Vol 5. Missione scioana
I periodo
1868 - 1878

/7/

1.
Nello Scioa. Accoglienze e sdoganature.
Il Deftera Gulti e Ato Ualde Ghiorghis.

continuazione del viaggio
[5.3.1868]
Passato il giorno di riposo, che noi diremo di contrabando la nostra carovana si mise in cammino verso il villagio delle dogane. Io sperava di essere sortito dal paese degli Adal, ma tutto all’opposto, non si vedevano che cameli da tutte le parti; si camminava per un terreno leggiermente ondeggiante di piccole colline volcaniche, e fra boscaglie; occorreva ben soventi che la strada era molto stretta, e la nostra carovana trovava il passagio come chiuso dalla gran quantità di cameli che giravano, un piccolo dialogo con Mekev Signor Mekev, dissi io, ma non siamo noi sortiti dal paese Adal? noi siamo ancora in pieno paese Adal, rispose Mekev, e non sortiremo che questa sera, se pure voi [vi] farete coraggio, altrimenti saremo ancora obligati a pernottare fra queste boscaglie in questo deserto; Ma dimmi, [domandai io,] qui vi sono ancora dei pericoli? Per la carovana e sulla strada non vi è pericolo, rispose Mekev, ma un’amara solo se vi si allontana correrebbe [p. 246] gran pericolo, perché in questi paesi di contatto tra Adal e mussulmani, tra Adal e Cristiani per lo più la differenza religiosa [per lo più] è più causti[ca] e viva. Ma non è ancor questa la ragione principale; tanto gli Adal, quanto la casta mercante, ed in genere la stessa casta mussulmana favoriscono questa lotta di sangue tra i regnicoli ed i nomadi, per la conservazione della loro indipendenza tanto utile a loro, non solo per il contrabando, ma per il commercio dei schiavi, e per il furto dei medesimi. Lo stesso Re va molto adagio nel procedere per molte ragioni tutte gravissime. Gli Adal e la casta mercante vivono, è vero, del commercio col suo regno, ma è vero altresì che una grave rottura con quelle coste darebbe gran danno al paese e farebbe gridare il popolo. Oltre di ciò, i suoi soldati discendono mal volontieri nei paesi bassi, perché paesi di febbre micidiale per gli abitanti dei paesi alti non accostumati. Ma di ciò se ne parlerà più direttamente quando si parlerà della mia colonia.

/8/ un temuto incontro Erano circa le tre di sera, la nostra carovana era ferma prendendo un poco di riposo, quando ad un kilometro circa di lontananza vediamo [ad] avanzarsi un drapello di giovani armati, i quali venivano contro di noi. Il capo della carovana radunò subito i suoi pochi giovani armati; lo stesso Signor [p. 247] Mekev col suo fucile ed i suoi due servi si misero in fila, come aspettando il supposto nemico. sono i nostri Fermi e tranquilli, disse il Signor Mekev, secondo me non possono essere altri che la banda dei doganieri del Re Menilik, i quali ci vengono all’incontro con qualche parola d’ordine. saluti in lontananza Difatti fu così: [ci rivolsero un’espressione amarica, così tradotta:] (come state? siate i ben venuti) Corsero i nostri all’incontro; un abbraciarsi e riabbraciarsi, eccoli venire, eccoli arrivati. Sedettero anche essi all’umbra, ed avvicinatisi ai miei, ed in specie a me, fu un vero tripudio per tutti. Il Re, dissero, manda ogni giorno corrieri per saper notizie, egli è impaziente [di vedervi]. Si avvanza un giovane garbato, ci tocca la mano [e dice]: Sono due giorni che son fermo alla dogana; il Re, sentita la vostra venuta, ed il passagio dell’Awaz, mi ha mandato a complimentarvi, e vuole sapere notizie

