Un tozzo di pane che...
mi ha fatto guardare le stelle

Sono alcuni fogli ingialliti dal tempo, chiazzati, qua e là, da macchie d’unto e con i bordi rosicchiati dal frequente tormento delle dita curiose; é il mio diario di quattordici interminabili mesi di pene, sofferenze e speranze, trascorsi dopo l’otto settembre 1943, fra le squallide montagne greche. Ogni data, ogni nome, ogni luogo ed ogni frase, sanno popolare la mia mente d’immagini, sanno riempire il mio cuore di ricordi vivi e penosi.

Il cielo stellato di quella notte d’agosto,suddiviso in eguali rettangoli dalle sbarre della finestra, rendeva più penosamente vivo il mio disperato desiderio di libertà.

Da un mese circa ero rinchiuso nella prigione di Arta, prigione improvvisata: erano quattro stanzoni, forse una volta adibiti a scuola, ma pur sempre prigione.

Né i miei falsi documenti, né i miei giuramenti erano valsi a convincere il Comando tedesco che io fossi un pacifico cittadino greco, venuto da Prevesa in cerca di lavoro; una precisa denuncia doveva invece averli persuasi che io ero un italiano sfuggito alla cattura dell’otto settembre.

Quella notte, la stanchezza non era riuscita a sottrarmi, col sonno, al tormento degli insetti che con me dividevano quel pezzo di pavimento, assegnatomi quale giaciglio; spietata mi bruciava sulla guancia la frustata che un guardiano m’aveva inflitto per allinearmi, all’ora del rancio serale.

Lassù nel cielo palpitavano, vive, le stelle ed io le seguivo, quasi ad una ad una, nel loro lento, angosciosamente lento movimento verso occidente; avrei voluto a loro affidare il mio sconforto e la mia pena, la mia nostalgia di quelle altre notti insonni che avevo trascorso perdendo in loro il mio sguardo, giurando amore alla mia ragazza e sognando atti d’eroismo e medaglie al valore; ma il fastidio delle cimici, il dolore alla guancia e l’odore acre del sudiciume mi richiamavano alla triste realtà.

Sollevai il capo dal barattolo di conserva che di giorno mi serviva da gavetta e la notte da guanciale: la latta, livellandosi di colpo, fece un sordo rumore come di schiocco della lingua contro il palato; il mio vicino, sospirando nel sonno, si rigirò su di un fianco,costringendomi,ancor più,contro la parete; il passo della sentinella s’arrestò all’improvviso,fra lo scricchiolio d’una scarpa ed il picchiare metallico del tacco ferrato dell’altra, sul marciapiede; poi, tutto tornò normale.

Le stelle s’allontanavano nel cielo impallidendo; le speranze svanivano con loro.

M’ero appena assopito che il richiamo d’un fischietto e la voce secca d’un carceriere, mista di greco e tedesco ci fece affrettare verso il cortile interno donde, ogni mattina, ci prelevavano a gruppi per i più disparati lavori, ora in un magazzino, ora in una scuderia, ora in una latrina, ora in una trincea.

Ormai, con indifferenza, gli indigeni ci vedevano sfilare a due a due per le vie del paese, col barattolo legato alla cintura, coi piedi avvolti in stracci e brandelli di mollettiere: il nostro viso segnato dalle sofferenze e dalla fame, faceva, per essi, ormai parte del desolato spettacolo delle case mutilate dalla guerra.

A volte qualche cane in cerca di padrone, ci seguiva annusando i nostri sudici brandelli di vestiti, indovinando in noi dei compagni alla loro miseria.

Ogni giorno speravo che il destino fosse benigno con me, assegnandomi ad una cucina per lavare le marmitte del rancio: sul fondo dei recipienti restava, quasi sempre, qualche avanzo che, raccolto avidamente con la mano, mitigava i crampi dello stomaco ribelle all’abitudine del digiuno.

Quel giorno, come tante altre volte, la speranza fu delusa: prima di sera avrei dovuto scavare un paio di latrine e colmarne di terra altrettante; ma nemmeno la terra mi era benigna: da mesi il sole cocente aveva, giorno dopo giorno, indurito quel suolo arido ed argilloso. Il piccone si rifiutava di piantarsi e di sgretolare quella crosta compatta e dura di terra e creta. La polvere mi tormentava la gola riarsa e la pelle si rifiutava di spremere sudore dai pori ricoperti di sudicio.

“Schnell, scheisse italienisch”, era l’incitamento del tedesco che controllava il mio lavoro, dondolando le gambe che spenzolavano dal muricciolo sul quale s’era appollaiato.

Traeva pigre boccate di fumo grigio e morbido dal suo quadrato sigaro di spettanza e schizzava sputi fra i denti, cercando di centrare una tegola intatta, che, poco più in là, faceva capolino fra i calcinacci. Quella tegola pareva volesse ricordare come, forse, qualche anno addietro, in quello stesso, oramai squallido, angolo, uno sguardo di madre, con ben altra espressione, aveva seguito i giochi di un bimbo.

Come Dio volle giunse l’ora di rientrare in prigione.

“Komme” urlò il caporale tedesco, indicandomi col frustino il gruppo dei miei compagni già allineati sulla strada.

Pulendomi il naso sulla manica della blusa, mi accodai pigramente.

Il mio sguardo che, per innata vergogna, solo la notte osava rivolgersi al cielo, s’incuriosì di un laccio che un piede mal avvolto del compagno che mi camminava dinanzi si trascinava, con movimento ritmico, fra la polvere della strada: a volte formava una “S”, a volte una “C”.

Prima m’interessò vedere se avrebbe formato altre lettere o segni comprensibili, poi mi accorsi che a pochi centimetri dal laccio, ma leggermente sfalsato nel tempo, si posava il piede del vicino: “ecco, se il movimento si sincronizza, fra qualche passo, glielo pesta...” pensavo; invece un sasso, contro il quale frustò il laccio, scombinò tutti i miei calcoli; “ecco! la stringa ha ripreso a disegnare ora una S, ora una C; penso che fra quattro o cinque passi, il compagno che gli cammina a fianco, gliela pesterà.”

Era apatico sadismo il mio; forse avrei riso se ancora la mia bocca avesse ricordata la piega del riso; il tedesco che stava camminando quasi alla testa del gruppo, probabilmente m’avrebbe frustato; la cosa quindi non avrebbe potuto che volgere a mio svantaggio; eppure, quasi con l’ansia dello scienziato che attende da anni il verificarsi d’un fenomeno, aspettavo che quella fettuccia finisse sotto il piede del vicino: “S... C... S... C”.

Stavo camminando ad un passo dal muro. S’aprivano,in quel punto, sulla strada, le finestre d’un piano rialzato: una voce femminile, con sommessa dolcezza, quasi supplichevole, ripeté da uno spiraglio di persiana socchiusasi verso di me : “pedàchimu... pedàchimu!”; Non so ancora bene se voglia dire “figliuolo” o “bambino mio”, ma il significato di quella parola, allora, l’ho letto negli occhi velati di pianto di quella donna, nella sua mano che, quasi timidamente si protendeva verso di me con un pezzo di pane.

Il significato l’ho letto su quel viso che in un istante mi disse tutta la sua pena ed il suo amore di madre e di sposa.

Nessuno s’accorse di quella fetta di pane che feci scivolare fra la pelle e la blusa e che strinsi al cuore.

Nessuno s’accorse che io, quel giorno, prima di rientrare in prigione, avevo rivolto il mio sguardo al cielo, cercandovi le stelle.

Adriano Fogliasso

Scritto nel 1943
Pubblicato su “Il testimone” nel settembre 2007