultima pagina della vita del P. Giuliani, vissuta nell’intimità dell’amicizia, dovrebbe essere scritta nel supremo raccoglimento dello spirito che intuisce silenziosamente le supreme bellezze.

Forse è profanazione manifestare questa intima bellezza dello spirito che solo la morte rivela e a noi fa rimpiangere la materialità dei nostri occhi carnali, mentre gli occhi dello spirito avrebbero potuto a lungo contemplarne la irradiazione salutare oltre le barriere dei sensi, delle passioni, dei difetti.

Ma forse è anche la suprema testimonianza dell’amicizia devota all’Amico fedele che svanì dalla nostra famiglia, per diventare figlio d’una famiglia più grande, per diventare cittadino della Patria eterna.

Sarà sempre il suggello di queste povere pagine appassite che pure vorrebbero fissare, con fedeltà pari all’affetto, i lineamenti spirituali del suo volto interiore.

Nella seconda metà di febbraio del 1935 – forse il 20 del mese – ritornavo dalla sede dell’Associazione Universitaria Cattolica «Cesare Balbo» in via Parini, dove avevo fatto una lezione al Gruppo di Filosofia. Per la strada, mi aveva accompagnato un carissimo amico, giovane laureato, che si teneva pronto per partire.... e mi aveva espresso l’unico suo desiderio di potersi trovare con un /142/ buon Cappellano, che capisse i giovani e sapesse amarli....

«Il Cappellano è per noi credenti l’unico ufficiale di collegamento tra le cose più preziose e le persone più care che abbiamo nella Patria del tempo e quelle ancor più preziose e più care che abbiamo nella Patria dell’eternità.»

Ritornato in convento, era già tardi e faceva freddo.... P. Giuliani entra nella mia celletta, più pensieroso del solito.

Lo guardo in silenzio, non mi dice nulla, passeggia con le mani sotto lo scapolare nel breve spazio dalla porta alla finestra, fa due o tre giri, si ferma, mi domanda a bruciapelo:

– Che diresti se andassi come Cappellano in Africa Orientale? –

Gli raccontai l’episodio d’un quarto d’ora prima e conchiusi:

Per noi, ti direi rimani; per loro, va’!... –

Si parlò ancora un po’ su questo argomento, che nel buio della subcoscienza faceva presentire ad ambedue una possibile tragedia, ne più oltre andò il nostro dire.

Ebbi l’impressione che un sacrifizio irrevocabile era consumato per la liberazione.

Senza saperlo, perchè ancora non avevo letto il cap. XV del suo libro Le Vittorie di Dio, avevo fatto scattare in quel gran cuore anelante alla completa immolazione come al termine naturale del suo maraviglioso apostolato, la molla segreta della sua fiammeggiante carità.

Più tardi, mentre maturavano gli eventi, P. Giu- /143/ liani andò a preparare i giovani alunni della civica scuola serale Montelera per la Pasqua che quell’anno cadde il 21 aprile.

Quella preparazione fu seguita con vivo interesse non soltanto da tutti i giovani, ma anche dagli insegnanti e dallo stesso Direttore. L’ultima sera che parlò, lasciando i ragazzi disse:

– Tra qualche giorno io parto per l’Africa e voi, o giovani, fatemi un solo augurio: che io possa morire tra le mie Camicie Nere. Questo è l’augurio più bello che mi possiate fare. –

La vita di questo Mistico dell’azione che aveva consumato le sue energie per il bene della società e per la salute delle anime, ripiegandosi armoniosamente nella sua curva di slancio supremo, ritrovava i motivi profondi e le ansie generose dei suoi fremiti di giovinezza apostolica.

Perciò non stupisce che ad un’anima a lui tanto vicina e che molte confidenze ricevette da lui nelle ore amare della tribolazione e della desolazione, egli dettasse questa preghiera che è tutto un poema di dedizione generosa, e suggella, col segno del testamento, la volontà santa del testatore. Preghiera e testamento degni di lui!

« O mio altissimo Iddio,
che mi hai dato la tua santa Croce,
da portare sui campi di battaglia,
come pegno dell’eterna vita,
che Tu hai promesso ai tuoi fedeli,
io Ti prego, o Sovrano dei forti,
che Tu voglia aspergermi con tutta la tua Grazia,
affinchè io sia fatto degno di portarla,
quale eletto da Te,
/144/ quale soldato della tua milizia,
quale ministro del tuo amore,
a benedire a confortare
a difendere a proteggere,
da Te sorretto nella fede,
da Te animato nella carità,
da Te sospinto nell’ardire,
da Te scortato nel procedere,
fratello a tutti i fratelli
nell’infuriare delle mischie più cruenti,
senza tregua e senza téma
dovunque la tua santa voce mi chiami,
pronto, ove occorra per la tua gloria
e per le romane mète della Patria,
stringendola al mio petto,
ad arrossarla con l’olocausto della mia vita,
che è tua. »

Lo spirito che silenziosamente e devotamente ha letto e in sè ripetuto questa preghiera, dice: così è.

Perchè per la gloria di Dio e per le romane mète della Patria, egli stringendo la Croce al suo petto, l’ha arrossata con l’olocausto della sua vita.

Mi è venuto in mente, d’inserire qui, alcuni brani di lettere inviate dal P. Giuliani.

La loro attenta lettura rivela l’altezza dello spirito del P. Giuliani e quel suo continuo richiamo alla preghiera è come il ritmo pulsante di un velocissimo velivolo che spazi nelle azzurre profondità del cielo.

Il suo presentimento – come risulta dalla lettera del 26 giugno, la prima a mia conoscenza che /145/ tale presentimento manifesti – si traduce in un commoventissimo atto di fede nella immortalità e nel valore perenne dell’amicizia oltre la tomba.

