“Io vivo di fiori”
Ape
Confidenze di un’ape operaia

Gli aborigeni... no, diciamo più semplicemente, coloro che, da qualche generazione vivono in un paese come il nostro, non indicano con numero civico e nome della Via, una cascina, un piccolo gruppo di case fuori dal centro urbano, ma lo identificano, con effetto quasi fototopeico con il termine di “Tetto”, seguito dal nome della famiglia che vi è nata ed ha dato vita alla piccola comunità, che magari ora non vi abita neppure più.

A Pino Torinese, questa consuetudine resiste ed anche le nuove generazioni sanno che ci sono Tetti Miglioretti, Tetti Pietra del Gallo, Tetti Galliera, Tetti Menzio ma forse non hanno mai sentito dire “vado a Tetti Regno”; è un piccolo gruppo di case a cavallo della SS 10, vicino all’Aston Hotel, dopo la galleria verso Torino.

L’avventura che sto per raccontarvi parte proprio da Tetti Regno ma devo accennare ancora ad un’altra curiosità che caratterizza le nostre alture: a Torino la piccola sommità su cui sorge la chiesa di Santa Maria del Monte, il Convento dei frati ed il Museo della Montagna, tutti la conoscono come “Il Monte dei Cappuccini”, mentre i cocuzzoli delle nostre colline vengono normalmente chiamati “Brich”.

Da noi a Pino la topologia dei “Brich” è particolarmente ricca: quasi tutti conoscono Brich Palouch, un po’ meno Brich del Duca, Brich dell’Abate, Brich Brumassa, pochi il Brich dla Gèira la mia meta dove scoprirò alcuni segreti della vita delle api.

Qui a Pino di amici ne ho più d’uno, anzi ho la fortuna di averne proprio tanti ed uno di questi abita proprio a Tetti Regno: l’ho conosciuto tanti anni fa, quando aveva da poco smesso i pantaloni corti, era un brillante perito elettronico che tra l’altro, come me s’interessava di telefonia.

Oggi è invece un inguaribile amante della natura in toto; tanti lo conosceranno, è Silvano che al trattore affianca il cavallo, sega spacca ed accatasta legna da ardere, coltiva frutta e verdura ma prevalentemente produce miele — ben inteso, il miele lo producono le sue api - e, con l’aiuto di Daniele, il figlio più giovane, ne cura la filiera con scrupolose, quasi maniacali attenzioni.

Ai primi di novembre Silvano con sua moglie o forse, più onestamente dobbiamo dire Luciana e suo marito l’ apicoltore, a Tetti Regno mi hanno intrappolato con un invito a pranzo, invito che camuffava la perfetta organizzazione dei festeggiamenti per i miei 91 anni, riunendo, in tutto segreto un bel numero di vecchi amici.

Un pranzo elegante e raffinatissimo con inconsueti manicaretti, brindisi e regali, oltre alla degustazione di una produzione strettamente familiare, di spremuta di uve mescolando Barbera di Neive con Bonarda e Freisa di Pino, bevanda che ha reso più ingarbugliate le spiegazioni di Silvano sull’allevamento delle api .

Dopo un’ottima grappa al miele mi sono sottratto al tepore del caminetto ed ho cercato l’aria fresca della collina per tentare di snebbiarmi un poco la mente.

Il Brich delle Ghiaie è proprio lì davanti a me, misura 531 m. e stavo per intraprendere la salita quando mi si affianca un piccolo sciame di api; il loro brusio diventa una domanda che non aspetta risposta:

“... ma chi è questo incosciente che si avvicina a casa nostra senza nemmeno guanti e maschera di protezione?...”

Mi fermo, tra l’impaurito ed il curioso, mentre quella nuvoletta riprende la sua marcia, rallentata dal fardello di nettare appena raccolto...

Ma?!... Un’ape si è fermata, si avvicina di più a me e chiede:

“... posso appoggiarmi sulla tua spalla? Riposo un momento e, magari, facciamo due chiacchiere...” Senza aspettare risposta, è già accoccolata lì, vicino al mio orecchio:

“... sai, io sono un’operaia, un’ape operaia che a volte non dà retta a tutte quelle altre, sempre in gruppo e sindacalizzate al punto che un giorno o l’altro daranno persino retta ai fuchi!”.

Scorge il mio sguardo imbarazzato ed allora riprende il discorso parlando del tempo, come facciamo noi per rompere il ghiaccio con il nuovo arrivato:

“Nonostante stiano scorrendo già i primi giorni di novembre, il sole si è scordato di regolare il proprio termostato riducendo l’intensità di calore dei propri raggi ed i fiori d’acacia siano un ricordo, ho trovato ancora qualche buon nettare da mettere in dispensa”.

Il ghiaccio sarà stato rotto ma è tale il mio sconcerto che, prima di capire che comunicavamo telepaticamente, ero convinto che tutto si sarebbe limitato ad un soliloquio, mentre invece con quello spregiudicato insetto che si era posato sulla mia spalla ne nacque un vero domanda e risposta.

