P. Reginaldo Giuliani

Gli Arditi

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Il XXVIII battaglione d’assalto.

Vecchi fanti, arditi nuovi.

Le nebbie invernali che troppo a lungo avevano fasciato le pianure venete si erano ormai dileguate ed il sole di febbraio rivestiva timidamente di verde le radure ed i piani. Dall’Adriatico spirava una brezza tiepida che spandeva l’effluvio delle prime mammole annunziando la precoce primavera. Ma meglio che nell’aria, nei cuori, nei cuori sopra tutto era rinato il calore e la speranza. L’umiliante ricordo di Caporetto era stato lavato sul Grappa e per le trincee del Piave col più puro sangue dei figli d’Italia; e mentre dai paesi distrutti, dalle deserte vie di Venezia, di Padova, di Treviso, diroccate dagli areoplani, le rovine recenti invocavano giusta vendetta, si leggeva sul volto di ognuno dei soldati nostri la fiducia reciproca e il desiderio della riscossa.

/182/ Tale fervore e tale santa ira più fortemente ardevano nella regione dimezzata dal barbaro invasore, di dove guardavamo con melanconica invidia le pendici di Vidor e di Valdobiadene, le crode dolomitiche e le candide vette cadorine che parevano lanciare al cielo il grido invocante degli oppressi fratelli.

Ai buoni desideri si unisce intanto la vigile opera: le retrovie della Terza Armata si affittiscono di uomini, di artiglierie, di carreggi, dì materiali d’ogni genere come un giorno nella Precarsica: ogni villaggio, ogni casa alberga i piccoli fanti. Cendon, piccolo e ridente borgo situato sulla riva sinistra del Sile a non molti chilometri dal Piave, fu la località scelta dal ventottesimo Corpo d’Armata per il nuovo battaglione d’assalto che doveva formarsi secondo le ultime prescrizioni del Comando Supremo. Io vi arrivai una bella mattina degli ultimi giorni di febbraio accompagnandovi il colonnello Pavone direttore dei battaglioni dell’Armata. L’accantonamento destinato agli arditi era un immenso fabbricato regolare costruito nel settecento da qualche opulenta famiglia veneziana: da tempo non era usato che come granaio e perciò aveva subito tanti deterioramenti /183/ che lo rendevano più severo e più somigliante ad un castello che ad una villa. Solo più tardi il battaglione fu traslocato in un’altra villa consimile di Biancade.

Al ventuno dello stesso febbraio era giunto un piccolo nucleo di tredici ufficiali e settecentosessantacinque uomini di truppa e già era stato scelto il comandante del nuovo corpo – il capitano marchese Paolo Vivaldi Pasqua. Al nostro arrivo egli stava in mezzo alle sue reclute sorvegliandone l’istruzione impartita nello spiazzo davanti all’accantonamento: e subito ci si fece incontro. La svelta e vigorosa eleganza della persona rivelava l’antico ufficiale di cavalleria: gli occhi pieni di serena e forte bontà rivelavano che egli avrebbe saputo comandare con amore la nuova unità. Le sue parole furono tutte piene della cura scrupolosa ch’egli metteva nel gettare le basi del nuovo battaglione. Ci portò subito tra i soldati, i futuri arditi: erano uomini di diversa età reclutati dalle molteplici truppe di tutto il Corpo d’Armata. Le più belle brigate vi erano rappresentate colle mostrine dai vivaci colori. V’erano i vecchi fanti che avevano bazzicato per anni nei camminamenti e nelle doline del Carso e vi stavano pure i giovanetti del novan- /184/ tanove che appena avevano sentito l’odor della polvere: e in mezzo a questi giovani dagli occhi lampeggianti e dalle membra agili ho subito scorto qualche anziano volontario di guerra che tendeva i muscoli per mostrarsi temprato ai più agili esercizi e non essere bocciato. Nei brevi momenti di riposo fiorivano sulle labbra i più vivaci motti dei dialetti d’Italia. Un buon numero aveva già militato fra le fiamme nere della seconda armata. Stavano divisi in squadre e venivano provati nei più varii esercizi affinchè la scelta scegliesse solo i veramente abili: dovevano essere rimandati al corpo di provenienza. Non basta la volontà di servire la Patria nei Battaglioni d’Assalto: all’ardito è necessaria l’agilità rischiosa dello slancio all’assalto.

Il capitano era fortemente impressionato dalle cattive voci che allora correvano in molti ambienti intorno alle fiamme nere, e si mostrava recisamente disposto a tutto fare affinchè i suoi arditi fossero diversi assai da quelli dipinti dalle male lingue, ed in questa impresa venne mirabilmente coadiuvato da tutti i suoi ufficiali, specialmente da quel bel gruppo che come lui proveniva dai reggimenti di cavalleria. Le belle schiere di scelti arditi del nuovo bat- /185/ taglione tosto si mostrarono, fresche, ordinate, cogli abiti puliti e appropriati, iniziando quello che divenne pel battaglione una vera tradizione direi quasi di eleganza. La disciplina sin da principio s’impose nel suo pieno vigore: la recluta fu abituata subito a non fare l’ardito che cogli austriaci.

Gli ufficiali, sia quelli della prima ora che gli altri, provengono come le truppe da tutte le armi: con quasi tutti faremo conoscenza poichè quasi tutti hanno scritto qualche pagina di sangue nella nostra storia. Non conosco altri battaglioni che nelle azioni del giugno e dell’ottobre di quest’ultimo anno di guerra abbiano sacrificato, tra morti e feriti, maggior numero di ufficiali: è questo il frutto glorioso dell’entusiasmo sacro che si coltivò fin dai primi giorni.

Nel maggio il battaglione che sino allora aveva portato il numero di diciottesimo ricevette come gli altri il numero ordinale del Corpo d’Armata da cui dipendeva: perciò fu detto Ventottesimo.

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S’affilano le armi.

La prova delle reclute era terminata: le file s’erano quotidianamente assottigliate e poi rimpolpate di nuovi complementi in modo da costituire un battaglione organico. Perciò si poteva iniziare l’istruzione tecnica delle truppe di assalto. Questa consiste essenzialmente nell’ammaestrare a prender contatto immediato e soverchiante coll’avversario: l’assalto della trincea opposta, del nido di mitragliatrici, l’a corpo a corpo sono compito dell’ardito: il pugnale e le bombe a mano le sue armi naturali. La bomba a mano sopratutto è l’arma ordinaria per offesa e difesa: quindi con essa l’ardito deve avere la stessa dimestichezza che ha cogli oggetti più famigliari, colla sigaretta e col pane.

In un’ansa di terreno formata da una voluta del Sile si costruì il poligono per il lancio delle bombe. Le compagnie vi si avvicendavano quotidianamente: gli uo- /187/ mini in piedi, senza alcun riparo, lanciavano il petardo contro l’ostacolo segnato e lo ricorrevano immediatamente in modo che le loro persone si mescolavano al fumo prodotto dalle esplosioni. Spesso i terribili → Petrardo Thévenot Wikipedia «Thevenot» (i petardi più comunemente in uso presso di noi) con esplosioni premature o tardive fecero stragi della nostra carne: il capitano Rota, intelligente gentiluomo, caro ai colleghi, amatissimo dai soldati, e il tenente Palopoli, vecchio ardito che portava in viso i bruni segni della gente del mezzogiorno e nell’anima l’ardore dei suoi vulcani, si buscarono alcune ferite che li resero fatalmente inabili ad ogni servizio di guerra: i tenenti Bocaccini e Fadigati furono pure colpiti. Ad alcuni soldati le sottili schegge del terribile petardo tolsero la vita.