In questa stessa lettera egli si definisce «povero crociato dell’ultima impresa di Cristo e d’Italia»: noi possiamo e dobbiamo togliere quell’epiteto messo lì quasi a frenare l’impero generoso di uno spirito magnanimo, come già una volta aveva parlato del suo «sciatto eroismo». Riteniamo per il nostro riverente affetto la sua auto-definizione: «Crociato dell’ultima impresa di Cristo e d’Italia»: «ultima» nel senso storico e in ordine alle precedenti gloriose gesta, non «ultima» nel senso di punto fermo nello svolgimento della provvidenziale missione del Popolo Italiano.

Vi sono poi dei particolari – sparsi qua e là nelle sette lettere che pubblichiamo – dai quali gli articoli del P. Giuliani ricevono un complemento di circostanze che li rendono più interessanti e direi quasi più aderenti alla realtà storica.

Ho sottolineato quelle frasi sulle quali mi pare che il pensiero debba fermarsi con maggiore riverenza per cogliere, nel ritmo della frase o del periodo, il palpito del suo cuore d’apostolo del Cristo a servizio delle anime in terra d’Africa.

29 maggio 1935-XIII

«... Quanto più ameremo Dio tanto più godremo pure della gioia cristiana – superiore a tutte le mondane frivolezze – di sentirci uniti di spirito e di cuore, a dispetto di tutte le lontananze.

/146/ «Io mi trovo assai bene nell’ambiente delle Camicie Nere, dove vi è tanta sincerità di vita e di parola, e dove il mio ministero viene singolarmente favorito.

«Su questo altipiano, al confine che speriamo presto dilatare, nella effervescenza dei preparativi, mi sento rinato per le grandi cose e ringiovanito di vent’anni. Mentre attendo ai miei doveri, studio la lingua del paese, e tra qualche mese spero di parlarla come uno di questi morettini che benché sudici e mocciosi sono tanto carini....

«Dev.mo
s «P. Giuliani O. P.»

Adi-Cajè, 26 giugno 1935-XIII

«.... Non può immaginare quanto mi sia riuscita gradevole la sua trovata, di farmi avere in un azzurro cartoncino le trentaquattro firme delle nostre care socie della P. U.! È un ricordino che porterò sempre con me per rendermi conto, anche nei momenti forti che verranno, che vi è chi prega affettuosamente per questo povero crociato dell’ultima impresa di Cristo e d’Italia. Voi compite il grande dovere della donna cristiana e italiana di esser la forza vera, sorgiva, dell’eroismo. Ve ne sono grato assai, e se anche dovessi lasciar la vita in Africa – cosa non improbabile – la bella paginetta, scritta dal vostro santo affetto, non andrà perduta, ma sarà scritta sullo spirito che non muore.

/147/ «Di me, nulla di nuovo per ora. Continuano le mie occupazioni di ministero, perchè queste Camicie Nere son molto religiose. Ogni giorno predico nella chiesina della missione, stipata di militari che scappano dagli accampamenti per prender parte alla funzione serale. Di domenica parlo, come a Torino, quattro o cinque volte. In due giorni ho fatto oltre trenta matrimoni per procura. Ora sto ultimando un altare in pietra, con una gran croce, nel centro degli accampamenti, e con una strada tutta selciata per mezzo chilometro che mette capo a detto altare. Lavorano con gran gusto. Appena ne avrò la fotografia – sono pure capo dell’ufficio stampa e foto: tutto iniziale – gliela farò avere....

«P. Giuliani O. P.»

19 luglio 1935-XIII

«... Le sue care parole e le notizie sono state per me come una brezza della primavera d’anime, di quelle anime, che coltivate nel giardino di San Domenico, sono ben rappresentate....

«Non lasci spegnere la fiamma viva! Non sono gli uomini, ma è Dio che conta. Voli, sì, voli nelle alte regioni della piena serenità, dove si ama tanto perchè si è vicini al focolaio dell’amore – che è Dio solo – voli nei cieli della preghiera ardente e della bontà pronta a tutto sacrificare. In queste altezze non vi è pericolo di bruciarsi le ali come accadde all’insensato Icaro.

/148/ «L’ebbrezza di questi voli è spesso gustata – ma talvolta le eliche han da mordere troppo rabbiosamente l’aria, per non sentirne scosse dolorose.

«Combattiamo volentieri le battaglie della giovinezza, certi che il premio è riserbato solo ai vincitori.

«Sa che fra l’altro son diventato ingegnere e assistente edile?... I mori cattolici non avevano chiesa. Fra tante difficoltà e contraddizioni, riuscii a tirarla su: oggi è due metri fuori terra. Una costruzione grande (18,20 per 8,20) in solida muratura. È il più vasto ambiente, della regione. Il Signore mi aiutò singolarmente! Manderò poi fotografie....

«P. Giuliani O. P.»

13 settembre 1935-XIII

«Le mie truppe han l’onore di essere la punta d’acciaio della penetrazione. Preghi per i miei militi.

«Ho lasciato Adi Cajeh, tra il pianto disperato dei miei cari morettini. In un mese e mezzo ho condotto a termine la chiesa, la casa del parroco indigeno e il campanile. Questo alto dieci metri, fu costruito in sei giorni, tutto pietra e cemento. Così la mia vittoria, per grazia di Dio, fu completa. E speriamo di riportarne altre. Ho in mente di costruire là prima chiesa cattolica di Adua, e se Dio ci aiuterà, la cattedrale di Addis-Abeba....

«P. Giuliani O. P.»

/149/

10 ottobre 1935-XIII

«... Le sue due lettere ultime mi raggiungono in una tappa della nostra corsa – e le scrivo appoggiato alla sella del mio muletto. –

«Corsa piena di difficoltà, eppure radiosa – fame, sete, stanchezza – sono otto giorni che dormo per terra e mi nutro non so di che. Speriamo di fare anche di più....

«P. Giuliani O. P.»

5 novembre 1935-XIV

«.... Le mando due gelsomini raccolti da me su queste terre d’Africa. Essi, le diranno quel che le parole non possono dire. Sono candidi come la corona della mamma – come il gentile saio domenicano, e portano il profumo dell’Italia d’Africa.