sparo di fucili: si beve un corno Uno sparo di fucili annunzia ai contorni il ben venuto della carovana, e seguirono i complimenti. Un giovane arriva dopo di loro portando un piccolo vaso d’idromele con alcuni corni, e da a noi tre missionarii, ed al Signor Mekev un corno per reficiarci. [p. 248] un corno d’idromele non è una gran cosa, eppure, unito all’idea del nostro arrivo, ed ai saluti del Re produsse, direi quasi, per quel momento un’effetto tutto magico, scomparì ogni nostra stanchezza, e valse per noi come un gran pranzo. Si parlò quindi della partenza. il signor Mekev parte per Liccè
[10.3.1868]
Il Signor Mekev era chiamato dal Re, e dovette partire sul momento col uomo venuto dalla corte, e noi pure ci alzammo, perché della sera eravamo aspettati alla dogana, e da quanto si diceva[no], rimanevano ancora due buone ore per arrivarvi, ma l’avvenimento fece scomparire la stanchezza, e direi quasi la malattia che non lasciava di travagliarmi; gli stessi muli, ed i cameli sembravano aver riaquistato un nuovo brio, e correvano a passi da gigante. Dopo un’ora circa di viaggio abbiamo veduto [per] la prima volta un piccolo segnale di coltivazione, che io non aveva più veduto dopo l’Egitto, ed i miei compagni dopo la loro partenza dai Bogoz, segno che si avvicinavano paesi organizzati in società.

nostro arrivo alla dogana Il sole incomminciava [ad] avvicinarsi all’orizzonte, ed anche l’aria si rinfrescava a misura che camminavamo per una dolce salita appena sensibile, perche mascherata da collinette vulcaniche. Non tardò quindi a comparire in lontananza il piccolissimo [p. 249] descrizione del villagio villagio delle dogane N. composto di poche case, dove rimangono di giorno i ricevitori, e gli /9/ scrivani, poiché nella notte se ne vanno alle loro famiglie, le quali, per l’ordinario, hanno le loro case un poco più sull’alto, lasciandovi solamente i custodi, e le persone di servizio, le quali trasportano poi i valori in sale o altre mercanzie ai depositi regii situati in luoghi più alti e più sicuri. Il villagio quindi è composto di questa gente, e di alcune famiglie povere, le quali vivono del piccolo traffico, facendo un poco di pane e di birra per i forestieri, e per il piccolo mercato che ha luogo ogni settimana.

come [siamo] ricevuti Noi arrivati, fummo ricevuti nella casa stessa, dove lavorano gli impiegati, casa sufficientemente grande costrutta a muro, e coperta di paglia, nella quale già ci aspettava una modica cena mandataci dall’Abegaz, e da alcuni impiegati di qualche riguardo, passione per i banani, e canne [d]a zucaro con una quantità di bellissimi e buonissimi banani, con canne di zuccaro, frutti speciali di quei paesi bassi; la sola veduta di quei frutti ci fece passare la voglia di saziarsi di pane e di pietanze sì di magro che di grasso preparate all’abissinese, e dello stesso idromele venuto in quantità. L’europeo accostumato [p. 250] a mangiar frutta, dopo una lunga privazione, al solo vederli [quei prodotti] prova una vera passione, con pericolo anche di abusarne. In Abissinia il condimento di tutte le pietanze consiste nella gran quantità di pepe rosso, massime nel regno di Scioha se ne fa un’uso straordinario; gli indigeni erano stupiti di una cosa, vedere me dopo tanti anni di dimora in Etiopia non accostumato a questo pepe, mentre il P. Prefetto, ed il P. Ferdinando lo trovavano eccellente. i due compagni cangiano nome Già era stato deciso prima che questi due miei compagni avrebbero lasciato il nome di un santo europeo non conosciuto in Etiopia, appena arrivati sui confini dei paesi cristiani, secondo l’uso antico della missione, e fu appunto di quella sera che si incomminciò. Il P. Taurino Prefetto prese il nome[:] abuna Jacob onde onorare la memoria di Monsignore Dejacobis, che portava questo nome. Il P. Ferdinando poi prese il nome di Atanasio, pronunzio[:] Atanatyos.

grandi visite e regali
[6.3.1868]
Passata la notte un poco più tranquilla, perché fuori di tutti i pericoli, e sopra un letto un poco migliore, l’indomani fu un giorno di visite. La mattina col fresco venne da Goncio sua dimora ordinaria Walasma Abegaz capo della provincia nel civile e capo religioso dei mussulmani del regno, con un notabile seguito e con regali comestibili e potabili in quantità. Dopo di lui vennero altri impiegati tanto cristiani che musulmani. visita de[l] capo scrivano
[6.4.1868]
Fra i moltissimi voglio parlare di un solo, il quale prima ancora del mio [p. 251] arrivo, anzi prima ancora che io pensassi al viaggio per la via di Zeila del paese di Scioha, aveva già parlato [a molti] della mia andata colà a molti suoi amici, ed aveva fatto una specie di /10/ propaganda cattolica. Era questi appunto un vecchio Deftera Gulti capo dei scrivani di quella dogana, già mentovato sopra. Egli pure essendo venuto per visitarmi, ed avendo dovuto rimanere tutta la giornata per dovere della sua carica, ho voluto esaminare questo fatto, che egli mi raccontò con tutta semplicità come segue.

