Reginaldo Giuliani O. P.
Per Cristo e per la Patria

/203/

L’azione

I

Il primo balzo

(7 ottobre 1935-XIII)

Al Corpo d’Armata Indigeni, cui appartiene il Gruppo dei nostri Battaglioni, fu affidato un compito preponderante, benché non appariscente, nel primo balzo sulle frontiere dell’Impero etiopico. Un triangolo tattico doveva conficcarsi nel colosso: i due corpi d’armata nazionali, marciami su Adigrat e su Adua, dovevano venire garantiti da una puntata verticale che, procedendo quasi ad eguale distanza dall’uno e dall’altro, li collegasse e spezzasse le comunicazioni nemiche, tendenti ad eventuali concentramenti. La nostra colonna si trovò, perciò, di fronte principalmente ad un nemico singolare, forgiato non con forze umane, ma dalla stessa natura. Si trattava di aprire una strada fra monti aspri, dirupi, profonde vallate, strada che, in antecedenza, non era stata segnata che dalle carovane rare dei contrabbandieri. Ma la genialità tattica dei nostri comandi e la volontà inflessibile di queste meravigliose truppe superò ogni ostacolo e gli ottanta chilometri impervi sono stati /204/ segnati dai tacchi solidi e pur volanti delle Camicie Nere, le quali ora dominano i colli sovrastanti alla vallata magnifica dell’Entisciò e si riassettano per nuovi balzi, anelanti a più aspri incontri.

I Battaglioni lasciarono la collina di Mai Ainì al primo mattino del giorno 2 ottobre. In un mesetto di permanenza in quella deliziosa posizione dominata dall’Amba Tochillè (pietra aguzza levata contro il cielo come una saetta) allietata dal fiume che corre ai suoi fianchi, gl’industri militi si erano creati più di una comodità. Come per incanto, la brughiera era scomparsa sotto un sormontarsi di terrazze rette da muri a secco, sotto un’artistica rete di viali e giardinetti coronanti gli attendamenti: il tutto compreso fra due poggi dominati l’uno dalla villetta del signor generale, l’altro dallo spiazzo della bandiera e dalla graziosa cappelletta, arieggiante con la cuspide, alle nostre chiesette alpine. Era questo l’ultimo nido, curato con agio e con estetica, da quel paziente artista che è il Milite. Ma il milite ogni giorno levava lo sguardo ai lontani monti di Adua e tendeva verso quella mèta lontana il suo spirito, come l’uccello si libra dal nido.

E il giorno sospirato come una festa spuntò finalmente! Brevi i preparativi; subitanea fu la partenza. A turno i Battaglioni sfilarono davanti ai piccoli presidi di artiglieria del forte De Amicis /205/ che presentavano le armi e invidiavano la sorte dei partenti. Si infilò la valle dei Leopardi, per la strada da pochi giorni aperta dai nostri Battaglioni e si scese nella pianura dell’Aramê. I più che tremila uomini, ordinati e compatti nella magnifica colonna, guidati dai comandanti montati sui muletti, seguiti dalle salmerie, iniziarono la marcia che ebbe per prima tappa il luogo di Mai Atal, dove si passò l’intero pomeriggio e la notte susseguente. Sopraggiunsero intanto i carri veloci ed altri reparti motorizzati, fra gli evviva delle truppe; questi mezzi carreggiati non poterono poi intraprendere la nostra strada impervia, tuttavia ci han dato una maggiore e più entusiastica comprensione della solennità del momento.

Le nostre pattuglie già avevano perlustrato ambe le sponde del Belesa, che segna perfettamente il confine: vi avevano segnato il guado pel mattino seguente, e avevano notato che le vedette nemiche, avvistato il nostro avvicinarsi, eroicamente si erano decise alla ritirata. L’onore di varcare i confini dell’Impero etiopico fu riservato al Terzo Battaglione, «il Battaglion Romano» come dice l’Inno ufficiale, composto dal nostro poeta, il centurione Baldi. Il Battaglione Romano capeggiato dal Comandante, seniore Gigli, armato di spirito e di moschetto, accompagnato dal Cappellano e dalle salmerie, precedette tutto il Gruppo che per guado /206/ si buttò attraverso all’immensa brughiera fluviale, con le mani irrigidite sui moschetti e i cuori in delirio. Gli occhi illuminati dall’aurora luccicavano di commozione e di ardire: tutta la forza di Roma conquistatrice, tutta la volontà del Duce pareva serrata nelle nostre mascelle.

