P. Reginaldo Giuliani

Gli Arditi

/151/

Il XXVI Battaglione d’assalto.1)

Fiamme rosse.

S’era ai primi del luglio millenovecentodiciassette. Caporetto non aveva ancora toccato la baldanza dell’esercito che nei due anni di guerra aveva acquistato ogni nuova forma di bellica forza e conservava il vanto invidiabile e invidiato di non avere mai rallentato gli anelli di acciaio della sua troppo vasta fronte. Però già si /152/ imponeva una scelta, nel testo: scielta; corr. negli → Errata scelta speciale nella massa ingente per le truppe destinate ai compiti più rischiosi.

La terza armata cominciò a costituire i battaglioni d’assalto solamente al principio d’ottobre del diciassette. Altre unità, avanti di essa, avevano sperimentato questa felice innovazione. Uno dei primi fu il quinto corpo d’armata (prima armata) che al principio del luglio di quell’anno ordinò di formare un battaglione d’assalto con i nuclei di arditi della quarta brigata bersaglieri e col reclutamento di volontarii del quattordicesimo e ventesimo reggimento a quella appartenenti.

Dei bersaglieri arditi? Ma non rappresentano essi quanto vi ha di più fiero e più agile, di più forte e più bello nell’esercito? Non sono forse gli arditi per eccellenza? Invero tale deve essere il bersagliere secondo l’intenzione del fondatore e tale sempre è stato. Ma poichè i metodi di combattimento avevano subito intorno a quel tempo delle mutazioni radicali, si richiedeva una tattica nuova, ci volevano specialisti per nuovi sistemi, per nuove armi: e anche in questo i figli del Lamarmora non dovevano rimanere ad alcuno inferiori. Molti dei vecchi e bravi bersa- /153/ glieri passarono al battaglione d’assalto e divennero gli arditi delle fiamme rosse.

Tali erano appunto nella maggior parte gli uomini del nuovo battaglione: antichi bersaglieri dai muscoli elastici, rotti alle fatiche eroiche e temerarie del Carso e del Trentino, dalle carni già martoriate dal ferro; oppure giovani reclute insaziabilmente desiderose di avventura e di sacrificio.

Il battaglione non volle lasciare le rosse fiamme del bersagliere; sul giovane petto aperto il colore del sangue sta bene quanto il nero della morte! Sull’elmetto continuavano a splendere quelle penne a cui il bersagliere non rinuncia mai. Il bel distintivo della daga romana attorniata di quercia e d’alloro, adorno dello storico motto sabaudo fert, che l’ardito porta sul braccio e che rappresenta uno dei più bei fregi di guerra, veniva dato solo ai più valorosi del nuovo reparto come premio singolare. Lo si conferiva solennemente come una decorazione, e il nome dei decorati veniva pubblicato sull’ordine del giorno.

Anima del nuovo reparto era il giovane capitano che già aveva formato la compagnia di arditi reggimentali, e prima ancora tenuto il comando della settantesima com- /154/ pagnia bersaglieri, il signor Aminto Claretto. Qualcuno lo disse nato con le penne, tanto la spigliata andatura del bersagliere gli è familiare. Primo in tutti i combattimenti è pure modello di fattiva attività nelle preparazioni. I bersaglieri arditi gli vogliono molto bene e passano cantando nel ritmo della corsa:

Se non ci conoscete
Guardateci nel petto
Noi siamo gli arditi
Del capitan Caretto

Bombe a man – pugnale e bombe a man.

E il giovane capitano osserva attraverso alle lenti con gli occhietti furbi di buon piemontese, e una gioia commossa gli brilla nello sguardo.

Il reparto, che ebbe nella costituzione il numero ordinale di quarto, nel giugno millenovecentodiciotto fu detto ventiseiesimo dal corpo d’armata che lo fece suo definitivamente.

/155/

Di battaglia in battaglia.

Le fiorite primizie dei giovani assalitori erano preparate e fresche come una primavera. Anelavano a mostrare gli aperti petti al nemico e a coprire di nastrini azzurri e di aureola la nuova divisa.

Il più bel sangue di ogni regione d’Italia ribolliva in quella schiera; però buona metà era formata di sardi. I bruni e piccoli figli della vecchia isola fedele alla corona di Savoia sono passati in massa coi loro ufficiali dal quarantesimo battaglione bersaglieri.