«Ho tanto bisogno delle sue preghiere. Siamo sempre in peregrinazione: mentre puntiamo su Macallè non stiamo un giorno fermi.

«Si fanno strade, mulattiere, sempre con le armi alla mano.

«Ieri, 4 novembre, mentre mi recavo ai battaglioni – lontani ore da noi – caddi col mulo in un fiume limaccioso che stavo guadando: mi trovai tutto sommerso col viso nella profonda melma, con la testa del mulo tra le gambe. Non so come ne sia uscito da quella lotta con l’animale e la melma! Dovetti avere in imprestito tutti gli abiti, ma la grazia di Dio mi ha salvato dal soffocamento e dall’avere qualche costola rotta....

«P. Giuliani O. P.»

/150/

1° gennaio 1936-XIV

«.... Gli articoli devono ora essere dieci: presto manderò l’11° che però dovrà rimanere inedito.

«In questi giorni fummo provati, e attendiamo prove maggiori. Ma il Signore continua a proteggerci.

«P. Giuliani O. P.»

Qui pure, ritorna sul pensiero dell’opera che stava preparando: i dieci articoli erano infatti pervenuti regolarmente al confratello che li teneva in serbo per il suo ritorno.... L’11° anche venne e fu l’ultimo.

Dopo non scrisse più nulla, perchè si trovava là dove si scrive col sangue.

E l’ultima pagina, la bella, la più sublime Egli la scrisse col suo sangue.

Questo libro che raccoglie gli ultimi scritti del P. Giuliani sarà letto con maggior profitto, dopo tutto quello che precedentemente egli stesso ci ha detto di sè.

Le parole, che potrebbero sembrare sonanti un impulso di vita spontaneamente generosa, sono fasciate di luce che si sprigiona dall’interno più profondo del suo spirito e che raccoglie nella sem- /151/ plicità del suo candore, tutta la gamma dei più svariati colori. Il loro senso è pieno e la loro vita permanente al di là della tomba.

Ho detto nelle pagine umili dettate dal cuore, quello che nel cuore tumultuava per lo spasimo grande d’una ferita che non si chiude. Ma ho voluto chiudere non con la mia piccola testimonianza, ma con la testimonianza bella di un venerando mio confratello che per me volle scrivere alcune noterelle sul P. Giuliani intimo.

Sono contento che egli mi abbia autorizzato ad inserirle in questo mio memoriale, perchè l’intimità a cui erano destinate, dà loro, a me pare, maggior pregio di obiettività.

Anch’io mi sono attenuto ad una norma di precisa obiettività, ma la mia analisi è forse un po’ monotona. Qui c’è il pregio della sintesi armoniosa e luminosa nel quadro sempre splendido della dottrina classica dei grandi nostri maestri.

Dio voglia che coloro i quali l’hanno conosciuto, qui possano ritrovarlo vivo e operante nei suoi lineamenti così belli. Quanto a coloro che non lo hanno conosciuto o lo hanno sfigurato, Dio faccia che, correggendo i loro giudizi, meglio sappiano profittare degli insegnamenti salutari che, oltre la tomba, egli continua a dare alla nostra generazione.

Apostolo della Patria, Ministro di Dio, Apostolo del Cristo, egli è ancora potente con la voce del suo sangue a richiamare le anime sul retto sentiero della verità e della virtù.

/152/

P. Giuliani «intimo»

«È risaputo da tutti che in ogni individuo c’è quasi un doppio uomo: l’uno esteriore, che appare al di fuori; l’altro interiore, che si cela di dentro. Anche l’Apostolo san Paolo parla di questo duplice uomo nella sua seconda lettera ai Corinti (IV, 16), l’uno qui foris est, l’altro qui intus est, in ciascuno di noi; e ritorna sopra questo concetto in altre sue lettere, come in quella ai Romani (VII, 22) e in quella agli Efesini (III, 16).

L’uomo esteriore, più che dai suoi tratti somatici, facilmente si rivela agli occhi di tutti dal suo abituale portamento, dal suo parlare e soprattutto dal suo agire. Non così facilmente invece si rivela agli occhi di tutti l’uomo interiore, che è lo spirito tutto proprio dell’individuo, la sua psiche particolare, benché ordinariamente – e quasi naturalmente, in forza della naturale correlazione tra l’anima e il corpo – l’interno si tradisca da se stesso e trapeli all’esterno, secondo il motto evangelico: Ex abundantia cordis os loquitur! (San Matteo, XII, 34); e non così facilmente si rivela, perchè a volte l’individuo, per ragioni tutte sue personali, pone uno studio speciale nel celare agli altrui sguardi il suo interno, talvolta anzi mascherando sotto una mentita spoglia, una falsa vernice esteriore. È quello che fanno i mondani, per nascondere al pubblico le sregolatezze e i disordini della loro vita intima; ed è pur quello che fanno /153/ sovente anche gli stessi Uomini di Dio, per nascondere agli occhi del mondo i tesori inestimabili della loro anima, per sentimento di delicata modestia e quasi per sacro rispetto a Colui, che tali doni ha loro elargito, conforme il monito del vecchio Tobia: Sacramentum regis abscondere bonum est! (XII, 7).

A volte, anzi, tali Uomini di Dio sanno abilmente nascondere i preziosi tesori spirituali, che si celano nella loro anima, da presentare quasi uno strano contrasto tra il loro esterno e il loro interno, sì che questo sfugge agli occhi degli uomini e solo un occhio clinico e sagace può intuire o almeno indovinare il loro «intimo», mentre invece il comune occhio profano ne è facilmente tratto in inganno, da questo fallace contrasto, riputando l’interno di tale individuo da quello che falsamente apparisce all’esterno. Ed è proprio così che P. Giuliani fu da troppi e troppo sovente incompreso, malamente compreso e ancor più malamente giudicato, talvolta anzi fino al rovescio di quello ch’egli era in realtà.

