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Capitolo VII.

«State allegri figliuoli.»
(San Filippo Neri)

Al soldato era indispensabile quell’allegria che è solita fiorire nel cuore del buon popolo italiano. Ma chi poteva spezzare la monotona tristezza della vita di guerra, e farvi sprizzare il raggio di luce giocondo che allieta, ricrea e conforta? La religione ha sparso su queste rovine i suoi fiori più belli ed esilaranti.

Le feste celebrate al campo ebbero la nota più simpatica dalla celebrazione dei riti religiosi. Nemmeno durante la quindicina di riposo, la truppa poteva godersi la spensieratezza facile delle sagre campagnole; i ricordi dei passati combattimenti erano vivi per le memorie dei compagni perduti e per le sofferenze patite; e poi si presentiva sempre il prossimo ritorno a nuovi lutti e a nuovi tormenti. I panni dei fanti non lasciarono mai l’odore del sangue e dei guazzi della trincea.

Nè le cerimonie ufficiali, benché preparate spesso con largo sfarzo e sbandieramenti, potevano arrecare al soldato quella gioia intima che ci balza in cuore all’alba delle feste famigliari. Le bandiere, gli squilli /65/ di tromba, le parate, i discorsi che davano colori e suoni di festa al vento, lasciavano scettici o freddi gli animi. Invece, una cerimonia religiosa, pura e semplice come quella delle sagre montanare, fiorita di ricordi per l’ingenuo figlio dei campi fatto soldato, apriva le vie della consolazione e della gioia intima.

Gli infelici trinceristi avevano tanto bisogno di questi sollievi, di queste albe rosate che rompessero la tristezza del tonante ritmo delle battaglie e promettessero un sole come quello dei giorni festivi trascorsi nei lontani paeselli della penisola!

Il Sommo Pontefice Benedetto XV cercò di ottenere, fin dal primo Natale di guerra, che almeno per quella giornata ambedue le parti sospendessero le ostilità: ne si può immaginare con quali gridi di gioia sarebbe stata accolta nelle trincee la notizia dell’effettuazione della proposta papale. Invece, i capi delle nazioni belliche respinsero, con ostinazione gretta e inumana, i ripetuti conati del Padre comune dei fedeli!

Ma se in luogo delle melodie pastorali del Natale, e dei concenti di risurrezione della Pasqua, i bronzi non ci davano che rombi, tuoni e schianti, noi celebravamo quelle feste coll’intimità del cuore, nei raggi luminosi diffusi dagli altari castrensi. Le nostre feste, nel pericolo senza tregua, fra le tombe e i cannoni, se non venivano condite dalla dolcezza e dalla speranza ultra-terrena, potevano facilmente sembrare amare ironie, audaci provocazioni.

Attorno ai nostri altari abbiamo ritrovate canzoni più possenti della voce del cannone; abbiamo celebrate quelle solennità a cui oggi ancora torna il nostro pensiero con lacrime di accorata nostalgia.

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Una delle più belle giornate del mio reggimento fu il 12 agosto del 1916, quando nel ridente paese di Crauglio, ai piedi del Carso, gli fu benedetta e consegnata la nuova bandiera.

La sera dell’8 giugno il 55°  reggimento fanteria “Marche” fu imbarcato a Valona sul piroscafo Principe Umberto diretto a Brindisi quando fu silurato dal un sommergibile austriaco. Nel naufragio perirono quasi 1700 soldati e l’intero comando. Il vecchio vessillo del 55° fanteria era stato seppellito nei gorghi dell’Adriatico, con buona parte dei battaglioni che tornavano dall’Albania. Ma, in meno d’un mese, l’intero reggimento era stato rinnovato e aveva già preso parte alla battaglia di Gorizia, quando nel breve riposo si preparò alla grande cerimonia.

Nel campo aperto, coronato di gelsi, e tappezzato di verde, i soldati avevano eretto un gran palco con l’altare. Una croce d’argento con lo stendardo portante l’effigie della Vergine, dominava tutto il campo, fra due giovani platani scintillanti di rugiada nel cielo mattinale.

La funzione assunse una solennità impareggiabile: tutto il reggimento, cogli elmetti grigi e le baionette rilucenti, formava il quadrato romano; la banda gettava nell’aria ondate giulive e sonore; il cannone tuonava in lontananza.