Le campagne di Maglio e di Novale, venivano battute dall’agile tallone delle compagnie che passavano e ripassavano sempre di corsa con le penne o i fiocchi al vento. Si scorgevano ogni giorno da lungi i fez che facevano rosseggiare il verde dei prati come di fiori ondeggianti. I «Savoia!» dei finti ma impetuosi assalti, il fragore dei petardi riempivano le valli di /156/ echi rumorosi. Improvvisamente squittiva la mitragliatrice tra le fronde di un albero, ai suoi piedi un’altra continuava a sparare affondandosi nel riparo che due lesti bersaglieri le scavavano nel terreno. L’agilità è il carattere vero di questo reparto; agilità che pure ebbe una vasta palestra nei continui spostamenti cui fu soggetto. Si può dire che abbia visto tutto il fronte, e dappertutto portò il suo entusiasmo, il suo valore e le sue vittorie.

Io non ho potuto seguirlo personalmente nelle sue peregrinazioni giacchè solamente ai quattordici di luglio millenovecentodiciotto esso giunse alla terza armata: ma credo di non fare cosa inutile o spiacevole ai lettori accennando, sulla scorta del diario e delle relazioni ufficiali, alle diverse tappe della sua strada gloriosa.

I primi esperimenti sono ricognizioni di linea, appostamenti e pattuglie.

Al diciotto d’agosto, giorno onomastico della regina Elena, una pattuglietta comandata dal tenente Bordignon si spinse sotto le posizioni nemiche del Roccione del Dito e vi lasciava un biglietto con queste parole: «I bersaglieri in omaggio alla loro regina».

Verso la fine dello stesso mese si rac- /157/ coglie una delle più belle palme: viene l’ordine di espugnare i roccioni del monte Maio. Si tenta una prima volta verso l’una del ventitrè agosto, ma la sorpresa è sventata da un pattuglione nemico che s’incontra nella oscurità della notte tra i crepacci insidiosi della terribile montagna. L’ordine di operazione del capitano Caretto terminava con queste parole: «È necessario di riuscire ad ogni costo». È un ordine e bisogna eseguirlo: i plotoni rientrati con perdite al mattino riprendono alla sera la stessa strada circondando il mastodontico baluardo. Un allarme nemico sembra sventare nuovamente il piano degli arditi, che devono accosciarsi e quasi immedesimarsi con roccie e con muschi per non essere notati alla luce dei razzi che scoppiano senza interruzione nell’aria. Dopo poche ore si attacca nuovamente. Una pattuglia di fronte comandata dal sergente maggiore Cottone avanza pel piano boscoso che sta di rimpetto al Roccione, aprendo un fuoco nutrito di fucileria e lanciando bombe a fine di attirare da quella parte l’attenzione del nemico: il quale abbocca all’inganno e spinge verso quel punto le sue forze impegnandosi in combattimento. Intanto sulla sinistra avan- /158/ zano inosservati i tenenti Bordignon e Lollini, che dànno cautamente la scalata al Roccione isolato. La piramide fatta dai fortissimi bersaglieri sale sino alla vetta: vi arrivano, fugano le vedette.... inseguono i residui del presidio.... e serbano la posizione da vincitori. Nello stesso tempo il sottotenente Bergardi con pochi uomini mette in fuga ancora una volta il nemico ed estende l’occupazione alle gobbe dei Roccioni.

Durante l’assalto al Roccione isolato un bersagliere, sotto l’intensa fucileria e lo scoppio delle bombarde, era salito su un masso opposto, a fine di lanciar meglio le bombe dietro i ripari austriaci. Colpito da un piccolo calibro che gli troncò le gambe, precipitò sul davanti a quel suo piedestallo, sotto il tiro diretto del nemico: ma dimentico di sè sino alla morte, teneva lontano i compagni che accorrevano per soccorrerlo, gridando: «State indietro, perchè qua vi ammazzano tutti». Quando i compagni poterono avvicinarlo egli era già morto dissanguato, ma dalle braccia tese e col labbro aperto pareva ripetere ancora il suo grido fraterno.