Lavoro non facile era la pulizia del campo d’esercizio: le bombe inesplose rappresentavano un serio pericolo poichè quasi tutte erano pronte a scoppiare al minimo urto; degli incauti vi lasciarono la vita. Era notoriamente abilissimo nel colpire col moschetto i petardi inesplosi il bravo medico Vouldrig, vecchio cacciatore benchè giovane di anni: nel far saltare quelli che nel suo rude piemontese diceva «gli /188/ assassini, i briganti, gli schifosi» egli metteva la stessa passione che nel curare i malati che gli erano carissimi.

L’esperienza degli ufficiali veterani di guerra, le istruzioni dei Superiori Comandi, i consigli del colonnello Pavone compirono la formazione. Larghe tattiche per l’aperta campagna, ricognizioni e finte manovre presso i capi saldi del Piave stendevano tutto il battaglione per le serpeggianti strade, nei fossi, tra i pampini novelli e i canneti: ognuno aveva la parte stabilita, ma c’era sempre spazio per quelle iniziative personali che sono le risorse caratteristiche dei nostri arditi. Il generale Giovanni Croce, comandante del ventottesimo Corpo d’Armata che personalmente e con ufficiali di sua fiducia aveva riconosciuto la preparazione del battaglione, volle dargli un attestato di fiducia affidandogli l’istruzione degli arditi reggimentali.

Parallela all’istruzione tecnica si curò sommamente la formazione morale e patriottica del nuovo ardito. Nei battaglioni d’assalto accorrono gli spiriti più ardenti della nostra gioventù, pei quali ci vogliono cure più continue e appropriate. La nostra truppa è formata di contadini e di studenti, di operai dei bassifondi di Roma /189/ di Milano di Napoli e di giovanetti usciti dal tepore delle più distinte famiglie: ma sono tutti occhi lampeggianti, è tutto sangue bollente. Un ideale li accomuna, anzi spesso li affratella in modo meraviglioso: ma quali saranno le dighe possenti che varranno a raccogliere questo fiume straripante di vita e di forza e ad indirizzarlo alla meta fissa giorno per giorno, ora per ora! Le parole e l’esempio dei nostri bravi e buoni ufficiali fu la prima forza educativa. Nulla poi si trascurò di tutto ciò che doveva rendere più bella e buona l’anima dei nostri cari arditi. Ogni qualvolta il cappellano era a disposizione del battaglione si diede un carattere di solennità alla messa festiva, nella quale il sacerdote non mancava mai di proporre qualche verità evangelica che inculcasse l’amore del prossimo e della Patria. Si allestì la Casa del Soldato nella cappelletta del vecchio castello: il giorno della inaugurazione fu con noi → Luigi Gasparotto l’on. Gasparotto che ci parlò dei nostri doveri e delle nostre speranze. Il capitano Vivaldi ritto in capo al battaglione schierato ascoltava le parole lucide e ardenti dell’oratore coi lacrimoni per le gote. Generale fu la commozione quando un giovane capitano degli alpini cui la /190/ guerra aveva rapito un occhio, una gamba e.... il suo paese, additandoci i monti Cadorini indorati dall’ultimo raggio di sole, con voce strozzata dal pianto così ci apostrofò: «Arditi, là è il mio paese, la mia casa, la madre mia: non sarà necessario che io dia l’unico occhio per potervi ritornare, perchè ci siete voi arditi della vittoria.» Furono quindi distribuiti i doni offerti in parte dal Comitato Milanese dei Mutilati: il capitano conte G. Pelli Fabbroni infaticabile direttore dell’ufficio doni della Terza Armata, ha sempre trattato con speciale benevolenza gli arditi coi quali divideva il coraggio e la sempiterna giovinezza dell’anima a dispetto della sua barba brizzolata.

Nella Casa del Soldato si istituì la scuola per gli analfabeti: ve ne erano più che novanta. Perciò fu necessario costruire una classe per compagnia, nella quale ogni giorno un bravo caporalino spiegava le prime pagine del sillabario e guidava sui bianchi quaderni quelle mani che pur use a vibrare il pugnale e a scagliare le bombe ridivenivano timide e miti in quell’esercizio infantile. Essendo troppo frequenti e lunghe le digressioni morali ed evangeliche che il giovane maestro faceva alla /191/ scolaresca, lo pregai di essere più sollecito e di tener conto anche del sillabario; ma egli mi rispose: «Signor tenente, chista gente ha bisogno di morale».

Così lo spirito era pronto quanto il braccio.

L’inno di Mameli che ogni sera echeggiava nella Casa del Soldato, o faceva risuonare il verde piano durante le marcie, vibrando con spontaneo entusiasmo dal petto di bronzo degli arditi, ripeteva con piena verità:

Stringiamoci a coorte,
Siam pronti alla morte,
Italia chiamò.

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Di pattuglia.

Le grandi azioni dell’esercito durante l’anno 1918 furono limitate assai di numero e di durata; onde il compito ordinario dei nostri battaglioni, sempre primi in ogni impresa, non furono le offensive grandiose. L’esercito richiese successivamente agli arditi un servizio abbastanza attivo di scorrerie che avevano l’importantissimo scopo di assalire (normalmente di sorpresa) le linee avversarie e asportarne materiali bellici, e sopratutto uomini da cui avere rivelazioni preziose ai Supremi Comandi. Gli arditi si resero così destri in queste operazioni che era divenuta di moda fra di noi la frase di «fare un prelevamento di austriaci», come se attraversare il Piave col pericolo imminente di sentirsi scatenare addosso raffiche di artiglieria e di mitragliatrici, dare l’assalto colle bombe e col pugnale, fosse una operazione simile a quella che l’uffi- /193/ ciale di vettovagliamento fa ogni giorno al magazzino di sussistenza.

E di pattuglie, pattugliette e pattuglioni ne fece un bel numero il nostro reparto! Ricordo quella del sedici aprile perchè fu la prima. Di notte il tenente Antonio Fulmini attraversa in barca il Piave con alquanti uomini e benchè scoperto assale energicamente l’avversario infliggendogli perdite e rimanendo per due ore padrone della posizione. Un ordine del giorno del Corpo d’Armata così diceva:

Ieri 16, nelle prime ore del mattino, una pattuglia del ventottesimo battaglione d’assalto, a mezzo di barca condotta da soldati del quarto genio pontieri passava il Piave in corrispondenza dell’ansa di Gonfo. Penetrata in trinceramenti nemici vi rimaneva per ben due ore, e dopo aver ucciso col pugnale due austriaci ripassava il fiume riportando utili informazioni sulla occupazione nemica in quel tratto di fronte. Lieto di segnalare alle truppe del Corpo d’Armata questa azione di valore, tributo l’encomio solenne al comandante della pattuglia e a tutti gli altri militari che hanno preso parte all’operazione. Questo encomio sia anche il mio saluto /194/ augurale al giovane battaglione d’assalto che così brillantemente ha iniziato la sua ardimentosa vita di guerra.