Chi non conobbe P. Giuliani? poichè egli era troppo noto e notorio dovunque, non solo in tutta Italia, ma altresì in altre nazioni d’Europa e perfino nelle lontane Americhe. Ma chi lo conobbe veramente, giustamente, integralmente, nella sua vera realtà? Ben pochi, pochissimi. Quel suo fare abituale da eterno ragazzone, sempre gioviale, allegro e perfino chiassoso, quella sua esuberanza di vita e di vitalità, quasi irrequieta, quella stessa sua vita dinamica, assai movimentata, tutto questo /154/ assieme di cose faceva sì che certi spiriti superficiali, quorum non est numerus, non vedessero nel P. Giuliani che un «uomo esteriore» e puramente esteriore, cioè l’assenza assoluta dell’«uomo interiore», propriamente detto, secondo il pensiero di san Paolo, e quale avrebbe dovuto essere, e come sacerdote e come religioso: così infatti fu generalmente giudicato P. Giuliani dai preti secolari, tranne qualche rara eccezione, e anche da religiosi, non esclusi quelli della sua stessa Famiglia Domenicana, sì da vicino che da lontano, sì in basso che in alto.

Tali giudizi poi, così sfavorevoli e ingiusti, oltreché ingiuriosi, crebbero e ingagliardirono assai, a dismisura, dopo che per il suo contatto continuo coi soldati e coi suoi Arditi durante la grande guerra, senza saperlo e quasi istintivamente egli aveva preso un fare marziale e, per la lunga abitudine fatta, usava talvolta linguaggio e tratto alquanto soldatesco, pur senza venir mai meno alle leggi del decoro religioso e della sua dignità personale. Così fu che P. Giuliani da taluni Confratelli della sua stessa Provincia Domenicana potè esser giudicato «un mezzo frate»; e ci fu anche perfino chi giunse a classificarlo così: «Non è un frate, ma un soldato!».

E non pochi erano gli ecclesiastici, i quali a udire dalla radio i suoi discorsi patriottici in certe occasioni ufficiali o a vederlo trattare tanto familiarmente coi giovani studenti e universitari, coi balilla, avanguardisti e fascisti, lo dicevano «un fascista in tenuta domenicana». E di tali giudizi, /155/ così evidentemente erronei, non se ne faceva un mistero; ma si comunicavano dagli uni agli altri, e si propalavano senza riguardo, perfino in pubblico.

Quante volte, infatti, chi scrive questi appunti ebbe a udire, specialmente dal labbro di ecclesiastici, per altro buoni e pii, tali opinioni strampalate e assurde sul conto del P. Giuliani! E quante volte perciò non tanto per l’onore della casta, come suol dirsi, spirito di corpo, quanto per amore della verità, anzi unicamente in omaggio alla verità, dovette intervenire per confutare siffatti pregiudizi, indarno forse, senza riuscirvi, non già per mancanza o insufficienza di prove, ma piuttosto perchè non vi è più cieco di colui che non vuol vedere.

Niente di più temerario, di più falso, di più errato di tali giudizi; poichè, al contrario, P. Giuliani possedeva nel suo «intimo» una spiccata «spiritualità», direi anzi eccezionale, spinta al più alto diapason, ch’ei sapeva sì bene nascondere sotto quella scorza esteriore di apparente dissipazione: «spiritualità» tanto eminente, quanto più era in contrasto con quello che di lui appariva al di fuori. Chi vuol conoscere l’«intimo» del P. Giuliani, il suo spirito religioso-sacerdotale, la sua pietà profonda, la sua devozione soda, aliena da qualsiasi superfetazione o prammatico formalismo e soprattutto il suo grande amor di Dio e delle anime, non ha che da leggere – spassionatamente; e senza preconcetti – le sue opere molteplici, nelle quali, sotto la veste signorile di una lingua elegante, di uno stile brillante e di una rara coltura, /156/ ha trasfuso se stesso: ciò specialmente nella sua Vita di San Tommaso d’Aquino, nei cenni storici dei Beati Domenicani del Piemonte, soprattutto nel suo magnifico libro Le Vittorie di Dio, nonché nel medaglione storico del Ven. Luigi de Granada, ch’egli ha premesso alla sua bella nuova traduzione del capolavoro di questo insigne scrittore domenicano spagnolo, La Guida dei Peccatori, dall’autore e dal traduttore destinata ai laici, alle persone del secolo.

È vero che taluno forse – più malignamente che cristianamente – potrebbe anche pensare che «altro è lo scritto e altro può essere lo scrittore».... Ebbene, per fortuna, non mancano dati positivi, che depongono in favore di questa «spiritualità», affatto superiore del P. Giuliani; che dimostrano, anzi, come e quanto P. Giuliani fosse non solo permeato, ma saturo di «spiritualità», di soprannaturale nell’intimo sacrario della sua anima, dei suoi pensieri, sentimenti, affetti, intenzioni, aspirazioni. Anzitutto, infatti, bisognava vederlo in chiesa, con quale contegno e raccoglimento vi si teneva, sempre, proprio lui che non sapeva star fermo un minuto, come un folletto; bisognava vedere con quale devozione celebrava la santa Messa, con quale compostezza e proprietà religiosa salmeggiava in coro: lo si sarebbe detto «un altro» tanto quella sua pietà profonda faceva contrasto con la sua abituale e innata vivacità. Inoltre, è un fatto accertato da parecchi testimoni che, anche quando si trovava fuori convento e non poteva quindi prender parte agli esercizi della Comunità, /157/ non lasciava mai la sua quotidiana meditazione, che è come il sintomo rivelatore delle anime veramente spirituali; e questo, anche allora quando si trovava in predicazione, assillato da parecchie prediche ogni giorno, come accadeva durante le Sante Missioni, ch’egli dettava molto spesso, mentre il comune dei missionari, in tali strettezze di tempo, fa servire come sua propria meditazione giornaliera, la preparazione della predica, che è per fare al popolo. Nè si contentava P. Giuliani, in simili congiunture, di una qualsiasi meditazione, breve e fugace; ma si sa di certo che, anche nelle Missioni e nelle Quaresime, ogni mattina, prima d’ogni altra cosa, faceva una buona ora di meditazione, dando così alla sua anima, al suo spirito, quell’alimento sostanzioso e abbondante, che doveva sostenerlo vicino a Dio in tutta la giornata e produrre poi in lui e negli altri i suoi ottimi frutti.