Dopo parecchie altre tappe il battaglione fu schierato sui colli tra Cividale e Caporetto, proprio nelle grigie giornate dell’ul- /159/ tima settimana dell’ottobre millenovecentodiciotto. Il capitano Caretto era all’ospedale malato di tifo: la maggior parte degli ufficiali è ora o morta o scomparsa dal battaglione. Inoltre le giornate seguenti trascorse nelle angoscio e fra le difficoltà immense della copertura del ripiegamento, e sopratutto lo scioglimento del battaglione, non hanno permesso alla solita mano del cronista di vergare quella storia dolorosa che vorremmo leggere con grande passione. V’è una lacuna nel diario del battaglione: questa però è preceduta da qualche pagina che io riferisco per intero affinchè la semplice veridicità del documento renda conto come a Caporetto gli arditi abbiano sostenuto la fede e l’onore d’Italia.

«24 ottobre. – Alla sera giunge l’ordine di trasferimento da Cepletischis pel paese di Goboli onde rinforzare il ventesimo bersaglieri. La prima compagnia al comando del tenente Gattu e la seconda col tenente Sergardi si portano a sud del paese suddetto, la terza compagnia e la sezione Bettica al comando del sotto tenente Buozzi rimangono di riserva.

Verso le ore ventitrè si tenta la rioccupazione del paese e delle trincee che vanno a nord-est. La prima compagnia attacca /160/ frontalmente la posizione mentre la seconda deve proteggere la destra occupando le alture dominanti; sulla sinistra deve agire il settantunesimo reggimento bersaglieri. Alle ore ventitrè e trenta le compagnie iniziarono il movimento prendendo subito contatto col nemico; la destra avanza oltre le batterie sino al ciglio delle colline. Il fuoco delle mitragliatrici nemiche è più che intenso, più che violento e fa strage nelle nostre file. All’alba i bersaglieri sono costretti a ritirarsi sulle posizioni di partenza.

25 ottobre. – Verso le ore otto il nemico attacca risolutamente ma non riesce a sfondare la linea tenuta dal reparto. Si ha quindi una calma relativa durante la quale qualche nostra pattuglia molesta il nemico. Sull’imbrunire i tedeschi vengono in forze al contrattacco e costringono i nostri a ritirarsi sul monte Maggiore.

Tempo coperto.

26 ottobre. – Parte del reparto trovasi sul monte Maggiore mentre che la terza compagnia e la sezione Bettica a Cepletischis tentano di resistere alla marea nemica. Fu sforzo vano, gli avanzi si ritirano su Cividale e vengono incorporati /161/ nel ventesimo bersaglieri per subire le sorti della quarta brigata che venne usata quale truppa di copertura durante tutta la ritirata.

Tempo coperto.»

Questo diario laconico dice meglio di un ampio racconto gli sforzi che il piccolo battaglione fece in quei giorni tragici, nei quali a costo di essere stritolato sotto l’urto dei quattro imperi barbarici sacrificò se stesso per l’onore suo e della patria. Se non potè salvare l’amato suolo d’Italia dall’orribile scempio, non devesi però dimenticare che da parte sua ha dato in olocausto il meglio del suo sangue.

Il battaglione si sciolse naturalmente poichè non vi erano più ufficiali e gli arditi (quasi tutti morti, feriti o dispersi) non erano più rappresentati che da pochi avanzi, i quali non potevano fare di meglio che unirsi al reggimento da cui era nato il battaglione. Così presero la via dolorosa del Tagliamento e del Piave sempre combattendo e rintuzzando le puntate delle avanguardie nemiche.

/162/

Gli arditi della riscossa.

Appena ricomparve al reggimento il capitano Caretto, i suoi occhi fatti più lucidi sul pallido viso di convalescente, si incontrarono negli sguardi dei pochi superstiti che gli si strinsero attorno chiedendo con fiducia: «Quando, quando ricomporremo il nostro battaglione?». Abituati alla intimità e alle preferenze del reparto speciale, pativano la nostalgia dei ricordi, e volevano gustare ancora la gioia di lanciare dalle rive del Piave alle pendici del Grappa il fiero ritornello di altri giorni:

Noi siam le fiamme rosse
Noi siam le fiamme nere
Noi siam le prime schiere
A vincere.... o morir.