Il Tenente Generale
comandante del Corpo d’Armata
F.to Croce.

Altra pattuglia degna di menzione è quella che il due giugno attraversò il Piave sotto un intenso fuoco di sbarramento delle artiglierie avversarie. Erano quattro squadre guidate dai tenenti Ottaviano Colzi, Angelo Bucci, Antonio Fulmini e dai sottotenenti Piero Pegna e Callisto Badalini (la maggior parte scomparsi nelle successive azioni): i più arditi tra gli arditi. Il tenente Pegna stava in capo alla flottiglia notturna: giunto in prossimità della sponda nemica è accolto da una scarica di bombe a mano che gli rovescia l’imbarcazione, ma egli coi suoi raggiunge a nuoto la sponda e inizia l’attacco. Intanto giungono dai diversi approdi i compagni e si impegna un combattimento che ha tutto l’aspetto di una grande battaglia. L’attacco imperversò per due ore, sino all’alba, quando i nostri si ritirarono in mezzo a gravissime difficoltà. Tre degli ufficiali furono feriti. Tra gli altri merita speciale ricordo il capo- /195/ rale Giovanni Caminati che, trasportato morente presso di noi, ripeteva agli astanti ch’egli era lieto di morire per la Patria e incoraggiava i compagni a vendicarne l’onore.

Non dimenticherò mai la bella azione che il reparto nella notte sul dodici settembre compì presso la contro-ansa di Gonfo. Nel pomeriggio precedente mi ero recato in trincea cogli ufficiali e coi graduati che studiavano la posizione di combattimento. Il Piave che più a monte, verso le Grave di Papadopoli, si allarga per alcuni chilometri, includendo verdi isole tra i suoi filoni d’argento, più in basso al Gonfo dove si preparava la pattuglia, vien racchiuso in uno stretto letto. Dalle feritoie dell’alto argine, tra le fronde, vidi l’acqua tranquilla riflettere l’azzurro intenso del cielo. La profondità rende impossibile il guado: perciò non resta altra via che il traghetto. Apposite frascate già celavano dietro l’argine le barchette che dovevano trasportare le pattuglie all’altra sponda.

Gli arditi si preparavano da più giorni: dell’impresa si parlava sommessamente al battaglione, come di un avvenimento lieto che tardasse troppo a succedere: i fortu- /196/ nati scelti fra tanti aspiranti all’onorato compito si sarebbero potuti indovinare dall’andamento più spigliato e più fiero.

Finalmente giunse l’ora aspettata. Erano le dieci di sera, ed io stavo scribacchiando nell’ufficio del Comando quando il capitano Antonino Fazio, un biondo barone siciliano che unisce tutta la gentilezza dei cavalieri normanni alla fierezza indomita dell’isolano, viene a dirmi: «Padre, gli arditi sono pronti». Esco e mi trovo innanzi, nella tenebra rischiarata da poche candele, la squadra pronta, attorniata da una moltitudine di altri arditi che guardavano con invidia i compagni partenti, e di militari venuti a salutare e ad augurare agli amici. Io guardo quella giovinezza. Sotto l’uguaglianza degli elmetti bruniti, gli occhi e la volontà sembrano ardere. Parlo in mezzo ad un silenzio sacro di attesa: «Arditi del ventottesimo battaglione, questa è l’ora degli eroi! nessuno di voi che per lunghi mesi attese con preparazione ardente questo momento ha bisogno di consiglio e molto meno di coraggio; vi conosco tutti e so di quanto sarete capaci: mi permetto solo di ricordarvi due cose. Innanzi tutto, attenzione anche ai minimi cenni dei vostri capi! Essi hanno stu- /197/ diato il piano esattamente, tutto hanno previsto e prestabilito. Qualsiasi imprudenza può essere fatale per chi la compie e anche per gli altri.

«Secondariamente, vi ricordo che la riuscita dipende da voi e dal Signore. Egli ci deve essere propizio perchè voi state per compiere un’azione virtuosa: voi volete salvare la patria nostra e ributtare il nemico che profana il bel suolo d’Italia. Ebbene siate benedetti nel nome della giustizia; per le preghiere delle madri vostre siate benedetti dal Dio della vittoria. Per ottenere più larga la sua benedizione sulle vostre vite e sulle anime vostre, invocate da lui il perdono del male commesso, promettete di diventar migliori per l’avvenire, ed io nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo vi assolvo, arditi del ventottesimo battaglione, Dio vi guida e l’Italia è con voi».

Qualche lacrima rigava le guancie ardenti e quando io tacqui continuò il silenzio, un silenzio di commozione serena somigliante a quello che precede i grandi avvenimenti; poi qualche ardito più bollente lanciò tra i compagni alcune parole di fuoco.

/198/ I camions, allineati nella strada, sono presi d’assalto dalle diverse squadre: in pochi momenti tutto è pronto e il capitano dà il segno della partenza. I saluti e le felicitazioni degli amici sono soffocati dal rauco strepito dei motori e sopratutto dalle canzoni animate dei partenti. Gli autocarri sfilano per le vie alberate verso le linee di combattimento, tagliando la notte nebbiosa e fredda. Gli arditi cantano e le loro canzoni vibranti salgono ai silenzi infiniti delle stelle. Il cielo, pensavo io sedendo accanto al conduttore di uno di quegli autocarri, il cielo si commuoverà; e dal mio cuore facevo salire a Dio una commossa preghiera per i miei cari arditi.

Una vettura passandoci di fianco mi distoglie dalla meditazione: una voce più che amica mi chiama per nome e mi invita a scendere nella automobile: mi trovo tra le braccia di Renato Simoni 1875 - 1952 giornalista e drammaturgo; durante la guerra organizzò il Teatro del soldato e diresse La Tradotta, giornale di trincea della terza armata Renato Simoni che coll’on. Gasparotto veniva ad assistere alla pattuglia.

Presso la linea i canti cessano, gli arditi scendono e in lunga fila indiana si avviano silenziosamente per i camminamenti. Nella trincea si piazzano le mitragliatrici ed i lancia stokes, si stendono i /199/ fili telefonici, poi gli uomini si appostano secondo l’ordine delle diverse imbarcazioni, e tutto ciò si compie con tale silenzio che il nemico non s’accorge del movimento. Rimane ancora qualche oretta di attesa, e gli arditi accosciati negli stretti anditi ne approfittano per fare un pisolino: sonno calmo era quello, non disturbato che dalla visione del ritorno trionfante e delle prossime ricompense; sonno ristoratore che rinfrescava i muscoli e la mente per il cimento supremo! Passai e ripassai per la strettissima trincea posando i piedi tra quei gruppi bruni di teste e di gambe e spesso un braccio si alzava per facilitarmi il varco difficile, e qualche mano stringeva la mia con affetto.... ed io ne riconoscevo il viso per confortarlo d’una carezza e suggerirgli una buona parola. Quanta dolcezza in queste supreme confidenze! solo chi vide questi giovani arditi pronti all’agone può comprenderne il fascino.