Prima della messa il Colonnello Vittorio Sforza, nobiluomo di sangue e più di carattere, con voce tonante e commossa, rivolse le seguenti parole:

«Ufficiali, Sott’ufficiali, Caporali, Soldati del 55° Reggimento Fanteria!

«La funzione che stiamo per compiere, qui sotto la voce del cannone, è di per sè tanto solenne che niuna cosa potrebbe renderla più manifestamente grandiosa, nè più commovente di quanto i nostri cuori già la sentano.

/67/ «Il 55° Reggimento Fanteria non perdette la sua bandiera! L’insidia nemica inabissò in massa i nostri eroici fratelli nelle profondità dell’Adriatico; la bandiera del Reggimento li accompagnò nell’immane sepolcro per coprirli degnamente col suo drappo tricolore e collo scudo di Savoia!

«O Fratelli gloriosi! voi sempre vivete nei nostri cuori; noi vi sentiamo qui presenti in ispirito. Siete voi che, ingigantiti dallo stesso vostro pietoso ed eroico sacrifizio, emergete ora per un istante dai flutti e ci porgete in restituzione la bandiera del reggimento ingiungendoci di glorificarla maggiormente, di difenderla sino alla morte!

«Noi che già spontaneamente raccogliemmo questo impegno, paleseremo oggi con giuramento solenne la santa promessa che da lungo tempo è racchiusa nei nostri cuori.

«Invochiamo intanto da Dio la pace spirituale pei nostri fratelli, come invocheremo la Sua santa benedizione sulla nostra bandiera.»

Il Sacerdote celebrò la santa messa; poi, rivolto alle truppe, così disse:

«Ufficiali e soldati!

«Giustamente avete portato la bandiera dinnanzi a questo altare che avete elevato di fronte al secolare nemico, affinchè sovra essa si levino le mani sacerdotali ad implorare la benedizione di Dio. Tutto ciò che vien toccato dalla Religione, tutto viene da Lei elevato e trasfigurato. La Beatrice di Dante, dappoiché gli comparve nel cielo, fra nuvoli d’angioli, Dante, Purgatorio XXX vv. 31-33 «sovra candido vel... sotto verde manto, vestita di color di /68/ fiamma viva,» non è più umana creatura, ma un essere celeste, un ideale tutto divino, cui la vasta mente e il gran cuore del sommo italiano attinge luce soprannaturale e forza sovrumana.

«Soldati! Levate lo sguardo ardente alla bandiera vostra, e sotto i raggi della celeste benedizione la vedrete trasfigurarsi, come la divina Beatrice, vestita di bianco, di rosso e di verde, nel simbolo di superne virtù: di fede, di speranza e d’amore.

«Di fede ci parla il bianco che, splendendo col suo nitore immacolato nel centro del Nostro Vessillo, ci dice qual parte debba avere nel sacro ministero delle armi, quella religione che rese inespugnabili i padri nostri nelle ciclopiche lotte contro i goti e gli ostrogoti di tutti i tempi, quella religione che la madre nostra ci ha istillato nel cuore, quando additando al nostro sguardo infantile le stelle scintillanti del cielo italiano e i fiori della nostra edennica terra, ci parlava del Dio che a noi fu largo di tante preferenze.

«Signori ufficiali! la fede non è solo il pane delle anime rozze dei vostri soldati: anche agli intelligenti, ai colti essa è maestra: e ve lo dicono Dante e Manzoni, Andrea Doria e Marcantonio Colonna, anime altere piene di Dio, di luce e d’energia.

«Lo scudo degli invitti Sabaudi che sta nel bel mezzo della Bandiera vi esalta alla virtù di quella eroica stirpe che, sopra tutte le dinastie europee, sola ha il vanto di non aver dato all’Italia nessun tiranno, ma di averle invece generato molti eroi e parecchi santi.

«Il verde, il giocondo simbolo della speranza! È inutile che la mia debole parola vi parli di speranza, proprio mentre voi sentite la voce rombante del can- /69/ none che sfonda la lunga resistenza nemica, non più collo stridore dello sforzo inefficace, ma come un possente grido di vittoria. Sì, sperate, o prodi soldati: poichè è bello sperare quando sulla corona della gran madre Italia vengono a deporsi delle gemme così preziose come la fulgida Gorizia! Sperate, poichè la vittoria finale è di chi nel martirio degli anni non lasciò languire lo spirito! Sperate nel Dio della giustizia, nel Dio della forza; e il vostro braccio non verrà mai meno e il vostro petto sarà temprato: le vostre schiere saran protette dalla bandiera che il Signore ha benedetto come da una corazza infrangibile.