La fama del ventiseiesimo reparto era divenuta tanto salda nel corpo d’armata che il comando appena rivide il Caretto /163/ gli diè l’ordine di ricostituire il battaglione (diciassette novembre). Al suo cenno si fece l’adunata dei vecchi, i quali trascinarono seco un bel numero di giovani reclute. Degli antichi ufficiali v’erano i tenenti Bordignon, Gattu....

Tre giorni dopo cioè il 20 novembre, il battaglione col suo capo infaticabile era nuovamente in linea alla Moietta di Gallio, ove rimasero feriti i tenenti Mina e Buozzi.

Dopo parecchi spostamenti finalmente si viene all’azione di monte Val Bella. Da più giorni il battaglione era passato con armi e bagagli a disposizione del comando truppe altipiani. Alcuni reggimenti s’erano addensate per le gole della Val Stagna. Il battaglione doveva precederli per le pendici nevose del munitissimo Val Bella. Nella notte del ventisette gennaio gli arditi si associano nelle trincee di partenza: il cielo è tutto stelle tremolanti. Soffia una brezza gelida. L’alba annunzia una giornata meravigliosamente bella, l’artiglieria che intensifica il fuoco turba la calma mattutina della montagna.

Alle nove la terza compagnia in capo al settantesimo battaglione bersaglieri balza dalle trincee di approccio coi plotoni affiancati, ed ogni plotone avanza a cuneo. /164/ Scende dalle pendici della nostra posizione, poi, giunta in fondo alla valle, fa una repentina conversione a destra e si lancia compatta per due varchi aperti dalla artiglieria nei reticolati avversarli; riduce all’impotenza i piccoli posti e le mitragliatrici che tentano una difesa ad oltranza ed estende a destra e a sinistra l’occupazione. Appena il nemico si rende conto della sconfitta apre intensissimo fuoco con tutte le armi: gli arditi senza alcun riparo vengono bersagliati da tutte le parti: si invocano i rincalzi, ma questi non giungono. Verso le tredici, dietro ordine superiore si iniziò un graduale ripiegamento; a sera la compagnia che era partita con centottanta uomini rientrava con una quarantina!

Anche le altre due compagnie erano uscite ed erano rientrate portando prigionieri e bottino; ma, avendo subito minori perdite, venne loro affidato il compito principale dell’azione del giorno susseguente, quando formarono le punte delle due colonne che assalirono per parti opposte le trincee del Val Bella. L’avversario controbatte l’artiglieria e stende sopratutto una intensa cortina di fuoco tra la nostra e la propria linea. Ma i baldi bersaglieri /165/ non si arrestano: giunti alle posizioni si gettano a corpo a corpo sugli austriaci, ne espugnano i capisaldi e in breve sono padroni assoluti. Il sole di mezzogiorno ride nel cielo: gli ultimi austriaci fuggono alle falde del monte: gli arditi accendono la sigaretta e si guardano sorridendo con immensa soddisfazione.

Al dieci di marzo, a Villa Verla presso Thiene, Sua Maestà il Re passava in rivista le truppe espugnatrici del Val Bella e appuntava sul petto dei vincitori l’argento e il bronzo del valore. Non fu questa l’ultima volta che il Re volle vedere il bel battaglione: in poco più di due mesi per ben tre volte (cioè nuovamente al ventisei di aprile e ancora al tredici di maggio col Re Nicola di Montenegro) volle ammirarne la promettente floridezza: e gli arditi andarono assai orgogliosi di questo triplice attestato regale. Anche il giovane principe di Galles assistè ad una tattica del battaglione nel giorno venti di maggio.

Nella prima metà del giugno la seconda compagnia fu distaccata dal reparto per formare il settantaduesimo battaglione di assalto, al ventiduesimo Corpo d’Armata. Perciò la forza complessiva del battaglione non ammontava che a poco più di tre- /166/ cento uomini: e fu con questo numero, consacrato dalla memoria dei trecento spartani delle Termopili, che il battaglione veniva chiamato a difendere le porte d’Italia alle pendici del Montello.

Un improvviso ordine trasferì il reparto nelle vicinanze di Treviso: il comando supremo che aveva raccolto gli indizi sicuri della prossima offensiva austriaca sul Piave, colà aveva radunato il fiore delle truppe. I battaglioni d’assalto s’erano addensati nella pianura veneta per difenderla dalla imminente invasione.