Verso le quattro si passa la sveglia silenziosa da ardito a ardito e incomincia il trasporto delle barche ai due scali fra loro distanti circa un chilometro. Tutti divengono operai: fra le ombre che circolano sollevando i legni si confondono arditi e pontieri del genio, soldati e ufficiali.

/200/ Appena varate, le barche vengono subito occupate e ad una ad una si scostano. Proibito di traghettare colla pattuglia, io mi conservo l’onore di dare l’ultima spinta alle imbarcazioni susurrando un augurio e una benedizione. Una tenue foschìa è scesa intanto sullo specchio dell’acqua e involge provvidenzialmente le nere macchie che si allontanano con un leggero ritmo di remi, portando le nostre speranze.

Durante il varo di sinistra venne colpito al petto da una pallottola nemica il tenente dei pontieri che dirigeva l’operazione. Era un giovane volontario di guerra, figlio di padre italiano e di madre belga che era stata fucilata dai prussiani. Voleva vendicare la madre, la duplice patria, e l’umanità; la rivendicazione fu consacrata col suo sangue sulle rive del Piave in questa spedizione italiana contro l’unico nemico. La pallottola era esplosa (solita bravata del barbaro austriaco) perciò gli lacerò il giovane petto. Cadendo tra le braccia degli arditi gridò! Viva l’Italia! Viva il Belgio! arditi vendicatemi!

Le due pattuglie si erano ormai rese invisibili: le mitragliatrici nostre e gli stokes arrivavano sulle retrovie immediate del nemico ad impedirne la ritirata ed i /201/ rincalzi. Un colpo fragoroso susseguito da un grido alle nostre spalle ci avvisa di qualche disgrazia: accorro e in mezzo al fumo e all’acre odore dello scoppio scorgo due morti, un agonizzante ed un ferito. Uno stokes era esploso nel tubo di lancio facendo tutta quella carneficina.

Dall’altra sponda si erano pure udite voci e colpi, segni certi di combattimento: onde si attesero con maggiore ansia i ritornanti. La pattuglia di destra comandata dal tenente Benedetto Codecasa non si fece attendere molto: dopo circa tre quarti d’ora riapparve tra la nebbia cercando l’approdo: le cinque barche portavano ognuna un viaggiatore di più poichè l’intero presidio del piccolo posto nemico era stato catturato: la sorpresa era riuscita a meraviglia.

La pattuglia di sinistra comandata dal giovanissimo sottotenente Carlo Mella ci torturò con una penosissima attesa. Da più di un’ora e mezzo erano partiti e non si scorgeva segno di ritorno. Che era successo? Il nemico rispondeva con un forte lancio di bombarde che cadevano sulla nostra linea con grande schianto e facevano tremare la terra. Nel recarmi allo scalo di sinistra, essendomi sperduto nei /202/ camminamenti m’incontrai in un ardito, lo fermo e lo prego: «Fai il favore di portarmi dal capitano». E quegli senza guardarmi mi risponde: «Vieni con me». E si voltò per accompagnarmi dalia parte di dove veniva. Non avevamo fatto dieci passi che una bombarda scoppiando sull’orlo del camminamento ci butta a terra ambedue seppellendoci nella polvere: appena rialzati dalla soffice coltre, sento la mia guida che ricomponendosi mi dice: «Tutto per te che non sai la strada, imbecille». M’appresso e prendendolo dolcemente per un orecchio lo guardo in faccia e con un sorriso gli chiedo: «Ma tu sai chi sono io?», il buon ardito restò tanto confuso ed umiliato che non trovava parole per scusarsi e non potei persuaderlo del mio perdono se non offrendogli qualche sigaretta.

Il capitano Fazio, l’on. Gasparotto, Simoni e qualche ufficiale del battaglione stavano attendendo sotto l’intenso tiro delle bombarde nemiche. Quell’attesa impensieriva tutti: si affacciavano all’anima dolorose supposizioni: la speranza si affievoliva. Io mi sentivo stringere il cuore. Avrei voluto aver una barca per tagliare l’acqua e andare a cercare i miei arditi, /203/ e rivolgevo una tacita e fervente preghiera al Signore. Finalmente delle macchie nere si scorgono tra la nebbia: «Le barche.... la pattuglia.... sono essi....» infatti si odono le voci amiche.... approdano e ci raccontano che gli austriaci, avvisati dalle grida emesse in mezzo al fiume da un pontiere colpito, avevano abbandonato per tempo i posti avanzati, poichè per quante perlustrazioni e lunghi appostamenti si fossero fatte non s’era riuscito ad acciuffarne uno.

Fu gran ventura che le due pattuglie fossero rientrate quasi incolumi. Prima di partire sugli autocarri furono distribuiti ad ogni ardito sigari e sigarette che resero più gustosa la festa del ritorno. Ricantavano a squarciagola le nostre canzoni, mentre che i prigionieri austriaci ingoiavano con insaziabile avidità il sano e onesto pane italiano che i nostri ragazzi dimentichi già del pericolo superato e dell’ira che prima li aveva condotti all’assalto, offrivano generosamente.

Dietro alla fila dei camions veniva un’autoambulanza americana in cui avevo dovuto adagiare i nostri due morti e un ferito. Quest’ultimo, un bel ragazzo di diciannove anni, aveva gli occhioni pieni di lacrime per compassione verso i suoi due /204/ poveri compagni di viaggio. Quando arrivammo al cimitero di Roncade feci scaricare le salme. Il becchino, un vecchio borghese dai baffoni spioventi si fece subito avanti e dopo d’aver guardato i due morti già levati sulle barelle, e d’averli presi in consegna, si affacciò alla autoambulanza a osservare la terza, e scorgendo con sorpresa la faccia rossa del giovane ferito gli fece con aria di soddisfatta sorpresa questo poco gradito complimento: «Mi credeva che te fussi morto anca ti».

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Nel gran fuoco.

L’offensiva che nel giugno del millenovecentodiciotto l’Austria iniziò sul Piave secondo i calcoli del comando nemico doveva schiantare l’esercito italiano e abbattere per sempre la nostra dignità nazionale. Pu invece il prologo della nostra vittoria finale.

Contro le orde selvagge che tentavano di avanzare piene di odio antico, di brutale avidità, di selvaggia tracotanza, si schierò tutto il nostro rinnovato esercito e in testa a questo come punte di diamante, come lingue di fiamme potenti a; negli → Errata si suggerisce la corr. potenti da, ma mi sembra preferibile l’originale potenti a struggere anche l’acciaio, stavano i battaglioni d’assalto. Gli arditi della Terza Armata si copersero di gloria.

Da giorni si parlava al battaglione della prossima offensiva nemica e si attendeva con impazienza ansiosa di azzuffarci coll’avversario. Nella notte sul quindici giugno, verso le tre del mattino un insolito /206/ potentissimo bombardamento desta gli arditi: è la sveglia dell’azione. Sotto il più bel cielo stellato si stendeva in lontananza sul fiume tutta una linea di fuochi repentini, e qua e là per le campagne più prossime gli scoppi sanguigni dei grossi calibri battevano le retrovie. Il tambureggiamento assordava e l’aria era tutta pregna di acre odore di gas. Gli arditi scamiciati sulla soglia e dalle finestre dell’accantonamento di Biancade annusavano l’aria e si scambiavano motti e frizzi allegramente.