«Il rosso vivo di sangue e di fuoco che compie il tricolore, vi parla d’amore. È l’amore che bisogna invocare, anche in guerra; non l’odio. L’odio è figlio e padre di barbarie: l’amore invece sorge dalla civiltà e genera il bene; l’odio è maledetto da Dio, l’amore invece Dio lo benedice.

«Un giorno la porpora rivestiva gli imperatori della nostra Roma: oggi è la madre patria che si è imporporata tutta, dalle vette delle Alpi conquistate sino ai mari suoi, col sangue dei suoi figli, dei vostri fratelli, o prodi soldati del mio 55° Fanteria! Sangue che vi dice l’affetto ardente con cui si è amata e si ama la più bella delle patrie! Amate l’Italia, e coll’Italia, amate il suo cielo tersissimo, le sue marine profumate, i suoi colli in fiore, le sue verdi pianure, rigate dall’argento dei suoi fiumi sonori! Amate le vostre cento città; le vostre case, le madri, le spose, i figli, i fratelli: amate le tradizioni di fede, di arte, di scienza del popolo nostro, e l’amore vi renderà dolci e desiderabili tutti i sacrifizi, e vi farà eroi per vendicare /70/ santamente le grandezze che il nemico ha disprezzato.

«Soldati! Mi brucia lo zelo del papa Giulio II, dell’immortale mio Savonarola, di Eugenio di Savoia, e con loro grido: Fuori i barbari! E mentre il nemico volge in rotta precipitosa, io col grido dei padri dell’antica Roma, invoco l’aquila trionfale rinnovellata nel vessillo tricolore: «Signifer, statue signum, hic manebimus optime: Vessillifero, innasta qua la bandiera, questo sarà nostro dominio».

«Date al vento la nostra bandiera! Sventoli benedetta dal Dio degli eserciti ad intimorire il volo delle grifagni aquile imperiali, come nelle giornate di Legnano e di Lepanto. Portiamola avanti nell’onda delle sfolgoranti baionette, tra’ nuvoli fragorosi del piombo vincitore. Sui colli del Carso, battezzati nel sangue profumato dei nostri eroi, incalzeremo la fuga del nemico col suo splendore; l’alzeremo sulle torri di Trieste, in riva al nostro sacro mare; di dove sorgerà, non più sudario di pace pei morti del 55° affondato, ma nostro stendardo trionfale, nel poema di gloria che Dio serba ai destini d’Italia».

Dinnanzi a tutte le armi alzate, pronunciai la formola rituale, chiedendo la benedizione divina sulla nuova bandiera per l’intercessione della Vergine e di tutti i Santi dell’Italia nostra.

Il sacerdote, che passava in mezzo a quella gioventù appassita nelle tribolazioni, si sentiva pungere dallo stimolo di rendere meno duro il tormento, con tutte quel- /71/ le arti che l’amore suggerisce per attenuare l’altrui sofferenze. Bisognava sforzarsi di spargere letizia: onde si insegnavano canzoni, si inventavano divertimenti per distrarre quelle anime infantili. A quali risorse non si dovette ricorrere per spremere anche un solo sorriso dalla faccia corrugata dei nostri cari soldati!

Anime gentili e generose hanno inviato ai cappellani del fronte, i grammofoni, che divennero il migliore passatempo. La grande e dolce maestra, la musica, è sempre la preferita del popolo italiano. I melodici inni e le classiche composizioni, le canzonette di Piedigrotta e gli stornelli romani, tornarono così sul labbro dei miei soldati e ne fecero fremere i cuori con alta ed educatrice nostalgia.

E divertimmo anche, con bello scherzo, i nostri amici austriaci.