Nel primo giorno l’urto delle ingenti masse nemiche contro la nostra linea sortì il suo effetto: la falla parve più profonda nella regione del Montello. Il ventiseiesimo battaglione fu trasferito all’ottava armata. Alle sette del mattino del sedici giugno le due compagnie sono sugli autocarri: canti e motti volano dagli arditi tra la meraviglia dei soldati della strada e le benedizioni dei contadini e delle donne che fuggono davanti all’invasione nemica. Si scende a Selva sul rovescio del Montello e si prosegue a piedi sino a Giavera. Di là, appoggiati alle spalle dal ventottesimo fanteria con diversi sbalzi e combattimenti durati tutto il pomeriggio si arriva /167/ al trivio Colesel, Castelviero e Sovilla, facendo parecchi prigionieri con materiale e riprendendo tre nostre batterie di campagna. A sera si ripiegò su Boiacco per prendere collegamento con le altre truppe e mantenere la sicurezza alle ali; provvedimento che permise di respingere due violenti attacchi notturni.

Al mattino del diciassette il battaglione veniva fatto rientrare a Giavera, ove ricevette quarantadue complementi, freschi bersaglieri appena giunti dal deposito di Reggio Emilia. Vennero a proposito per colmare i vuoti delle prime perdite. Nelle ore del pomeriggio un improvviso intensissimo fuoco di fucileria e di mitraglia desta gli arditi che dopo il meschino rancio si appisolavano per rifarsi delle veglie combattive della scorsa notte: che succede? Si intuisce la situazione e, senza attendere ordini, senza frapporre tempo, si corre in linea, il capitano alla testa. Piazzano le mitragliatrici, scagliano petardi, e coi prodi fanti spezzano l’attacco e ributtano ancora una volta gli austriaci.

Più intensa lotta li aspettava il giorno susseguente. Albeggia appena, quando pochi autocarri giungono coll’ordine di trasportare, una alla volta, le due compagnie /168/ a Casa Pin. «Casa Pin? dov’è questa Casa Pin?» mormorano le fiamme rosse. Ma non importa saperlo; vi sono certo dei cecchini da scacciare e tanto basta. Appena scesi si lanciano contro una improvvisata linea avversaria per disimpegnare il comando del centoundicesimo fanteria e del secondo battaglione dello stesso reggimento. Ma prima che essi abbiano avuto il tempo di orientarsi si scatenano violentissime raffiche di mitraglia nemica; però l’assalto degli arditi non s’arresta. In pochi momenti sono caduti tre ufficiali e una cinquantina di uomini.

Il tenente Ivo Lollini vien colpito da una pallottola in fronte. Gli sorrideva appena la grazia dei venti anni, ma aveva al suo attivo tanti mesi di guerra e sopratutto tante eroiche azioni che potevano onorare la vita di un vecchio eroe. A Caporetto era stato ferito a una gamba e fatto prigioniero: ma riuscì ad ingannare gli austriaci e coll’appoggio di un bastoncino, zoppicò così lestamente da passare avanti a tutte le avanguardie nemiche ed a raggiungere i suoi bersaglieri.

Qui pure il battaglione perdette quell’altra perla, il tenente Remigio Gattu, che era venuto al reparto coi suoi Sardi sin /169/ dal primo giorno. Sul suo petto brillavano due nastrini azzurri e ne aspettava altri due. Aveva venticinque anni: era piccolo e bruno come la sua gente. L’Università, il diritto non gli avevano fatto dimenticare le selve della sua vecchia Barbagia: che anzi pei boschi del Trentino e nelle brughiere paludose del Piave si trovava meglio che nelle strade di Roma. Le imprese più rischiose, le pattuglie notturne e diurne, i lunghi appostamenti in un fosso, lo strisciare tra i giunchi erano le imprese preferite che non cedeva mai ad altri. Si racconta che quando si attendevano da un momento all’altro gli austriaci sul Tagliamento, avendo udito i cani abbaiare sulla riva opposta, per verificare la presenza del nemico guadò il fiume con quattro ciclisti e dopo d’aver mangiato un pollo e bevuto una buona bottiglia di vino si pose a dormire attendendo i signori cecchini. Rientrò al mattino quando già le mitragliatrici nemiche si udivano sull’argine. Aveva riportato quattro ferite in diversi combattimenti; la quinta fu mortale.

