/41/

Capitolo V.

Ascensioni di sangue.

Se l’attesa del pericolo supremo agiva quale potente forza d’elevazione, il pericolo non lasciava quelle creature senza sovrumane commozioni verso il bene.

Lo scatto all’assalto è la più tragica scena di guerra. Il fuoco accelerato dei cannoni che suonano confusamente a stormo e il sibilo di granate volanti, e il martellar delle mitraglie, e lo schianto delle tozze bombarde, e le scosse continue dell’aria e della terra e i lampi sinistri, tolgono ogni parola alla massa di assalitori pigiati in un ridottino. Nessuno fiata: pare che, immobile, coll’elmetto in capo e il fucile impugnato, ognuno ascolti il battito del proprio cuore. Sono momenti sacri.

Il cappellano, con voce tremante, dice l’ultima parola: «Due raccomandazioni vi faccio, pel vostro bene, in questo momento supremo. Ubbidienza anche ai minimi cenni dei vostri capi; molti potrebbero perdere la vita per non ascoltare un ordine del proprio ufficiale. Poi, mettetevi nelle mani di Dio, domandandogli ancora il perdono di tutti i vostri peccati; ed io vi do la /42/ santa assoluzione... E avanti con Dio! per l’intercessione della Vergine e, dei Santi, siate forti, e siate salvi!»

Le lacrime spuntano e cadono abbondanti da molte ciglia.

Un ufficiale mi prende per le mani, e con tono di preghiera mi dice: «Padre, venga a dire due parole ai miei soldati che stanno poco discosto.»

V’è chi mi bisbiglia un’ultima confidenza, chi mi affida un oggetto caro e prezioso, chi mi prega di prender nota dell’indirizzo della sua famiglia, per farle pervenire la notizia degli eventuali sinistri. I miei taccuini sono pieni di queste firme, intercalate da frequenti impronte di pollici insanguinati, come di dolorosi suggelli.

Ma tutti s’esprimono colle parole più brevi e sommessamente.

Si fissa l’orologio con maggior ansia; si osserva il tiro delle nostre artiglierie. Le vedette annunciano che il tiro è stato allungato sul rovescio delle posizioni nemiche. L’ora fissata scocca: abbracci, baci, strette di mano... un’ultima parola, un augurio, una preghiera, una benedizione, e si balza dalla trincea, si valicano i reticolati; e si vola contro il nemico.

L’opera efficace di distruzione della nostra artiglieria, la lestezza degli assalitori, tengono la maggior parte nell’efficenza del successo; ma nella capricciosa sorte della battaglia, che per un nonnulla può riuscire piegata a un termine opposto a tutti i calcoli e a tutte le previsioni, bisogna vedere la mano d’una Provvidenza Divina, che dà la vittoria o la sconfitta, la vita o la morte. Una sola mitraglia nemica, negletta dagli assalitori, può sembrare strumento della vendetta divina, e /43/ annientare un battaglione sull’orlo della vittoria. Non sempre e neppure di frequente ci siamo meritati il favore del Cielo!

Prima ancora che le ondate d’assalto balzino dalle nostre trincee, vi sono dei colpiti; dopo lo sbalzo, poi, ve n’è sempre in grande abbondanza.

Il primo soccorso ai feriti è dato dal cappellano. I comandanti, al momento dell’assalto, non sono preoccupati che dell’esito dell’operazione: ogni altra cosa pare loro estranea. I camerati non possono dare che un aiuto assai effimero, poichè è fatta loro proibizione di sottrarsi per qualunque motivo dal combattere col nemico. I portaferiti sono quasi sempre troppo inferiori al bisogno, e pel numero esiguo e per la mancanza di qualità morali e dello spirito di sacrifizio richiesto alla loro missione: parecchi disertano dai campi più pericolosi e più bisognosi del soccorso; altri pure s’imboscano vigliaccamente in qualche sicuro anfratto. I medici hanno lavoro, a cui non bastano, nell’operate i feriti più gravi che vengono loro portati nei primi posti di medicazione, riparati il meglio possibile dal tumulto del combattimento. Dunque al primo conforto dei feriti e dei morenti non v’è persona più atta del cappellano.

È vero che il posto assegnatogli ufficialmente pel tempo di combattimento era il posto di medicazione reggimentale, dove confluivano i feriti dai diversi punti della linea. La carità verso i soldati, il loro bisogno spirituale, il consiglio dei superiori dovevano suggerirgli volta per volta se fosse conveniente restare al posto ufficiale, o non piuttosto spingersi avanti sul terreno della vera zuffa. Normalmente nel portarsi avanti il /44/ suo ministero acquistava molti vantaggi, poichè molti morivano sul campo, mentre che la maggior parte dei feriti, sopravvissuti sino al posto di medicazione reggimentale si conservavano almeno sino alla prossima sezione di sanità, dove potevano avere ogni assistenza spirituale. Inoltre la presenza del sacerdote sull’estremo campo di battaglia era un fattore morale d’eccezionale valore per i nostri combattenti; era tale consolazione per loro, che di essa, non si potevano privare se non per altri non meno impellenti motivi.