Alle sei il battaglione forte di diciotto ufficiali e di circa cinquecento uomini riceve l’ordine di portarsi verso la linea nei pressi di Madonna del Vallio. Là rimane, disteso in un prato, sin verso sera, cantando e attendendo con impazienza. Finalmente arrivarono i camions che li trasportarono a Cascina Olivotto sulla strada che da San Pietro Novello va a Zenzon. Là il capitano diè l’ordine di muovere all’attacco dell’argine di San Marco ove gli austriaci avevano costituito la nuova linea. Si trattava di prenderli sul fianco inferiore di un cuneo, spintosi innanzi, per poi batterli sul rovescio, tagliandone fuori la punta avanzata. Il battaglione aveva a destra e a sinistra i fanti eroici della /207/ brigata Ferrara. Era sull’imbrunire e le tre compagnie per strade diverse si portavano cautamente dietro le siepi contro l’avversario. Questi pur troppo si accorse del movimento e iniziò un vasto e intenso tiro per sbarrare la strada. Le granate scoppiavano dappertutto, nei fossi e sulla via minacciando di scompaginare le file pronte all’attacco. Fu allora che per rinsaldare il cuore degli arditi sotto la pioggia di piombo e di scheggio il tenente Piero Fadigati, giovane simpaticissimo, dagli occhi sfavillanti e dalla magnetica intelligenza, diede l’attenti a due plotoni di punta, mantenendoli per dieci minuti in tale posizione: attenti che poi divenne tanto famoso nell’allegra brigata degli ufficiali.

Giunti a tiro delle difese nemiche con un tremendo «Savoia» si sferra l’attacco: volano i petardi, volano gli arditi: il nemico risponde con secche e formidabili raffiche di mitraglia. L’assalto sale sino sotto l’argine di San Marco, ma là si infrange: i reticolati distesi dai nostri in antecedenza, il violento tiro delle mitragliatrici foltissime che di fronte e ai fianchi falciano senza interruzione, e sopratutto il gravissimo numero dei perduti è /208/ la vera causa dell’arresto. Più che centocinquanta uomini di truppa con dieci ufficiali erano stati messi fuori di combattimento in meno d’un quarto d’ora. In capo al battaglione venne gravemente ferito il capitano Vivaldi Pasqua mentre gli cadeva morto al fianco l’aiutante maggiore, il tenente Umberto Malagoli, giovane amabile ricco di brio, di speranze e d’ardire. Fadigati fu pure ferito ma continuò a combattere fino al mattino. Nucci, Novelli, Brunelleschi, Perina, Di Sarno dovettero ritirarsi con le membra insanguinate. Piero Pegna, il piccolo Pegna che dall’Egitto aveva voluto portare il suo cuore e il suo braccio alla nostra grande causa, colpito in una gamba, non potendo trascinarsi avanti ripetè: «arditi ho fatto il mio dovere, compite il vostro», finchè una scheggia di granata gli trapassa il cranio. Ottaviano Colzi, fresca anima gentile in un corpo di gigante, stava in capo alla sua compagnia distesa tra le erbe a pochi passi dagli ungheresi; negli → Errata si suggerisce la corr. dai nemici dagli ungheresi che urlavano; «Bono taliano, arrendetevi». Egli s’alzò tutto in piedi in mezzo alle pallottole sibillanti e gridò: «Arrendetevi voi, vi tratteremo bene, arrendetevi». E quegli risposero cupamente: «Ci arrendiamo». Il tenente /209/ mandò una pattuglia sul fianco gridando ai soldati: «Si arrendono, si arrendono, non sparate». Intanto i nemici lanciarono un razzo che fiorì nell’aria cupa scoprendo la bella figura di Colzi ritto tra i giunchi lucicanti di pioggia: si udì una fucilata nemica e si vide il tenente portarsi una mano al petto e cadere supino. Ebbe ancora forza per dire: «Ah, mamma mia, me l’avevi detto ch’ero venuto tra gli arditi per farmi ammazzare». Fiera e nobile figura, vittima del proprio entusiasmo e della perfida slealtà degli eterni barbari.

Colla partenza del capitano Vivaldi prendeva il comando del battaglione il capitano Giuseppe Costa, già titolare della seconda compagnia. È un ardito per natura: bell’aspetto, gesto nervoso, occhi vibranti. Spirito irrequieto, abborrente delle mediocrità è sempre andato in cerca di tutte le più ardite specialità dei corpi combattenti: dalla cavalleria a cui era effettivo passò in aviazione, dall’aviazione ai bombardieri, dai bombardieri al battaglione d’assalto. Molti nastrini azzurri brillano sul suo petto. Coi dipendenti è d’una severità che ha tutta l’aria di quella che si usava nella caserma avanti la guerra: ma /210/ gli arditi lo sanno ragionevole e giusto sino allo scrupolo, perciò lo amano.

Primo compito del nuovo capitano fu di stendere una linea di resistenza la quale era nient’altro che un fosso pieno d’acqua, in cui si passò tutta la giornata: piovigginava e gli uomini stremati di numero stavano distesi nel fango e nell’acqua sino alla cintola. I tiri del nemico avevano raggiunto una spaventevole precisione. V’era un giovane ardito, uno di quei volontari di guerra che non ismentiscono mai il sacro entusiasmo dei primi giorni, che si faceva notare per la vigile costanza, tutta piemontese, colla quale stava di vedetta sin dalla notte scorsa. Si chiamava Rosso Giovanni ed era nato a Demonte di Cuneo senza aver avuto la fortuna di conoscere i genitori. Una scheggia di granata lo colpisce gravemente alla nuca: cade tra le braccia dei compagni mentre il sangue fila copioso attraverso ai suoi neri capelli. Appena ritorna in sè stringe le mani dei compagni, sorride, e coll’estreme forze prende a cantare:

Va fuori d’Italia,
Va fuori ch’è l’ora,
Va fuori, atranier.

/211/ A notte dopo d’aver sostenuto con successo un violentissimo attacco venne l’ordine di occupare il retrostante caposaldo di Villa Premuda, contro cui si infransero ininterrotti assalti nemici; in uno dei quali rimase pure ferito il capitano Costa. Gli succedette il capitano Pagani e dopo poche ore venne pure colpito e trasmise al tenente Guido Bocaccini l’aspro compito di guidare i pochi superstiti. Altri ufficiali, Nericci, Troja, Clerici, con un centinaio di soldati avevan dovuto lasciare le ormai stremate file del reparto, al secondo giorno di combattimento. Così si passò ancora il diciassette e parte del diciotto giugno, in ondeggiamenti continui in cui si svigorivano i primi e più possenti urti del nemico. A dispetto delle veglie senza tregua, del vento e della pioggia, della mancanza di vettovagliamento, a dispetto delle continue perdite, la diga mobile del reparto d’assalto si mantenne compatta e non permise al nemico alcuna infiltrazione nè alcun straripamento. Stremati di numero ma sempre arditi i pochi superstiti furono richiamati all’accantonamento di Biancade per riorganizzarsi e prepararsi a nuovi cimenti.

I quali non si fecero attendere a lungo; /212/ dopo quattro giorni gli arditi correvano nuovamente in linea per inseguire il nemico e gettare per primi sulle rive del Piave il grido della grande vittoria.