storia della sua profezia Da molti anni io aveva già sentito parlare del Papa di Roma, e del Patriarca Scismatico Copto di Alessandria, e nel mio cuore faceva sempre una specie di professione di fede cattolica dietro esortazioni di un nostro monaco venuto da Gerusalemme. Più tardi sentendo la cattiva condotta del nostro Vescovo eretico Salama, e la Santità di Monsignor Dejacobis nel Tigre, io mi sono confermato sempre più nella fede Cattolica, prima ancora di conoscerla bene in detaglio. continua la profezia di Gulti Quando la vostra missione Galla faceva dei progressi, io sperando sempre la vostra venuta [p. 252] ho fatto una Chiesa, ed ho assegnato alla medesima tutti i terreni necessarii per la sussistenza di due preti, tre diaconi e quattro canto[ri] sul mio patrimonio per la commodità dei cristiani che si trovano in questi paesi bassi fra i musulmani. In sogno la madonna apparsami allora mi aveva significato di aspettare la vostra venuta per benedirla, e per ordinare i preti ed i diaconi. [1861] Quando Ella sortì di Kafa noi speravamo che avrebbe preso la via di Scioha; ma poi quando si seppe che [1862-1863] Ella prese la via del Gogiam, e più quando ritornò al suo paese; io aveva bel dire che sarebbe venuto, [di] certo, perché la Madonna l’aveva assicurato, ma tutti si scoraggirono, e vollero essere ordinati dal Vescovo Salama. Così la Chiesa fu registrata nel catalogo delle altre chiese, e si incomminciò a celebrare. Ora tocca a Lei ad agire; in quanto ai preti e diaconi ne rispondo io. Io non son venuto per restare qui, risposi, e vedremo dopo.

trasporto del bagaglio
[7-8.3.1868]
Lascio intanto questa storia, alla quale si dovrà col tempo ritornare, e passando a quella del nostro viaggio, [proseguo.] Siccome i cameli non montavano più [in] alto, si dovette procedere ad un’altra operazione per il trasporto delle casse e di tutto il bagaglio sino alla città di Liccè, dove si trovava il Re, e dove, almeno provisoriamente, dovevamo restare. cautele e formalita di tale effetto Alla presenza mia, oppure di un mio compagno, del Procuratore del Re, e di Deftera Gulti suddetto si dovette [p. 253] fare una nota esatta di tutte le casse, involti, o colli di qualunque siasi genere, anche della minima importanza, quale fatta e verificata io l’ho segnata, e la segnarono pure il Procuratore del Re, e Deftera Gulti capo dei Scrivani, controllore, e custode dell’archivio; quindi per coppia conforme se ne aggiunsero altre due parimenti sottoscritte; una di queste fu data al Procuratore del Re, chiama[to] Mesleniè nel paese, una seconda l’ho presa /11/ io, e la terza restò nelle mani di Deftera Gulti. Da quel momento tutto il nostro bagaglio restò nelle mani del Procuratore del Re, divenuto risponsabile, ed incaricato di farlo trasportare dai paesani sino a Liccè per il giorno ordinato dal Re, giorno fisso per la nostra entrata nella città reale, dovendo il tutto entrare con noi. Da quel momento noi non ci pensammo più, ma solamente lasciammo un giovane di nostra confidenza a seguirlo. Per il nostro mantenimento già erano stati dati tutti gli ordini opportuni nei luoghi delle nostre fermate.