Del resto, la prova apodittica e più convincente di questa sua «spiritualità» egli stesso ce l’ha data, forse senza saperlo, non molti anni or sono; una prova, contro la quale cozzano e s’infrangono tutti i pregiudizi e le maligne accuse, che vorrebbero negare nel P. Giuliani l’«uomo interiore»: e fu il suo presto rimpatrio dal Nord-America.

Sui primi del 1929, infatti, dopo un ciclo di predicazioni nell’America Latina, P. Giuliani si recava negli Stati Uniti d’America per dettare Sante Missioni ai nostri connazionali là emigrati, unendosi in ciò a vari altri suoi Confratelli Domenicani, che l’avevano preceduto in questo ministero e vi andò per fermarvisi parecchio; ma ben poco in- /158/ vece vi si trattenne, meno di un biennio, contrariamente agli altri missionari, i quali per molti anni rimasero là, su quel campo delle loro fatiche apostoliche: e fu davvero una sorpresa per tutti, quando si seppe che P. Giuliani era già ritornato in patria.

Perchè non si fermò più a lungo nel Nord-America? Forse per motivi di salute? No, certamente, che allora la sua salute era florida e prosperosa. Forse per insuccesso di ministero? Oh, tutt’altro, che anzi, conoscendo ormai anche l’inglese, egli poteva riportare i suoi facili trionfi oratorii non soltanto coi nostri connazionali, ma altresì con gli stessi Nord-americani, predicando forbitamente e con grandi successi nella stessa loro lingua. Perchè allora?

Per una sola ragione: gli sfuggì dal labbro, forse senza che se ne accorgesse: «Per la mancanza di spiritualità in quella gente dall’anima metallica». E lui, «uomo spirituale» qual era, trovandosi come un pesce fuori dalla sua acqua, non poteva adattarsi a rimanere più a lungo in quell’ambiente, e ne ritornò ben presto, innanzi tempo. Senza commenti! Eppure chiunque avrebbe detto, e magari anche giurato, che là P. Giuliani si sarebbe trovato nel suo proprio clima morale, tanto anche lui era dinamico, movimentato!...

Il fatto sintomatico ed espressivo, che or ora ho ricordato, è troppo eloquente di per se stesso e dice assai più di qualsiasi altra mia argomentazione in proposito.

Mi è caro tuttavia indugiarmi ancora un po- /159/ chino su questo argomento, che è tutto a lode e gloria del nostro grande Scomparso, forse e senza forse più di ogni altra cosa, rilevando qui in brevi tratti il suo altissimo spirito religioso e sacerdotale, siccome quello che è la più forte e ineluttabile dimostrazione della sua non comune «spiritualità».

Anzitutto il suo spirito religioso vivo e profondo, di vero frate, e precisamente di frate-predicatore, conforme la sua vocazione domenicana. Il suo distacco dalle cose della terra era troppo noto a tutti, ma specialmente a quei tanti, che, più o meno ragionevolmente, se ne approfittavano per sfruttarne la inesauribile generosità, ai quali tutti il buon frate non sapeva mai rifiutarsi, neanche quando s’accorgeva di essere stato ingannato o che si era abusato della sua prodigalità; tanto che era ormai proverbiale che «P. Giuliani avrebbe dato in carità anche la sua camicia», se gliel’avessero chiesta – quella camicia, che gli stessi barbari assassini etiopici, con un certo rispetto, gli lasciarono indosso, sull’altare del suo sacrificio – al punto che il superiore stesso e l’incaricato alla bisogna di ogni singolo frate, dovevano ben vigilare perchè P. Giuliani, almeno quando partiva dal convento per una lunga predicazione, fosse provvisto del conveniente vestiario. Evidentemente, il suo spirito di povertà, veramente evangelica, non poteva assurgere a più alto grado, toccandone costantemente l’apogeo.

Della sua delicatezza di coscienza in fatto di castimonia, mi basta citare qui un solo particolare, /160/ un episodio piccolo, ma rivelatore. L’anno 1920 P. Giuliani aveva predicato in Firenze il suo terzo Quaresimale, questa volta in Santa Maria del Fiore; con un successo strepitoso sì da mandare in delirio i Fiorentini. Dopo l’ultima predica, i suoi entusiasti uditori gli si stiparono intorno per salutarlo; quando un signore gli presentò una sua figliuola, un’adolescente, pregandolo di darle un bacio, quasi a baciare in lei tutti i Fiorentini, che tanto lo amavano.

P. Giuliani sentiva fissi su di sè gli occhi di tutta quell’immensa folla; ma da pari suo, se la cavò destramente da quell’imbarazzo: sorridendo amorevolmente, levò maesto­samente la sua mano destra, e, tracciando un segno di croce sopra la fanciulla, le diede la sua benedizione.

Allora, accortamente, un altro signore gli porse davanti un suo ragazzino; e questo, P. Giuliani abbracciò subito e baciò affettuosamente, tra uno scroscio infrenabile di applausi di tutta quella moltitudine. Episodio suggestivo, edificante! Nò minore in lui era l’abnegazione di se stesso, del suo «io», della sua propria volontà, in strano contrasto con quel suo portamento dignitoso, quasi autoritario, militaresco, che gli era naturale.