Dopo dieci giorni il reparto è nuovamente lanciato sul campo. Il capitano Costa era rientrato dall’ospedale colla ferita ancora aperta: molti arditi l’avevano seguito nelle stesse condizioni, in modo che il battaglione, senza aver avuti nuovi complementi, constava di sei ufficiali e trecentocinquanta uomini.

L’ordine di movimento fu ricevuto alla mensa degli ufficiali tra gli urrà e i brindisi dei pochi ma fieri commensali: un’ora dopo si partiva in autocarri verso il basso Piave. Solite canzoni, solita allegria tra gli arditi come se fosse truppa fresca, dopo qualche mese di riposo. Arrivarono al ventitreesimo Corpo d’Armata ove stavano gli altri battaglioni: di quattro che erano prima, ora poterono a mala pena formare un reparto regolare; ma erano pochi che valevano per molti, tutti veterani coperti di gloria.

Il capitano Costa mosse per primo all’attacco dell’obbiettivo principale dell’azione cioè di Cà del Bosco. Si lanciò con circa ottanta arditi sotto le ultime traiet- /213/ torie dei nostri proiettili; così riuscì a snidare più che trecento uomini e ad asportare dal caposaldo nemico quattordici mitragliatrici, cinque bombarde e altro materiale.

Gli arditi del ventottesimo reparto non si smentirono!

/214/

L’ultimo giorno.

Nella regione del Montello l’armata interalleata aveva passato il Piave e liberato parecchi paesi; era venuta l’ora di azione anche per la Terza Armata. Da tre giorni mi trovavo sulla sponda sinistra del fiume di fronte alle Grave di Papadopoli con l’undicesimo reparto d’assalto che formava l’estrema destra dell’armata internazionale. Lasciai quel magnifico battaglione colla promessa di ritornarvi presto, e mi portai al Comando della Terza Armata per avere indicazioni precise sulla dislocazione degli altri reparti; poi mi portai nella trincea dove stava appostato il ventottesimo battaglione. Vi giunsi verso le quattro del mattino del giorno trenta ottobre e il capitano Costa con l’aiutante maggiore si avviavano alle compagnie sonnecchianti nelle trincee di partenza. Nei pochi giorni che il battaglione era stato in linea aveva subito numerose perdite: di fronte stava /215/ un nemico ben munito e ancor aggressivo, onde gli ufficiali nostri mi parvero assai perplessi sull’esito dell’azione. Cercai di sollevarli a migliori speranze col racconto delle belle vittorie cui avevo assistito nei giorni precedenti.

È bene che tutti in Italia e fuori sappiano che l’ultima vittoria non si ottenne su un nemico o fiacco o fuggiasco: se è vero che negli ultimi giorni l’esercito austriaco scompaginato arretrò, nei primi sostenne con vigoria feroce l’impeto dei nostri assalti, si oppose ad essi in ogni modo, violentemente contrattaccando: la vittoria fu bella perchè fu dura.

Il racconto di ciò che io vidi in quella memoranda giornata del trenta ottobre è una piccola onesta testimonianza di questa verità. I fatti ai quali fui presente sono presso a poco simili a tutti quelli che avvennero su tutta la vasta linea di attacco. Dal Trentino al mare in quei giorni non ci fu che mirabile valore.

Alle cinque precise ebbe inizio il bombardamento; ma a dire il vero non era così nutrito come l’avremmo desiderato. Alle sei si dovevano varare le imbarcazioni e traghettare, ma il fuoco di reazione delle bombarde e mitragliatrici nemiche /216/ sulle nostre linee protrasse di oltre mezz’ora l’operazione: di modo che si scopersero all’alba i tre scali da cui doveva partire ciacuna compagnia del reparto. Parecchi ufficiali e soldati furono presi sotto quei tiri fatalmente aggiustati; il tenente Novelli fu colpito mentre con attivissimo ardire spingeva i pontieri al varo. Là pure fu ferito il capitano Petri.

Traghettai col capitano Cosca nella imbarcazione di mezzo: la nostra barca passò tra le colonne d’acqua sollevate dalle bombarde nemiche che scoppiavano nel fiume. Quando fummo al di là, un fischio del capitano raccolse la compagnia. Un nugolo di petardi vola dalle mani e cade sull’argine, ove d’un solo sbalzo arrivano gli arditi sorprendendo gli austriaci che gettano le armi e alzano le braccia. Alcuni, trincerati nei baracchini tentano una inutile disperata difesa; petardi e lanciafiamme li riducono all’impotenza. La prima compagnia occupa la trincea avversaria: appena abbiamo tempo di fare la constatazione gloriosa, un sorriso ci sale sul labbro e nel cuore si distende una soddisfazione così larga e profonda che non ci pareva potersene godere delle migliori nella vita. V’erano sui fianchi parecchie /217/ mitragliatrici avversarie che vomitavano piombo e le pallottole ci fischiavano alle orecchie ma non turbavano in noi la certezza del possesso della trincea. Intanto si avanza leggermente a pattuglie; dalle erbe selvaggie e dalle foglie ormai ingiallite dei gelsi si sollevavano lievi vapori che i primi raggi del sole andavano sciogliendo nell’aria: le ombre caute degli arditi strisciavano. Si udiva nel grande silenzio cadere dai rami toccati la brina notturna.

Occupata la strada che corre parallela all’argine da Romanziol a Sabionera, ci fermiamo nel fosso dove distribuisco un po’ di sigarette.

Le pallottole fischiano ancora basse basse sul nostro capo, ma noi continuavamo a discorrere sotto voce, con grande allegria, consumando le buone macedonia. Cerchiamo il collegamento delle estremità colle compagnie che avrebbero dovuto trovarsi sui nostri fianchi. Sulla destra ci aveva raggiunto la seconda, ma ohimè! in quali condizioni: aveva perduto tutti gli ufficiali e buona parte della truppa. Il tenente Nadalini, il gentile e delicato bolognese è morto! Pure il tenente Priano, l’artista dall’anima infantile ha lasciato il suo gran corpo colle membra che parevano model- /218/ late da Michelangelo davanti ad un nido di mitragliatrici. Il padre del Priano, cui la guerra aveva strappato gli altri due figli, ci aveva chiesto qualche giorno avanti notizie dell’unico sopravvivente, e la nostra lettera scritta prima del trenta per rassicurarlo sulla sorte del figlio gli giunse dopo il triste fatto. Egli, ignaro della disgrazia, ci ringraziò con parole che ci fecero piangere.

Più triste era la condizione della compagnia di sinistra. Invano io la cercai fra le macchie che stavano da quella parte: ci rimisi il mio povero attendente che spintosi dieci passi più avanti di me fu portato via dagli austriaci colà appiattati, lasciandomi tutt’ora incerto sulla sorte sua.