fine delle formalità Tutte le formalità sopra descritte sono usate unicamente per le mercanzie o bagagli non stati visita[ti] nella dogana, come suole usarsi per lo più per gli europei ed altri viaggiatori di riguardo. Si dice questo un’onore, ma non manca della sua condizione onerosa sotto intesa; per simili effetti non stati visitati in dogana [p. 254] [nella dogana] s’intende sempre sottointeso l’ordine che tali effetti non si possano aprire, se non sono stati portati direttamente avanti il Re, e visitati da lui, essendo uso di farsi ciò per titolo d’onore, ma qualche volta anche per sospetto; ben inteso ciò, se non vi è stata una dispensa speciale, come il Re ha fatto con noi. megliore la visita o la dispensa? Fra i due casi, se cioè sia meglio che gli effetti dei viaggiatori siano visitati dal Re, oppure no, io che ho provato i due casi, non saprei come rispondere per norma dei viaggiatori; io inclino piuttosto per desiderare la visita, perché, una volta ciò fatto, se il Re trova qualche cosa bramata da lui ve la domanderà, oppure cercherà di comprarla, se è questione di mercanti, ma dopo non sarete più molestato con domande, laddove non essendo visitate [le casse] accade l’opposto; alle volte qualcuno, per farsi un merito presso il Re, dirà di aver veduto qualche cosa, e vi cagionerà delle domande, e non potendo soddisfarlo sempre vi sarà un sospetto di negativa.

si giustifica il re Per giustificazione del Re bisogna poi confessare una cosa, ed è che incaricandosi il Re del trasporto, alle volte ad una gran lontananza, fa un servizio così grande che non si può calcolare, avuto riguardo alle difficoltà di trasporto che si trovano, massime per certi oggetti di gran volume che non si possono caricare sopra le bestie da soma; perché in simile caso non si troverebbe per qualsiasi paga, essendo questo lavoro un’opera [p. 255] propria dei così detti gabbar, la quale non si trova affatto se non per comando del governo. non si lavora per paga Nel paese non esiste affatto il sistema degli operai pagati. L’uomo lavora la campagna per se, ma non lavora per paga, essendo una cosa fuori di uso; piuttosto lavorerà a titolo di amicizia in certi lavori di uso fra i vicini, come nella costruzione delle case, oppure nella mietitura o nell’aja a titolo di compenso reciproco, ma mai per paga, quando non è gabbar; cioè non possiede /12/ un terreno con onere di lavorare in certi giorni. l’uomo è libero, ma schiava la terra La guerra, il servizio spirituale di Chiesa medesimo, o si fa per amore, oppure come servitù di un terreno. In Scioha il personale è libero e non si può comandare che a titolo di terreno che abbia una servitù. Per questa ragione un forestiero con paga non troverebbe [personale] [d]a far trasportare. Il solo governo a titolo di terreno con servitù può ottenere un servizio. Il governo stesso non comanda l’uomo che non sia schiavo, se non a titolo di terreno.

triste situazione per forestiere Ho riferito questo per far conoscere la nostra posizione dal momento che siamo entrati nel paese di Scioha, dove in rigore il solo Re può mantenere onoratamente un forestiere di riguardo. Questi essendo ricco, coi suoi denari può comprarsi dei grani sui mercati; può anche comprarsi dei schiavi [p. 256] e delle schiave per fare la farina, il pane, un poco di cattiva birra, ed altri servizii necessarii; ma alla fine dovrà sempre avere una casa, e questa dovrà sempre essere sopra un terreno; ebbene qualunque sia questo terreno, anche piccolo, potrà sempre il forestiere essere molestato, sia dal governo, oppure da un’altro padrone secondario, il quale se non sarà contento potrà sempre farlo partire. In fondo, a forza di progresso e di libertà il nostro paese medesimo di Europa, pare aver addottato il sistema dello Scioha, cioè paese libero, e schiava la terra, col di più che qui non solo la terra ma anche i capitali mobili si trovano nelle mani del governo, ed i poveri proprietarii si trovano ben soventi obligati a far banca rotta, o ad emigrare per la quantità dei tributi; è questa una vera indigestione di progresso e di libertà turca.