È un fatto che egli dipendeva in tutto e per tutto dai suoi superiori, come un novizio; e, anche quando era invitato personalmente per qualche predicazione, La sua risposta era questa:

– Io sono agli ordini del mio Padre Priore; a lui quindi si rivolga la richiesta, e, se egli me lo comanda, ben volentieri accetto e verrò! –

/161/ Umiltà non comune in un grande predicatore, che come lui riempiva il mondo della sua fama! Virtù meno che rara, a cui non mancarono dure prove, ma che resistette impavida, adamantina, incrollabile, innanzi a qualsiasi urto e ne uscì trionfante, vittoriosa.

poichè, come ad ogni individuo e più ancora a quelli che emergono sopra gli altri, così anche al P. Giuliani, nella sua stessa carriera religiosa, non lunga, ma assai movimentata, la vita non risparmiò i suoi contrasti, le sue ore grige; ma questi contrasti, che avrebbero scosso, abbattuto e infranto una virtù mediocre, altro non fecero invece che più e più fare rifulgere le sue virtù religiose e il suo spirito di disciplina.

Infatti, senza parlare delle molte gelosie contro di lui suscitate dalla stessa sua celebrità, troppo spesso gli giungevano agli orecchi dicerie, critiche, apprezzamenti falsi e ingiuriosi, accuse ingiuste sul conto suo, una vera campagna denigratoria: ed egli taceva sempre, dissimulava e perdonava generosamente.

Più di una volta eletto Priore dai frati di questo o quel convento, la sua nomina era stata annullata dai Superiori Maggiori; ed egli non mosse mai alcun lamento e nemmeno chiese spiegazioni della subita cassazione.

E, anche quando fu incriminato dall’Autorità Superiore e contro di lui fu preso un grave provvedimento – alludo alla famosa benedizione del pugnale di Gabriele d’Annunzio, da lui fatta nella chiesa di San Vito a Fiume – egli, che ben poteva /162/ giustificarsi, comprovando che a ciò era stato autorizzato debitamente dai competenti e immediati suoi Superiori ecclesiastici ai quali egli si era rivolto, innanzi di procedere a quella cerimonia religioso-guerresca, egli invece tacque, subì in silenzio l’onta e la misura punitiva inflittagli e obbedì prontamente e con docilità ammirevole; e neanche in seguito pensò a difendersi e discolparsi preferendo portarsi con se il suo segreto nella tomba: virtù eccezionale davvero, straordinariamente sublime, anzi diciamolo pure, veramente eroica.

E pari a questo spirito religioso era il suo spirito sacerdotale per zelo delle anime, che lo infiammava, lo divorava e istintivamente lo portava a tutto sacrificarsi per guadagnare anime a Cristo, instancabilmente anche a costo di abusare delle sue forze, per quanto abbastanza resistenti, fino a tenere più volte ben tre Quaresimali quotidiani contemporaneamente.

Una volta ch’io mi permisi di rimproverargli fraternamente questo eccessivo dispendio delle sue energie, con cui si sciupava l’organismo e si accorciava la vita, mi rispose:

– Che cosa importa, io amo vivere più intensamente che lungamente, purché possa fare un po’ di bene! –

Parole testuali, edificanti, alle quali non seppi replicare. È facile quindi comprendere come un tanto zelo non mancasse di dare i suoi frutti. Proverbium est, voce comune, che i grandi oratori non convertono un’anima e nessuno attirano al confessionale, se non qualche isterica ammiratrice: /163/ e questo avviene forse perchè, purtroppo generalmente, i grandi oratori fanno della rettorica e niente più, predicando quasi aërem verberans (I Ai Corinti, IX, 26) e cercano più l’effetto sugli uditori che il frutto delle anime.

Ben diversamente invece l’eloquenza del P. Giuliani, maschia, scultoria, incisiva, non solo nelle Missioni, ma anche nei Quaresimali, produceva dovunque ubertosissimi frutti e faceva grandi «pesche di pesci grossi», come suol dirsi, cioè conversioni straordinarie, eccezionali, e talvolta strepitose, penetrando la sua calda voce nei cuori, viva, efficace, insinuante, convincente, pertingens usque ad divisionem animae ac spiritus (Agli Ebrei, IV, 12). Donde ciò se non da quell’amore, da quel zelus animarum, che gli divampava dal cuore?

Ricordo, sui primi del marzo 1933, Mons. Cavigioli, professore nel Seminario di Novara, mi raccontava con visibile commozione le mirabili conversioni, che P. Giuliani, predicando il Quaresimale nella Cattedrale di Novara, andava ogni dì operando, tra l’aristocrazia della società, del denaro, della scienza e del vizio altresì e dell’ateismo; e soggiungeva che ciò non lo maravigliava punto, vedendo tutto il dì co’ suoi occhi lo spirito di orazione, di sacrificio e di penitenza, di cui il Quaresimalista dava mirabile esempio nella sua convivenza coi Superiori e Professori del Seminario, sì che non si riusciva a persuaderlo di usarsi speciali riguardi nel vitto, almeno per la fatica della predicazione, rispondendo egli ad ogni insistenza:

/164/ – Se vogliamo convertire le anime, dobbiamo ben prima fare noi quella penitenza, che dovrebbero fare loro! –

Questo suo spirito sacerdotale, del resto, traluce di meridiano splendore da tutto il suo libro Le Vittorie di Dio che a mio avviso, è il suo capolavoro, e specialmente nel capo XV, Impendam et superimpendar il più bel capitolo di tutto il volume, in cui, descrivendo il Cappellano Militare, senza saperlo, si è tradito, descrivendo ivi tutto se stesso, mirabilmente: un magnifico autoritratto!

Onde chi scrive queste righe fu facile profeta, quando, appena cominciata la nostra azione bellica in Africa Orientale, e poi ancora in seguito iteratamente, sentenziò quasi con sicurezza «che P. Giuliani non sarebbe più tornato», aggiungendo, a chi gliene chiedeva spiegazione:

– Padre Giuliani è talmente incurante della sua vita e tanto zelante per la salute delle anime, che per dare un’assoluzione a un soldato morente, si caccerebbe sotto la mitraglia e davanti alla bocca di un cannone! –

E così avvenne, di fatto; poichè tale fu la sua fine gloriosa, un vero eroismo di zelo sacerdotale.