Questi sacrifici non furono inutili: segnarono l’estremo limite all’invasione, che non fece più un passo avanti. Quando giunse l’altra compagnia si potè disporre /170/ una forte linea dalla quale il battaglione contenne parecchi altri attacchi e spinse pattuglie durante i due giorni susseguenti.

All’alba del ventuno, il reparto, seguendo l’argine del Piave, si avvicinava a Nervosa cercando di portare viveri e munizioni a due battaglioni che si supponeva resistessero a Villa Berti. Dopo scontri di pattuglie, giunto davanti a Fornace scoperse una vera e munitissima trincea avversaria: ma gli venne vietato di tentarne l’espugnazione. Il reparto fu richiamato e appostato fra le due ferrovie che vanno al ponte della Priula.

In tutti questi giorni il tempo era stato piovoso: nel pomeriggio del ventidue si rischiarò e preparò per la domenica ventitrè una delle albe più pure e più deliziose. Il cielo si univa all’esultanza della nostra terra liberata dallo scornato invasore. Tre pattuglie di ufficiali del ventiseiesimo reparto si spinsero innanzi prima cautamente tra le erbe e le frondi molli di rugiada, poi quasi di corsa per le contrade di Nervosa, e, tornarono portando la lieta novella che il nemico aveva abbandonato ogni cosa ed era fuggito.... Alla stessa sera un comunicato del Comando Supremo annunciava a tutta Italia che gli /171/ austriaci dopo una settimana di disperati tentativi ripassavano in disordine il Piave, e che l’esercito nostro ancor una volta aveva salvato la Patria. Il reparto fu citato distintamente nel bollettino numero 1124 del Comando Supremo.

/172/

Alla terza armata.

Ai quattordici di luglio il battaglione, seguendo il ventiseiesimo corpo, giunse alla Terza Armata e si accantonò a San Michele del Quarto: dopo dieci giorni fu trasferito a Cà Gamba presso Cavazuccherina.

Là incontrai per la prima volta i nuovi arrivati: avevo già conosciuto dalle relazioni dei giornali il battaglione Caretto, perciò con gran piacere strinsi quelle mani valorose. I bersaglieri mi parvero subito soldati meravigliosi: nei loro occhi aperti lessi la tradizionale famigliarità e l’amore rispettoso verso i superiori. Tra gli ufficiali regnava la solita allegria dei nostri reparti, a dispetto della malaria che in quelle paludi era più detestabile degli austriaci stessi.

Presi parte alla festa dell’anniversario del battaglione. La commemorazione avrebbe /173/ dovuto aver luogo ai cinque di luglio; ma le azioni e gli spostamenti continui non dettero tale tregua da poter preparare i festeggiamenti che si volevano. Finalmente tutto fu pronto. Nella mattina si svolsero al poligono di Altino le più belle gare dei diversi esercizi: agiva la squadra ginnastica del battaglione vestita di bianco rosso e verde. Corse, salti, lanci, foot-ball, box, avvicendarono gli arditi instancabilmente in una ridda varia, curiosa e simpatica: mi commoveva il pensiero che quella balda gioventù dai muscoli elastici e dall’anima fresca sarebbe presto corsa al pericolo supremo così come allora correva all’ostacolo. Frammischiato agli altri spettatori stava il generale Alfieri, comandante del Corpo d’Armata; assistè con viva soddisfazione a tutte le gare e accettò dalle mani del capitano la medaglia del battaglione coniata in oro. Ringraziò commosso dimostrando con alte parole il suo compiacimento.

Nel pomeriggio il cappellano tenne un breve discorso incitando i bersaglieri a portare con orgoglio il nome del battaglione, continuandone le tradizioni gloriose. Si distribuirono poi i premi e la medaglia colla cartolina commemorativa recante sotto il motto: «Senza macchia e senza pau- /174/ ra» il nome delle vittorie e la canzone del reparto.

Al mattino il generale aveva salutato il capitano dicendo: «Non vi voglio sciupare in azioni da poco. Verrà il momento in cui il battaglione dovrà rendere magnifici servizi». E questo tempo non era lontano. Lo si presentiva tutti, e gli arditi si preparavano febbrilmente in esercizi di traghetto e di assalto.