In un plenilunio di Settembre, quando, sulla mezzanotte, la tromba del grammofono, rivolta dalla trincea verso il nemico, cantava il «Va fuori d’Italia, va fuori, stranier...» le vedette più lontane e i soldati univano la propria voce a quella dello strumento e si fondevano in un coro meraviglioso e possente che pareva salire alle stelle scintillanti. Il nemico vicino, cui il vento impetuoso portava la voce e l’amore dei nostri, non rispose, contro ogni solito, neppure con una fucilata: taceva, io credo, ammirato della melodia del cielo italiano, e sopratutto del fegato della nostra ilarità.

Abbiamo pure preparato il teatro, il teatro dei burattini, s’intende. I giornali hanno parlato delle grandiose rappresentazioni che i migliori artisti della nazione offrirono ai nostri combattenti nelle retrovie. Ma il fante ha voluto godersi il lusso del teatro anche in trin- /72/ cea. La stessa prima linea fu trasformata in un elegante teatro con tutti i suoi bravi attori, cavati, più gloriosamente di Pinocchio, colla baionetta di un fante dal manico di una La bomba a mano Excelsior-Thévenot P2, conosciuta con il soprannome “Ballerina”, era costituita da un corpo esplosivo, che veniva innescato da un percussore ad urto, un manico e in legno e un governale in stoffa bomba excelsior, e vestiti con non so quali vecchi stracci del corredo militare. Tolgo da una pagina del mio diario: «Stasera mi aspettano al posto avanzato n. 5; vi sarà rappresentazione. Passo da tutte le vedette, poi penetro nell’antro ove una ventina di giovani (tutti miei amici) mi attendono. Incomincia la rappresentazione. È un dramma o una commedia? nessuno lo sa: i burattini che parlano con la voce del soldatino che sta di sotto al telone, raccontano le loro avventure liete e tristi, ricordi dolci di famiglia... Quando cala il sipario, vien fuori il capo comico: un buon soldato meridionale che nel suo dialetto stranamente italianizzato ci racconta le proprie avventure militari, dal suo paese a Salonicco, all’assalto, all’ospedale, al corso mitraglieri... e la licenza invernale che aspetta da quasi 18 mesi: insomma, un miscuglio lieto e triste come la vita dei suoi burattini. Parlava seriamente, ma tutti ridevano ed egli pareva lieto dell’allegria dei suoi compagni. Quel dolore canzonato e rassegnato commuove: gli dico qualche parola che egli accoglie stringendomi la mano forte sul suo labbro. Verso l’una io ritorno: qualche colpo d’artiglieria, qualche fucilata... Rientrando nella linea, le vedette veglianti mi danno il «Chi va là» e il buon caporalino toscano che mi accompagna, si ferma e mi dice: «Eppure è bello ancora fare il soldato ed essere in guerra».

Altro divertimento assai gradito sono le gare a premio che normalmente io soglio indire per turno presso i diversi reparti nei giorni in cui celebro la santa messa. /73/ Questo giorno e sempre una festa. La trincea stessa, campo di sofferenze inenarrabili, si cambia nel campo del divertimento.

Le corse a piede libero, le corse nei sacchi, destano un mondo di allegria tra quella balda gioventù e fanno pure sorridere il viso corrugato dei maturi padri di famiglia. Riderebbero anche le pietre davanti ai ruzzoloni o alle gare ridicole di quei poveretti impigliati nel sacco. Ma non importa, una buona bottiglia di marsala, alcuni sigari, qualche liretta di premio li rimetteranno del danno e dell’onta subita.

Non meno divertente è la gara per staccare coi denti una moneta affissa nella parte esterna di una padella sospesa ad un semplice filo. Il povero disgraziato deve sudare assai in mezzo alle beffe ed ai cachinni dei compagni che gli fanno ressa attorno e ne seguono collo sguardo, coi cenni e colia voce tutti i movimenti con immensa soddisfazione. Finalmente il poveretto è riuscito ad addentare la moneta d’argento, che è passata nelle sue mani in mezzo agli applausi dei compagni: ma a quale prezzo! la fronte, il naso, il mento son diventati neri come il fondo della padella. Non importa: è anche un bel giuoco far ridere i compagni: del resto con un po’ d’acqua si ritorna belli e freschi e due lire in tasca al fante rappresentano un capitale non disprezzabile.

Così, anche sui campi di battaglia il sacerdote passò dolce e attraente ripetendo a quei buoni ragazzi l’ammonimento del grande apostolo della gioventù, S. Filippo Neri: «State allegri figliuoli».