Nessuna maraviglia pertanto che il popolo, col suo buon fiuto e col suo naturale buon senso, certamente più assai di taluni ecclesiastici e religiosi, dimostrò ognora di ben conoscere e apprezzare P. Giuliani nel suo «intimo»; poichè la sua morte santa e santamente eroica non fece che confermare questo giudizio popolare. E nemmeno è da stupirsi che il popolo, compreso di ammirazione /165/ per la volontaria e cruenta immolazione del P. Giuliani, l’abbia prematuramente canonizzato «santo», come un buon popolo, che ha l’anima «naturalmente cristiana» (Tertulliano) e possiede il sensus Christi (I Ai Corinti, II, 16), in tutti i tempi è sempre stato il primo ad accertare la virtù straordinaria degli Uomini di Dio e a dichiararli «santi», precorrendo il giudizio della Chiesa, la quale, coi suoi decreti di Beatificazione o di Canonizzazione, altro non ha fatto e non fa che confermare, ratificare e suggellare con la sua Suprema Autorità questo plebiscitario giudizio, del popolo cristiano, ripetendosi qui il noto aforismo: Vox populi, vox Dei! E noi quindi non possiamo a meno di compiacerci nel rilevare questo universale consenso del popolo, di quanti conobbero P. Giuliani, nel proclamarne la rara virtù, anzi la santità della vita.

Molto ancora e molto assai io potrei qui aggiungere, in questo studio psicologico dell’anima del P. Giuliani; ma temerei di guastare, anziché di esaurire il tema, con la mia prolissità. Per altro, il fin qui detto mi pare che basti a mettere in luce la squisita «spiritualità», l’«uomo interiore» del P. Giuliani; questa sua «spiritualità», che da molti non fu compresa; questo suo «uomo interiore», che da troppi gli fu negato, ingiustamente negato.

Ma che importa ciò? Noi siamo quelli che siamo innanzi a Dio, e non come ci può giudicare questi o quegli, chiunque egli sia, in basso o in alto. Ad ogni modo, piaccia o non piaccia a taluno, si voglia o no riconoscerlo, la verità è questa, che /166/ P. Giuliani era veramente quale io l’ho qui tratteggiato, di una «spiritualità» assolutamente superiore affatto eccezionale; e io, che credo di averlo ben conosciuto, sono ben lieto di dargliene qui, se non pubblica, aperta e franca testimonianza. Pensando al P. Giuliani, oh, come opportunamente viene ben in taglio quell’ammonimento del Maestro Divino: Nolite iudicare secundum faciem, sed justum judicium judicate! (San Giov., VII, 24).

Con questo pensiero tutto divino del mio venerando confratello, si può chiudere questa memoria sul P. Reginaldo Giuliani. Egli, avendomi autorizzato a usare la sua testimonianza per il presente profilo, che ho cercato di delineare con affetto serenamente obiettivo, può essere contento che essa sia ormai non solo «aperta e franca» ma anche «pubblica».

Lui e io docilmente ci sottomettiamo ai sapienti decreti della Chiesa e in modo particolare del papa Urbano VIII, dichiarando che al suo giudizio sottoponiamo ogni affermazione raccolta qui con intendimento puramente storico per conforto di quanti conobbero P. Giuliani e per conservare nella sua purezza la fisionomia spirituale del Ministro di Dio che la sua vita generosamente spese a gloria di Dio, a salute delle anime.

Inoltre, prima di deporre la penna, mi sia permesso rivolgere da queste pagine un pubblico e /167/ vivo ringraziamento all’Editore Salani che per rendere più bello il presente volume, volle un’ampia relazione biografica sul suo e nostro Amico. Questa sua volontà l’ho adempita religiosamente, perchè così anch’io ho potuto portare la mia piccola testimonianza alla vita dello spirito nell’Apostolo della Patria.

P. Ceslao Pera O. P.

Torino, San Domenico, 23 dicembre 1936-XV
XXV Anniversario della sua Ordinazione Sacerdotale

/169/

Nota alle pagg. 105 e 106

Tra la fine della pag. 105 e il principio della pag. 106 si parla dell’esistenza di una lettera di P. Giuliani, di cui si lascia il dubbio se essa sia stata veramente scritta da Lui. L’Autore dello scritto che precede, quando già il volume era stato licenziato alle stampe, ba avuto modo di accertarsi de visu che la lettera esiste realmente. Cadono quindi tutte le supposizioni fatte e la lettera ha il suo valore di documentazione insopprimibile.

/170/

Strofa cantata
dai legionari d’Africa

« . . . . . . . . . . . . . .
I morti che lasciammo a Passo Uarieu
sono i pilastri del romano impero.
Gronda di sangue il gagliardetto nero
che contro l’Amba il barbaro inchiodò.
Sui morti che lasciammo a Passo Uarieu
la Croce di Giuliani sfolgorò.
. . . . . . . . . . . . . . . »

/171/

Motivazioni delle medaglie al valor militare concesse al Padre Reginaldo Giuliani durante la grande guerra

Medaglia di Bronzo al V. M. – Da Cappellano del 55° Reggimento Fanteria. – Hudi Log, 4 novembre 1916.

«Costante e bell’esempio di carità, abnegazione e valore militare, sprezzante del pericolo, percorreva ed accompagnava la linea dei combattenti incitando tutti con l’esempio e con le parole vibranti di amor patrio a compire fino all’ultimo il proprio dovere; ed era così di valido ausilio all’opera degli ufficiali, durante l’attacco.» (B. U. 1917, pag. 5685.)

Medaglia di Bronzo al V. M. – Da Cappellano dei Reparti d’Assalto della 3ª Armata. Fornace, 26 ottobre 1918.

«Impareggiabile figura di prete e di soldato, sempre volontario con le pattuglie di punta e nelle imprese più rischiose, prestava, ove maggiormente infuriava la lotta, la sua opera di carità ai feriti italiani e nemici. Circondato da una trentina /172/ di austriaci mentre curava un loro ferito, seppe convincerli ad abbandonare le armi ed arrendersi alle truppe italiane, ormai in piena vittoria.» (B. U. 1920, pag. 353.)