Al ventitrè ottobre si imbarcano sui burchi, e dopo parecchie ore di allegra navigazione sulle placide acque del Sile, scendono a Cavazuccherina a disposizione della brigata Novara. L’azione di tutta la Terza Armata era stabilita pel giorno trenta: alle ore undici e mezzo le truppe del Corpo d’Armata dovevano iniziare il passaggio. Non è ancora cessato il fuoco intenso delle nostre bombarde, che vengono rapidamente calate in acqua le zemole in tre punti distinti, presso la quota numero cinque. I primi nuclei attraversano il fiume in pochi minuti, e appena sbarcati si lanciano sull’argine catturando i nemici che non si sono ancora riavuti dalla sorpresa, e riducendo all’impotenza le mitraglie che tentano una difesa disperata. Parecchi dei nostri rimangono morti o feriti nel primo /175/ sbalzo: i tenenti Montilio e Verri colpiti continuano a combattere portando i loro uomini con impeto Arditissimo fin sotto Grisolera, dove vengono arrestati da una accanita resistenza. Il nemico vi s’era trincerato e aveva appostato le mitragliatrici da tutti i buchi. La prima compagnia, richiamata dal rumore del combattimento si appressa e quasi inosservata accerchia il paese; si getta alle spalle dei difensori e con aspra lotta a corpo a corpo, riesce a catturarli.

Noi perdemmo, tra gli altri, il tenente Giulio Lusi, un caro ragazzo del novantanove, buono e dolce come una fanciulla, anch’egli dei più anziani del battaglione. A Gogoli, nei primi momenti della ritirata di Caporetto, durante una disastrosa operazione, con due bersaglieri s’era lanciato fra le file prussiane per strappare l’otturatore a quattro pezzi della nostra artiglieria rimasta nelle loro mani e l’audacissima impresa gli procurò una larga ferita alla spalla che lo costrinse parecchi mesi all’ospedale. Ma il cielo della sua bella Napoli e le carezze materne non valevano al suo cuore ardimentoso gli impeti dell’assalto. Durante l’offensiva del giugno scriveva al capitano questa lettera che mi /176/ pare tanto bella che non ne posso privare i miei lettori.

22 giugno 1918.

Ospedale BausanNapoli.

Signor capitano.

Ho maledetto ieri la mia ferita che mi tiene lontano dal battaglione magnifico, che nelle nuove prove ha, come sempre, fatto rifulgere il suo ardimento, il suo valore leonino. Capivo che loro erano in combattimento e nel più aspro combattimento; ieri sera il comunicato citava all’ammirazione di tutti il XXVI. Mi è balzato il cuore in gola, signor capitano, leggendo....

Tra non molto appena mi si chiuderà la ferita sarò con loro, se lei mi vuole. Il ricordo di lei, mio primo comandante rimarrà per me incancellabile, legato alle prime e più fiere impressioni della mia guerra. Ero un ragazzo quando sono giunto al battaglione: credo ora di essere diverso, uomo. E il suo esempio, la sua parola, il suo incitamento mi hanno così trasformato.

A lei, al bel battaglione Caretto, tutti gli auguri più fervidi di fortuna e di gloria

dal sottotenente
Giulio Lusi.

/177/ Il giovane e gentile napoletano finalmente potè tornare col suo braccio anchilosato, festosamente accolto dai vecchi compagni. Tutto se stesso voleva sacrificare per mostrarsi sempre più degno del bel battaglione. In quel momento terribile, dinanzi a Grisolera, i soldati lo pregano di arrestarsi di fronte ai nidi di mitragliatrici: ma egli, senza attendere ordini, si alza per affrontare le armi nemiche. S’alza e cade subito supino, crivellato di pallottole: i compagni accorrono strisciando per soccorrerlo e lo vedono agitare colle mani un tricolore contro al quale i nemici scaricano raffiche di mitraglia.

Si proseguì l’avanzata sino a Sette Casoni, ove si stabilì una linea difensiva per dar tempo all’avanzata dei nostri rincalzi e per guardarsi dai possibili contrattacchi notturni. I prigionieri fatti in quel giorno dal reparto ascesero a circa quattrocento e circa quindici ufficiali. Da parte nostra non si ebbero che sei morti e ventidue feriti; e tale esiguità di perdite è dovuta alla prontezza decisa di tutto il battaglione che non lasciò quasi tempo al nemico di riaversi dalla sorpresa per ordinare la difesa.