partenza dalla dogana
[8.3.1868]
[stazione di Goncio]
Ma è ormai tempo di lasciare le osservazioni per descrivere il movimento delle nostre persone. Sciolti noi dunque dalle sollecitudini del bagaglio, rimasto nella mani del Procuratore del Re, abbiamo lasciato l’indomani, cioè la mattina del terzo giorno del nostro arrivo, il villagio delle dogane: la nostra carovana era divenuta molto piccola, numerosa piuttosto di accompagnamento civile, quasi tutte persone del governo, e pochi [p. 257] gabbar che portavano le cose più essenziali. Fra gli altri ci accompagnava Deftera Gulti, il quale ci fece fare alto sotto un’albero non molto lontano dalla sua casa, dove ci fece gustare un poco di caffè, e bere un corno d’idromele, e veduta la sua chiesa da lontano, e benedetta la sua famiglia abbiamo continuato il nostro viaggio, sempre in dolce salita, fra collinette vulcaniche, sino alle dieci circa, e si fece alto in un piccolo villagio musulmano, dove fummo serviti di un piccolo pranzo di magro, perché in tempo di quaresima; non mancarono però i banani e le canne da zuccaro e qualche limone, produzioni ordinarie in /13/ quei bassi [terreni]. il tée abissino Dopo il pranzo quei musulmani, invece del caffè, [servirono] una [una] decozione di foglia, la quale ha tutto il gusto del tee; quella gente è ghiotta della foglia verde, ed avendola io gustata, masticandola lascia un gusto così simpatico, che dura un quarto d’ora dopo di averla masticata.

arrivo ai piedi di Fekeriè ghemb Essendo noi a levante delle alte montagne di Fekerie ghemb, di Emavrat, e di Condy l’umbra delle medesime incomminciava a discendete verso di noi, e circa le tre e mezza pomeridiane ci siamo messi in viaggio, sino alle 6. passate, e siamo arrivati quasi ai piedi della montagna di Fekeriè ghemb al Sud-Est di quella fortezza; al nostro Sud avevamo la città di Ankober non più di due ore lontana. Si fece alto in un piccolo [p. 258] villagio in una casa abbastanza grande e polita con un cortile ed alcune capanne intorno. Io, a misure che si saliva, mi sentiva bensì un poco ravvivato dal maggior ossigeno dell’aria, ma non era ancora guarito, ed appena arrivato mi prepararono un letto sopra la terra e mi stava riposando, quando arrivo di «madebiet» Walde-Ghiorghis
[9.3.1868]
discese dalla fortezza di Fekeriè ghemb un gran personagio con un seguito, e molti uomini charichi di proviste per la cena. Era questo Ato Walde Ghiorghis l’economo generale (Madebiet) della tavola reale, colui che doveva provedere il pane e la birra per tutta la casa reale; epperciò economo dei granai regii e distributore dei cereali ai pensionati. Questo signore aveva ordine dal Re di restare a Fekerie ghemb, dove si stava fabricando una città forte per ogni caso che venisse Teodoro ad assalirlo; questo stesso signore aveva [ordine] di aspettarci in quella fortezza, e di riceverci appena avvicinati, ed accompagnarci sino a Liccèe.

ordini del re Menelik; una st[a]ffetta [a] lui Appena arrivato questo signore mi disse gli ordini del Re, ma io avendogli esternato la poca volontà di continuare il viaggio ed il bisogno che aveva di riposarmi almeno un g[i]orno o due; egli spedì subito una staffetta al Re che portasse le mie parole. Intanto la sera, mentre si stava mangiando la cena, mi sono accorto notte e cimici, e freddo che la casa era piena di cimici, i quali [insetti] discendevano dal tetto [p. 259] in processione sul muro imbiancato per prendervi la loro posizione e servirci nella notte. Al vedere quello spettacolo ho ordinato subito ai servi, affinché preparassero un letto fuori all’aperto per noi. Così fecero, e dopo la cena siamo sortiti fuori a dormire. Come noi venivamo dai paesi bassi più caldi, non avevamo osservato l’altezza a cui eravamo già insensibilmente saliti, e benché mediocremente coperti, pure verso [la] mattina abbiamo sofferto di freddo da sospirare un poco di fuoco, come fecero subito. si parte, e si monta L’indomani mattina, fatta la nostra preghiera di uso, preso un poco di caffè, al levare del sole ci siamo messi in viaggio, si camminò ancora /14/ circa un’ora fra campagne coltivate, al sud-est della fortezza e poi bosco oscuro siamo entrati nella machia foltissima che veste tutta la montagna della fortezza suddetta, frammezzo a pini di enorme altezza, oliveti selvaggi favolosi, ed altri alberi tutti di smisurata grossezza, fra gli altri [i] famosi alberi del così detto quassò, la cui fiore è medicina [per la cura] del verme solitario.