Fra gli arditi, che nulla stimavano meglio del coraggio e nulla più disprezzavano della codardia, era una vera necessità morale portarsi con le prime ondate d’assalto, con le pattuglie stesse di punta, dovunque v’era un pericolo maggiore di morte. Tornava dolce assai sentire, talvolta, qualche fiamma nera mormorare al cappellano: «Padre, ora stia indietro; non si arrischi con la nostra pattuglia; perchè il pericolo è troppo grave.» E non meno dolce era potergli rispondere: «Figliuolo, ci sei tu e quindi ci posso stare anch’io in questo pericolo; la mia vita non è più preziosa della tua. Ma Iddio ci scamperà tutti.» Questa risposta era la chiave di quei cuori: con essa noi potevamo entrarvi ed esserne i padroni assoluti.

Tutto, adunque, porta il sacerdote in mezzo ai suoi soldati, nel furore della mischia. Però egli non è un combattente, e non può mostrarsi tale che a scapito sommo del suo ministero. Sua unica arma è la piccola Croce, che porge al bacio dei morenti.

il campo di battaglia diventa un carnaio orribile, un inferno risonante di altissime grida di disperazione e d’invocazione: gli urli, le bestemmie e le preghiere /45/ sono più laceranti degli schianti fragorosi. Gli scoppi che frantumano i sassi, fondono reticolati e tutto tritano, diluviando sulla carne umana la sfregiano, la maciullano selvaggiamente. I colpiti sono stesi a terra nelle pose più strane, come li ha abbandonati il colpo feritore: alle volte con le membra seppellite nel terriccio e nelle schegge taglienti, alle volte carbonizzati dalla vampa di scoppio e coperti di cenere. Chi è rimasto irrigidito sul colpo; chi non da più segni di vita, nè pare morto; chi giace prono a terra mormorando l’ultime impercettibili parole. Qualche forsennato, cogli occhi fuori dell’orbita e la schiuma alla bocca, mi fa cenni disperati, e mi lancia grida che paiono insulti.

Altri colpi piombano a rimescolar quel caos di strage, a crivellar orrendamente quella carne già morta o morente.

«Cappellano, cappellano, mi salvi. Aiuto, aiuto!» risuona da tutte le parti; ma l’invocazione più comune è questa: «Mamma, mamma!»

Chi potrà, allora, su quel campo selvaggio, tener le veci della madre, se non il sacerdote che dal Cristo ha imparato ad amare nella fortezza e nella delicatezza materna?

Io corro da un agonizzante all’altro; porgo al bacio supremo l’effigie del Re dei martiri; amministro con la formola brevissima l’Estrema Unzione; mormoro parole di consolazione; suggerisco le più ferventi orazioni giaculatorie, fasciando, tappando zampilli di sangue, sollecitando e aiutando i trasporti.

Se è vero che la disperazione spreme bestemmie da qualche incosciente e delirante, non mancano però le /46/ grandi testimonianze della pazienza cristiana e dell’eroismo religioso.

— «Mi lasci, mi lasci; io reggo ancora. Porti via questo poveretto, che sta peggio assai di me — dice un giovane con una coscia squarciata, al quale io sono accorso, giudicandolo in condizione pessima; ma la sua carità è più forte dello spasimo, che pure deve bruciargli acutamente la ferita.

— «Cappellano, i miei soldati, i miei soldati... salvameli! — mi urla un tenentino, dal petto fiaccato, e dalla bocca piena di sangue.

— «Dia anche a me l’olio santo, che almeno possa morire da cristiano —, mi sussurra un caporale, reggendosi con le mani i visceri filanti sangue e cadenti dal ventre aperto.

— «Preghi per me! — mormora e rantola flebilmente un omettino, che l’emorragia copiosa da una spalla maciullata ha già reso pallido cadaverico: — Preghi per me che non posso più pregare. —

Molti urlano: «Cappellano, reverendo, signor tenente, non mi abbandoni: Lei almeno mi resti vicino.»

Quel bersagliere mi è impresso nella memoria, come l’avessi ancora davanti agli occhi, là, tra le bianche pietre del Carso: se fossi artista potrei scolpirlo e dipingerlo. Era uno di quei mattini grigi di novembre che sembrano fatti appositamente per il giorno dei morti. Il cielo di piombo pesava uniformemente sul melanconico orizzonte carsico. Le piccole colline, nudate e torturate dalla lunga e lenta ala della guerra, potevano assomigliarsi a tozze e smussate piramidi dominanti le dune d’un immenso deserto.