/178/ Intanto affluivano i battaglioni del centocinquantaquattresimo fanteria.

Si riprese l’avanzata verso il Livenza nel mattino successivo: il reparto con un plotone del genio e un battaglione di fanteria che seguiva a distanza, formava l’avanguardia. Si volava rastrellando il terreno e rinviando prigionieri. Sulla Livenza la popolazione di Torre di Mosto spandendosi per le vie acclama ai liberatori, mentre il nemico dall’altra sponda inizia fuoco nutrito di mitraglie e fucileria contro il paese. Si fanno sgombrare in fretta le vie; i borghesi si ritirano con grida e pianti di gioia e di imprecazione, di letizia e di spavento. I vecchi e le donne accompagnano i giovani bersaglieri e li aiutano a piazzare le mitragliatrici sulle finestre prospicenti l’argine per controbattere gli austriaci. Intanto tutto il battaglione si schiera sul fiume allargandosi in pattuglie fiancheggianti. Un pattuglione riesce a catturare con altri prigionieri nove minatori che avevano l’incarico di far saltare il ponte di Oeggia e il deposito di munizioni esistenti colà. Il reparto passò su quelle posizioni tutto il primo giorno di novembre e la notte successiva, mentre il nemico si accaniva con intensa fucileria e con gli ultimi colpi di /179/ artiglieria. Razzi incendiari provocarono pure un incendio che venne tosto domato dagli arditi in mezzo alle raffiche di mitraglia nemica.

Al giorno due si riprese l’avanzata; al tre il reparto passò alle dipendenze tattiche del 1.° reggimento Granatieri. Gli arditi non hanno ancora dimenticato l’incontro coi giganti bravi e generosi che subito si diedero il pensiero di sfamarli: da sessanta ore gli arditi non avevano avuto il rancio, e con tutto il movimento che avevano fatto il loro stomaco reclamava necessariamente un abbondante trattamento. Si può immaginare con quale avidità si sono buttati su quelle gavette! e con quale piacere ricordano oggi ancora i benefattori!

Si passò il Tagliamento a San Michele e poi parte del reparto salì sugli autocarri e sulle autoblindate per affrettarsi a catturare maggior numero di prigionieri. Si combattè ancora a Palazzolo, a Muzzana, a San Giorgio di Nogaro. Due arditi erano scesi dalla autoblindata per recarsi all’ospedale: si accorgono che dietro l’argine della strada da loro percorsa si nascondono degli austriaci che tengono tuttora le mitragliatrici puntate. D’un balzo sono sopra d’essi lanciando alcune bombe trovate in /180/ fondo alle tasche. I primi austriaci alzano le mani e vengono fuori buttando le armi. L’esempio come al solito fu contagioso: altri compagni li seguono: vengono fuori altri e poi altri ancora, tutti colle braccia alzate..... sono già cento e ne arrivano ancora.... All’ordine dei due bersaglieri si allineano sulla strada e prendono la via del Tagliamento: i due arditi ammalati presentano poco dopo al capitano circa duecento prigionieri. L’ardito non si smentisce mai, neppure sulla via dell’ospedale!

Il bollettino del Comando Supremo citava ancora una volta il glorioso reparto. Il battaglione Caretto si mostrò sempre degno della Terza Armata.

Tutta la sua storia è una catena d’oro di atti eroici e di vittorie: tre citazioni nei bollettini del Comando Supremo, tre visite regali, la proposta accettata di tre medaglie d’oro furono i documenti più belli della sua nobiltà, e fanno brillare di fulgida luce il suo motto: «Senza macchia e senza paura».

[Nota a p. 151]

1) La Terza Armata nell’ottobre millenovecentodiciassette conservò sino all’agosto del diciotto il decimonono battaglione d’assalto, poi ventitreesimo. Questo reparto di fiamme rosse è stato citato ripetutamente nei bollettini del Comando Supremo. Ma poiché cessò di appartenere all’armata, ed altri di esso scrisse, e sopratutto perchè l’autore delle presenti memorie non potè superare le difficoltà di tempo e di luogo che si opposero alla compilazione di una sua storia anche breve, questo libro è costretto a tacerne. Torna al testo ↑