Invitato dal comandante del reparto a seguirlo, riprendemmo da soli a percorrere la via che avevamo fatta nell’avanzata, dirigendoci all’argine: ma un gruppo di austriaci che avevano notato il nostro movimento, alla distanza di trecento metri fece una scarica di fucileria: ci buttiamo a terra e dopo poco ci rialziamo, ma non facciamo che pochi passi che sentiamo nuovi colpi più vicini. Ci stendiamo nuovamente: il capitano riesce a malapena a trovare nel fondo delle tasche due petardi, buoni per /219/ una difesa disperata. Per nostra fortuna incontriamo un ardito dal quale egli si fa prestare il moschetto che scarica contro i disturbatori. Possiamo fare ancora alcuni passi, ma costretti nuovamente a rifugiarci in un fosso, teniamo nuovamente lontani gli assalitori con alcune moschettate. Così, sparacchiando a vicenda, con altre due o tre tappe raggiungiamo l’argine e andiamo a trovare i resti della terza compagnia che stavano aggrappati ai giunchi del greto del fiume. Essendo riuscito vano l’attacco contro le mitragliatrici appostate sull’argine, erano stati ributtati lasciando disseminati pel terreno morti e feriti: non vi rimaneva che un solo ufficiale, il tenente Zaccarini, e anch’esso contuso.

Là potei consolare molti feriti e curare il traghetto dei più gravi i quali passarono fra le granate e le bombarde che il nemico non si stancava di gettare contro gli approdi. Allora solo ci rendemmo conto della gravità della situazione. Le due ali nemiche non avevano ceduto, anzi si erano rafforzate di mitragliatrici che spazzavano a ventaglio: le nostre due compagnie avanzate potevano, a tutto agio del nemico, essere chiuse fra le due formidabili prese della morsa e venire attaccate da tutte le /220/ parti. Infatti, bersagliate di bombarde e mitraglia, dovettero abbandonare le posizioni sulle quali le avevamo lasciate: parte si spinse avanti col tenente Fulmini e parte ritornò all’argine.

Dopo alcune ore di consiglio col comandante di un reggimento che allora tentava il traghetto, ci fu ordinato di raggiungere e ristabilire la linea occupata nel mattino. Con un cenno raccogliamo le fiamme nere, risaliamo l’argine e in fila indiana ritorniamo nel fosso di dove eravamo partiti. Degli ufficiali non v’era rimasto che il comandante e il cappellano: degli altri si sapeva solo che erano feriti o morti. Un ardito mi offrì una scatoletta di carne e un pezzo di galletta che divisi col capitano bevendoci sopra un sorso di acqua fangosa. Il capitano col suo berrettino in capo, senza elmetto, conservava la solita allegria.

Con qualche ardito ci spingemmo avanti cautamente, senza trovare collegamento con quelli che avevano seguito il tenente Fulmini. Incontrai invece fra le macerie di una casa un soldato dalle gambe spezzate, il quale, appena mi vide, voleva consegnarmi il portafoglio pregandomi di farlo pervenire alla famiglia: accettava la morte /221/ con la rassegnazione di un santo, ma io lo persuasi a lasciarsi trasportare. Adagiato su un asse lo portammo per un pezzo, ma quando mi allontanai per cercare un laccio onde arrestargli l’emorragia, fu tale una scarica di granate attorno a quell’infelice che il violento spostamento d’aria lo uccise.

La nuova linea venne fatta segno a un bombardamento feroce: il capitano diè ordine di retrocedere di quindici passi: ma il nemico pure ci veniva col tiro rendendo impossibile ogni ulteriore occupazione. Allora ci toccò retrocedere all’argine. Quando all’ordine del comandante gli arditi si alzarono, si udì il gracidio sordo delle mitragliatrici che da quattro parti, davanti e di dietro falciavano tutto il campo. Vidi un uomo che ci rincorreva di dietro alzando le mani: i soldati mormorano «un austriaco». Io lo guardo attentamente e vedendogli il viso insanguinato, mi fermo: era un ardito contuso e sfigurato che a mala pena era uscito di sotto alla terra in cui l’aveva immerso una bombarda. Un pietoso compagno mi aiuta a strascinarlo fino all’argine, ma là giunto, anche questi viene colpito da una pallottola esplosiva che gli lacera orribilmente una coscia. I /222/ quel mentre scorgo degli austriaci alzarsi, agitare le braccia da quel punto dell’argine dove essi avevano costituito il loro caposaldo di destra. «Si arrendono, si arrendono», gridano gli arditi e si lanciano in massa verso quella parte. Ma gli austriaci di tratto scompaiono e fanno scattare le mitragliatrici contro la massa dei soldati che avevano creduto all’orribile inganno. Mi assicurarono poi molti feriti nostri che quei crudeli traditori d’ogni legge si alzarono nuovamente sulla trincea a sghignazzare contro i lamenti degl’italiani.

Vi sono dei momenti tragici in cui anche l’anima dell’ardito si sente scossa. In quel punto io mi vidi perduto, e avrei preferito la morte piuttosto che assistere a tutto quello strazio della nostra carne sanguinante. Bisognerebbe non avere amato con cuore di fratello per assistere ai patimenti atroci di questi ammirabili giovani pronti ad ogni immolazione, ubbidienti sino alla morte, senza sentirsi l’anima divisa da una profonda ferita che non si chiuderà mai, campassi anche mille anni! Il cielo mi sorresse e mi diè la forza di compire la mia amara giornata!

Sull’imbrunire traghettai il Piave e corsi a vedere il medico tenente Pagani, il quale /223/ pure aveva avuto il suo lavoro! Ritornai più tardi sul campo e colla guida amorosa di un bravo ardito genovese potei rintracciare il battaglione disteso in giro alle posizioni del giorno. Quei bravi arditi che avevano passato l’intera giornata in mezzo ai più aspri pericoli e che allora riposavano accosciati in un fosso e facevano il turno di vedetta a stomaco vuoto, colle membra irrigidite dall’umida brezza notturna, mi commossero fino alle lacrime! Quanto sono buoni e cari questi giovani figli d’Italia, ardenti come il fuoco e pure in fondo dolci come bambini! Con gran piacere salutai il tenente Fulmini che senza giubba batteva i denti; alcuni ungheresi l’avevano afferrato per il colletto ed egli lasciò loro la giubba tra le mani e si aprì la via col pugnale.

La notte calma e stellata in cielo, fu pure tranquilla in terra: non si udì una fucilata.

Il nemico aveva fortemente reagito il giorno innanzi per prepararsi la fuga notturna. Infatti al mattino il battaglione in capo alle brigate prese la rincorsa verso la Livenza. Gli arditi avevano le ali ai piedi.

Arrivai con una pattuglia di punta nel /224/ paese di Cavalier: la popolazione ci corse incontro piangendo ed abbracciandoci, e malediceva ai barbari oppressori raccontando più colle lacrime che colle parole le infinite sofferenze. Nel fondo del tascapane ritrovai qualche pezzo di cioccolata pei bambini, qualche mezzo toscano per gli uomini. Un ardito innalzò il tricolore sul campanile di dove tutto il giorno avanti avevan cantato le mitragliatrici austriache. Il parroco era assente, ma la buona perpetua, tutta festosa a noi, e tutta ingiurie per quei «fioi de cani» che le avevano insozzata la casa, mi trovò un bicchier di vino, una fetta di polenta, e una coscia di pollo sfuggita alle ultime requisizioni degli ungheresi: ecco un banchetto che in quel momento mi parve di proporzioni omeriche.

/225/

I nostri eroi.