“Vorrei dirti il mio nome — riprende — ma confesso l’imbarazzo: il nome lo cambio ogni volta che i fiori si chiudono per il loro riposo annuale, oggi mi chiamo “acacia”, domani “castagno o rododendro”... Scusa, ora metto le varie fioriture in ordine di tempo, così potrai orientarti con i nomi dei mieli che, con l’aiuto di Silvano, mandiamo sul mercato.

Partiamo dal ciliegio d’inizio primavera — si tratta di un miele molto difficile da fare perché ci sono ancora le ultime piogge che danneggiano i fiori — fra la fine del periodo del ciliegio e l’inizio dell’acacia, per una settimana/quindici giorni c’è il millefiori — è il periodo in cui raccogliamo vari nettari dal ciliegio all’acacia più tutti i fiori di campo che cominciano a sbocciare, e poi, finalmente la piena fioritura dell’acacia, che ci attira con il suo gusto dolcissimo... Che buono!... Peccato che duri al massimo venti giorni.”

E dopo?... Penso.

“... finita l’acacia il nostro miele torna ad essere un millefiori, il secondo, un pochino più scuro poiché subentrano anche i fiori di prato — fra questi c’è anche il tarassaco, ‘ij girassoi’ — a proposito, se ci troviamo in un campo coltivato solo con questa pianta, può venirne fuori il miele di tarassaco che ha però odore e gusto di medicinale ed è di rapida cristallizzazione”.

Strabiliante la meticolosità di questo piccolo insetto!

“Ma è come per voi saper distinguere una rapa da un pomodoro! Tornando al nostro raccolto di nettare: a questo secondo millefiori contribuisce anche il castagno ed a volte anche il tiglio, a meno che, traslocando baracca e burattini non ci portino a pascolare in un bosco di soli castagni, nel qual caso eccovi serviti con il pregiato miele di castagno; se libere di scegliere, la fioritura del tiglio ci attira di più perché è più dolce...”

Mi sembra di vederle le api che, dopo aver succhiato il polline del tiglio, si leccano i baffi e si strofinano le ali... ormai il lavoro è finito...

“... e no!“ Riprende l’ape operaia “C’è ancora la melata, di colore molto scuro, rossiccio, un miele molto energetico, che gli atleti cercano sempre; è composto anche dalla secrezione bavosa di una farfallina che si chiama Metcalfa — la secrezione è praticamente il miele che la farfalla deposita sui gambi di ortiche o di altre erbe che crescono lungo canali o scarpate — noi api, di questo miele, siamo golosissime...”

Mamma mia quante cose che non sapevo! Però sarei curioso di conoscere com’è l’organizzazione di tutto questo complesso lavoro.

“... devi sapere le cose essenziali del nostro organigramma: in cima alla piramide ci sta l’ape regina — molto più grossa di tutte noi: viene fecondata dai fuchi — unici maschi nell’alveare che non fanno altro! - giornalmente la regina depone fino a 2.000 uova che, dopo 3 giorni si trasformano in vermicelli bianchi e dopo 8, in ninfe o apicelle; le future operaie, dopo 21 giorni iniziano a volare istruite da altre api già esperte — le bottinatrici che, da operaie esperte, erano diventate prima esploratrici (compito: l’ avanscoperta, per identificare e segnalare i campi di raccolta e, con particolari figure nel volo, indicarne la distanza a cui si trovano, a volte anche a 3 Km.) e infine bottinatrici, istruttrici di tutta questa compagine...”

Cercavo di fare mentalmente il conto partendo da quelle 2.000 uova giornaliere ma ecco l’aiuto matematico di un’operaia che senz’altro è in possesso della laurea breve in calcolo infinitesimale...

“... dimenticavo, ogni giorno muoiono parecchie centinaia di api, ristabilendo l’equilibrio ottimale - ed a mo’ di conclusione tiene a specificare con la massima serenità - la nostra vita dura solo 40 giorni, durante i quali io vivo di fiori”.

Resto di sasso per le tante nozioni concentrate in così poche spiegazioni essenziali; questa eccezionale creatura mi ha trasmesso anche tante altre notizie che proverò ad elencare, così come mi tornano alla mente:

Forse ci sarebbero altri particolari ma questi nomi astrusi già vi avranno stancato quindi passo alla conclusione .

La nostra simpatica informatrice è volata verso l’ apiario nascosto fra la vegetazione del Brich dla Gèira.

Quella che mi era sembrata una lunga, surreale intervista in realtà è durata pochi minuti anzi, pensandoci bene, si è trattato di un istante, è stata una conversazione telepatica o semplicemente l’invenzione di una fantasia in libertà.

Una lunga striscia bianca sta tagliando l’azzurro del cielo, attraverso quella ferita gocciolerà lentamente la notte che vedrà tutte le api raccolte nei propri alveari.

Gli amici non si sono neppure accorti della mia assenza ed al mio rientro sollevano il calice per un brindisi finale: “Altri cento di questi giorni!...”

E pensare che un’ape operaia vive solo 40 giorni!

adriano fogliasso

Pino Torinese 26 novembre 2011