Medaglia d’Argento al V. M. – Da Cappellano dei Reparti d’Assalto della 3ª Armata. Romanziol, 30 ottobre 1918.

«Giunto al Reparto immediatamente dopo aver partecipato ad un’azione su di un altro tratto della fronte prendeva parte con inesauribile lena a un nuovo combattimento incuorando e incitando le truppe nei più gravi momenti. Nelle soste della lotta anziché concedersi riposo, pietosamente si dava alla ricerca dei feriti e prestava loro amorevolmente assistenza e conforto. In una critica circostanza essendo un ragguardevole tratto della fronte rimasto, a causa delle forti perdite, privo di ufficiali, volontariamente ne assumeva il comando disimpegnando le relative mansioni con vigorosa energia e mirabile arditezza.» (B. U. 1920, pag. 3913.)

/173/

Motivazione per la concessione della medaglia d’oro sul campo conferita alla memoria di Padre Reginaldo Giuliani

«Durante lungo accanito combattimento in campo aperto, sostenuto contro forze soverchianti, si prodigava nella assistenza dei feriti e nel recupero dei caduti.

«Di fronte all’incalzare del nemico alimentava con la parola e con l’esempio l’ardore delle sue Camicie Nere, gridando: – Dobbiamo vincere, il Duce vuole così. –

«Chinato su di un Caduto, mentre ne assicurava l’anima a Dio, veniva gravemente ferito. Raccolte le sue ultime forze, partecipava ancora con eroico ardimento all’azione per impedire al nemico di gettarsi sui moribondi, alto agitando un piccolo Crocifisso di legno.

«Un colpo di scimitarra da barbara mano vibrato, troncava la sua terrena esistenza, chiudendo la vita di un Apostolo, dando inizio a quella di un Martire.

«Mai Beles, 21 gennaio 1936-XIV.»

[Nota a pag. 19]

1 «Rivestitevi di Domenico per rivestirvi del Signor Nostro Gesù Cristo.» [Torna al testo ]

[Nota a pag. 39]

1 « Coloro i quali formano le moltitudini alla giustizia,
rifulgeranno come stelle eternamente. » [Torna al testo ]

[Nota a pag. 46]

1 Spinoza e Kant, rinnovando quest’etica stoica, si meritarono il titolo di Santi. Così un autore tedesco dice sempre: Santo Spinoza. Santi, si capisce, della penna – o Santi come i Santoni mussulmani. – I filosofi arabi determinando più teologicamente la dottrina stoica, posero l’ideale dell’umanità nell’innalzarsi fino alla natura angelica, spogliandosi del corpo, e per conseguenza delle passioni (I-II, q. 2, art. 8 ad primum). [Torna al testo ]

[Nota a pag. 47]

1 La concupiscenza è per san Tommaso una conseguenza necessaria della privazione della giustizia originale, come l’elemento materiale è necessario alla composizione chimica dei corpi; (vedi I-II, q. 82, art. 3); tesi un po’ dimenticata dai teologi post-tridentini, intenti a combattere il fatalismo delle passioni di Lutero. [Torna al testo ]

[Note a pag. 48]

1 Vedi per es.: I-II, q. 34, art. 1 contro gli Stoici. [Torna al testo ]

2 I, q. 3, art. 8 – è l’unica volta che san Tommaso abbia questa parola. Degli errori, ordinariamente egli dice: «hoc nihil est.... hoc vanum est». [Torna al testo ]

[Note a pag. 50]

1 «poichè, come osserva il Damasceno, l’uomo si dice fatto ad immagine di Dio per esprimere che egli è intellettuale, libero e padrone di sè, dopo aver parlato del Modello, cioè di Dio e di ciò che con la sua divina potenza liberamente creò, ci rimane a considerare la sua Immagine, cioè l’Uomo, secondo che anche egli è principio delle sue opere, come avente libero arbitrio e dominio di ciò che fa.» (Traduz. Edit.) [Torna al testo ]

2 Vedi specialmente I-IT, q. 50, art. 5 in fine corporisq. 51, art. 1, concl. II ove dimostra che la volontà è il fattore della virtù. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 51]

1 Per es. I-II, q. 85, art. 6, in corp. ove distingue il principio Aristotelico: «Materia proportionatur suae formae»: e nel De Trinit.: «quae sunt eadem uni tertio, sunt eadem inter se». [Torna al testo ]

[Note a pag. 52]

1 Per es. I-II, q. 100, art. 1, le tre soluzioni. [Torna al testo ]

2 I, q. 39, art. 5, ad primumq. 40, art. 2, e cento altri passi. [Torna al testo ]

3 I-II, q. 94, art. 5, ad tertium – I, q. 74, art. 2. [Torna al testo ]

4 Ved. I, q. 68, art. 1, in princ. corp. e q. 70, art. 3, ove dice semplicemente: «quod in mota caelestium non apparet» mentre che qualche suo lontano discepolo avrebbe esclamato: «est absolute rejiciendum, quia contro omnem experientiam» [Torna al testo ]

[Nota a pag. 61]

1 «Il bene sociale è il principale tra i beni umani.... ma può diventare divino quando si riferisce in Dio.» [Torna al testo ]

[Nota a pag. 78]

1 «Ma io con grande piacere spenderò tutto e spenderò me stesso per le anime vostre, quantunque amandovi di più, meno sia amato da voi.» [Torna al testo ]

[Nota a pag. 80]

1 «Volentierissimo per le anime vostre spenderò tntto e spenderò me stesso.» (Trad. nel testo del P. Giuliani.) [Torna al testo ]

[Nota a pag. 119]

1 Sotto questo nome c’è a Torino un’associazione di bimbi i quali hanno ciascuno un piccolo salvadanaro in forma di pesciolino e nel quale raccolgono i loro piccoli risparmi a beneficio dei bimbi poveri. [Torna al testo ]