Non credo di terminare meglio questi cenni sul 28.° Battaglione d’Assalto, che volgendo il pensiero ai suoi morti. Il battaglione li onorava di un culto fatto di riconoscenza e di tenerezza. Più volte, contravvenendo arditamente a tutte le disposizioni sanitarie, di notte ed anche in pieno giorno siamo andati a dissotterrare le spoglie dei nostri cari compagni per trasportarle in un cimitero ove avessero potuto dormire in una bella tomba scavata e vigilata dai loro compagni.

La commemorazione dei caduti del giugno e del luglio fu una delle più belle cerimonie compiute dal battaglione.

Al principio d’agosto chiesi al capitano Costa di celebrare la santa messa in suffragio dei nostri caduti, ed egli mi fu grato del pensiero.

«È bene, egli mi disse, che gli arditi /226/ sappiano che se dovremo morire ci sarà chi ci ricorderà.»

Nel campo d’istruzione di Biancade s’alzò un bell’altare pavesato di bandiere, attorniato di armi tolte al nemico. Presenziava tutto il battaglione. Il colonnello Pavone direttore dei reparti, una rappresentanza del Corpo d’Armata cogli americani della Croce Rossa. Celebrata la Messa dissi alcune parole invocando da Dio la pace e la gloria ai nostri eroi, e dagli arditi l’imitazione delle loro generose virtù.

Non meno commovente fu la cerimonia che pei morti dell’ottobre e per tutti gli altri celebrammo nella chiesa delle Frasche presso Adelsberg, alla fine del dicembre scorso. Intervennero tutti i borghesi del paese. Dopo il santo sacrifizio così presi a parlare: «Signori, signori ufficiali, fiamme nere! È cosa degna di voi, o arditi, e degli eroi che oggi ricordate la presente commemorazione. Le vie di gloria che il nostro battaglione ha percorso sono tutte seminate di tombe sopra le quali leggete i nomi dei vostri compagni, nomi di ufficiali noti a tutti per la loro bravura, per la mente, per il cuore, per il fegato da arditi, e nomi oscuri di poveri soldati conosciuti appena dai com- /227/ pagni di plotone, ma degni d’essere conosciuti in tutta Italia, in tutto il mondo, per il sacrifizio grandioso che essi rappresentano. Tutti i cimiteri del Piave narrano la storia sanguinosa del 28.° battaglione, ma tra le zolle di Romanziol sta scritta la nostra pagina più gloriosa, canta più forte la voce della nostra gloria dalle cinquanta tombe dei nostri ultimi morti.

«Il sacrifizio col quale essi hanno pagato la gloria del reparto, la redenzione del Veneto, la vittoria della Patria, la liberazione della Umanità reclama la nostra riconoscenza. Arditi dalle fiamme nere! Non lacrime, non fiori, i morti vogliono da voi, che siete uomini e non donne, arditi e non fanciulli. La vostra riconoscenza sia fatta di preghiere affinchè Iddio apra a tutti i nostri fratelli i regni luminosi della sua sempiterna felicita: ma sopratutto, invocate su di loro la benignità Divina coll’imitazione delle grandi virtù che essi ci hanno lasciato. Sono caduti da arditi col petto aperto rivolto al nemico, volando con coscienza al sacrifizio. La guerra è ormai finita; nessuno di voi deve più ora affrontare una morte eroica sul campo di battaglia. /228/ Ma altri campi vi attendono, o fiore delle truppe scelte: dovrete mostrare ancora molte volte nella vita quello che siete: vecchi arditi del Piave. La disfatta completa dell’egoismo innato in ogni uomo, la guerra quotidiana ai brutali e vani capricci che vorrebbero soffocare i più nobili ideali, l’ascensione verso orizzonti più puri e più santi, ecco il vostro compito, i vostri sacrifici. Siate forti al pari di chi affrontò sorridendo la morte al vostro fianco; siate ancora domani e sempre i veri arditi di ogni santa causa».

Ad ultima conferma dell’eroismo dei morti e dei vivi del 28.° Reparto valga il seguente ordine del giorno col quale il comandante del Corpo d’Armata dava l’addio al Battaglione destinato al presidio della città di Fiume.

Ordine del giorno N.° 116 — 9 dicembre 1918,

Il 28.° Battaglione d’Assalto lascia il Corpo d’Armata per altra destinazione.

Al fiero Battaglione, figlio di tutti i Reggimenti del Corpo d’Armata, perchè tutti contribuirono alla sua nascita ed alla sua esistenza, invio il mio saluto e quello delle truppe dipendenti.

Mi è grato ricordare in questo mo- /229/ mento le belle pagine di valore scritte dal Battaglione presso l’ansa di Zenson nelle memorande giornate di giugno; il contributo di invitto slancio portato successivamente nel luglio – ancora grondante ma non domo dalle gloriose ferite – nella conquista del terreno fra i due Piave; infine lo slancio dimostrato nell’infrangere per primo il Piave nell’ansa di Romanziol all’alba del 30 ottobre, lasciando sulle rive del sacro Fiume – testimoni dell’immenso amore alla Grande Patria – gran numero di caduti.

I compagni di quelle ore memorande non dimenticheranno i valorosi arditi del 28.° Battaglione d’Assalto.

Il Ten. Generale
Comandante del Corpo d’Armata

f.to Croce.

Nota del curatore

Luigi Gasparotto 1873 - 1954. Nato da una famiglia friulana di tradizioni garibaldine, nel 1897 si laureò in diritto internazionale con una tesi su Il principio di nazionalità nella sociologia e nel diritto internazionale. Aderente alla massoneria e vicino alle posizioni radicali, fu oppositore di Giolitti, e criticò l’impresa di Libia. Nel 1913 fu eletto al Parlamento. Interventista, allo scoppio della guerra partì volontario; ebbe tre medaglie d’argento, una di bronzo e due croci di guerra, oltre alla Legion d’Onore francese e alla promozione al grado di tenente per meriti sul campo. Fondò nel 1919 l’Opera Nazionale Combattenti, e presentò una proposta di legge per il suffragio femminile, proposta decaduta per la chiusura anticipata della legislatura a seguito dell’impresa fiumana. Fu rieletto alla Camera in piccole formazioni di ispirazione democratico-progressista. Nel 1921 fu ministro della Guerra con il governo Bonomi, e promosse la celebrazione del Milite Ignoto. In un primo tempo fu fiancheggiatore del fascismo, ma se ne staccò dopo il delitto Matteotti, pur non aderendo all’Aventino, e nel 1925 votò contro le leggi eccezionali. Nel 1928 lasciò la vita politica. Nel 1942 si avvicinò agli ambienti antifascisti, e dopo l’8 settembre tentò di organizzare la difesa di Milano contro l’occupazione tedesca. Ricercato dai nazisti, si rifugiò in Svizzera, da dove sostenne l’azione della Resistenza. Rientrò Italia nel 1944. Eletto alla Costituente nel gruppo di Democrazia Sociale, fu ministro della Difesa nel primo governo De Gasperi. Nel 1948 fu nominato → senatore di diritto.
Il figlio Leopolodo, comandante delle formazioni partigiane di Giustizia e Libertà, fu ucciso a Fossoli nel 1944, ed è medaglia d’oro della guerra di Liberazione. [Torna al testo ]