Ci avevano lanciati per la terza volta contro un inespugnabile ridottino irto di reticolati; ma anche la tre volte temeraria audacia dei più forti era fallita dinanzi ai ventagli delle mitragliatrici. E in qual modo! il terreno all’intorno è tutto pozze di sangue: cadaveri e feriti si aggrovigliano in atroci amplessi sui reticolati e fra i sassi: urla, invocazioni e gemiti e rantoli si odono da ogni parte.

Un bersagliere dall’elmo piumato (mai un bersagliere rinunzia alle sue penne) era steso supino sul suolo, e si guardava i tronconi delle braccia e delle gambe, che gli erano state orribilmente stritolate. Appena m’avvidi della tristissima condizione, corsi presso di lui, e, poichè continuava la gragnuola di sassi e di schegge lanciata dai prossimi scoppi, inginocchiato al suo fianco, mentre preparavo le fascie per arrestare l’emorragia dei miserabili arti, mi piegavo su di lui in atto di proteggerlo dai proiettili e gli suggerivo sante invocazioni che egli ripeteva prontamente.

Anche il suo tronco era aperto da cento ferite: intatto non gli rimaneva che il viso, un viso giovane ed abbronzato, che, fra le contrazioni di spasimo represse, aveva un sorriso forzatamente sereno, e queste parole di carità: «Salvi gli altri, tanto per me è inutile.» Io contemplavo con le lacrime quella carne flagellata e rassegnata, immagine viva del Cristo paziente! Egli, gettando all’intorno uno sguardo acutissimo, con un ac- /48/ cento secco e amoroso, che ancor oggi mi suona nell’anima, gridò ai compagni che si lamentavano: «Fratelli, non piangete, ridete, ridete; è per Dio, è per la patria che qui si muore.» Parole, così altamente eroiche, che si sarebbe tentati di crederle una pia allucinazione, se non fossero state udite da molte orecchie.

Lo trasportarono poi confusamente, cogli altri feriti, ai quali aveva ceduto la precedenza di cura, senza che io potessi conoscerne il nome e la sua fine.

Lo sgombero dei feriti dal campo era un’opera sempre difficile.

L’accanimento nemico spesso era tale, che impediva persino di soccorrere i feriti. Allora con ansia si attendeva la notte che pareva tardasse un’eternità: la notte sospirata dai feriti, che con alte grida pietosissime chiedevano soccorso. Noi eravamo tenuti inchiodati nella trincea dalle mitraglie crudelmente inflessibili.

Appena calate le tenebre, si strisciava fra i sassi, sino al luogo dove partiva il gemito: un abbraccio, uno sguardo alla ferita, e via, portando il caro peso fra i compagni nella trincea.

Difficoltà non minori intralciavano il trasporto dei feriti dalle trincee alla sezione di sanità, sia per mancanza di barelle o di portatori, sia perchè la strada da percorrere fosse fortemente battuta dal nemico; sia perché il ferito stesso non desse speranza di reggere al viaggio dell’incomodo camminamento.

/49/ Il fondo d’una dolina, un angolo morto della trincea venivano trasformati in deposito di feriti, prima stazione del lungo viaggio di ritorno da calvari tanto dolorosi. I feriti venivano adagiati in terra, l’uno presso dell’altro, soccorsi dalla gareggiante pietà dei compagni. Quanti s’addormentarono in quella giacitura, per non svegliarsi mai più! In un’azione durata più d’una settimana, dopo un giro notturno per la linea, tornai a rivedere gli otto feriti che avevo lasciati un’oretta innanzi in un ridottino remoto: nessuno più rispose alla mia chiamata: parevano addormentati, nelle coperte che i compagni avevano loro steso per rendere meno duro il letto di sassi e meno fredda la notte: erano tutti freddi cadaveri.

Parecchi feriti protrassero per lunghe ore l’agonia o dolorosa, o incosciente. Di alcuni si sarebbe potuto ritenere che fossero ormai morti, se alla loro bocca semiaperta non fosse tornato con lento ritmo, un leggero rantolo. Il medico non aveva più nulla a fare: il caso era disperato; il morente non dava segno di sofferenze. I compagni stessi, che l’avevano adagiato nell’angolo più tranquillo non potevano portargli alcun sollievo. Unico rimedio era la preghiera sommessa del sacerdote, che, benché non intesa dall’immobile moribondo, ne scortava l’anima verso la pace di Dio.

Da quanto, con la maggior sincerità e semplicità, abbiamo riportato si può dedurre che parecchi feriti /50/ ebbero il pronto ed efficace soccorso dall’opera del cappellano militare; molte vite furono salve pel suo immediato soccorso. Ma quel che più ci rende santamente orgogliosi in Cristo è la certezza che l’ascensione celeste di tante anime, direi tinte di sangue, ebbe la spinta dalle nostre povere mani.

Non certo meriti personali ci hanno ottenuto un tanto favore; la bontà divina si compiacque di scegliere miserabili strumenti per compiere l’opera meravigliosa della redenzione di molte anime.