Qualche ora dopo, si allacciavano i collegamenti con le colonne di destra, e venivamo raggiunti dal veloce squadrone della Cavalleria Indigena, destinata quale pattuglia volante alla testa della nostra colonna.

Il cielo intanto veniva solcato da velivoli, coi quali intrecciammo frequenti comunicazioni tattiche. Si camminò tutta la mattina, tutto il giorno per terreni diversi, ma sempre aridi e privi di acqua. Circa quarantadue chilometri furono percorsi in quel giorno dalla interminabile colonna. La fame e più la sete torturarono molti. La stanchezza parve in certi momenti toccare il colmo per i più deboli, che si abbattevano sui margini del cammino, confortati più dalle parole che altrimenti dai compagni. È necessario che l’Italia sappia di quali sofferenze è materiata questa nostra corsa africana: a noi basta aver la coscienza di cementare con le nostre privazioni, quella vera grandezza di Roma Imperiale, che non può venir costruita dalle verbosità dei gaudenti; ma solamente dal sacrifizio dei forti. Legge divina e legge di natura vuole che la vera gloria, individuale o sociale, sorga, come il sole, da un’alba arrossata.

A sera, dopo la corsa tra foreste, per salite ripide da cui rotolaron muli e carri, su greti di sec- /207/ chi torrenti, sondati per ritrarvi un cucchiaio d’acqua, eccoci in una stretta gola apprestata lestamente a difesa per la sosta notturna. Nel centro prende posto il nostro attivissimo Generale: i Battaglioni si assidono all’intorno: nell’oscurità circondati dalle vigili pattuglie ciascuno si accomoda sulla nuda terra.

Passano le brevi ore di riposo e prima dell’alba si è di bel nuovo in piedi, pronti un’altra volta a serrare le file. Ma un grido di gioia presto irrompe: «Mai! Mai!» («Acqua! Acqua!»). Vi è acqua abbondante per la nostra sete e per quella non meno interessante dei nostri muletti. Ecco un fiumicello e più avanti un altro più grande, dalle acque limpide e sonanti, quasi di torrente alpino. Quale refrigerio! Ciascuno è rifatto e rifornito: le borracce sono piene e piene ancora molte gavette di militi: l’esperienza insegnò a tutti che l’acqua non è mai troppa, sotto il rabbioso sole equatoriale, come mai troppe sono le coperte nelle notti africane.

E si continuò a correre: tre giorni di marcia continua, interrotta solo dalle necessità tattiche, dalle misure prudenziali contro gli agguati delle bande armate, dalle necessità del brevissimo riposo.

Meravigliosi si mostrarono i muletti abissini di cui son fornite le nostre salmerie, ma più meravigliosi i militi che, al termine di queste faticose giornate, sono freschi e pronti ad ogni evento.

Alla sera della terza giornata, era necessario avventurare un pattuglione dentro una vicina valle /208/ per rintuzzare una banda di quattrocento armati, che, secondo le informazioni del nostro spionaggio, aveva cattive intenzioni contro di noi. Tutto un battaglione, il secondo, guidato dal bravo seniore Valcarenghi, si mise in marcia: tutto dico, compresi gli scritturali, che affidarono la cassa del Battaglione alla custodia dei salmeristi per correre anch’essi all’impresa, freschi e arditi come i compagni, quasi che a nessuno pesassero gli ottanta chilometri appena ingollati.

Immagini tra le pagg. 208 e 209
Chiesetta di Adi Caieh

La costruzione della Chiesetta di Adi-Caieh

quadri di san Giovanni Bosco e della Madonna del Rosario

I due quadri di san Giovanni Bosco e della Madonna del Rosario con san Domenico, dipinti da una Camicia Nera per la Chiesetta di Adi-Caieh

Morettini manovali

I morettini.... manovali per la costruzione della Chiesetta di Adi-Caieh

Chiesetta di Mai Aïni

Chiesetta costruita a Mai Aïni (Settembre 1935-XIII)

Ed ora, ecco i nostri Battaglioni aggrappati alle creste che circondano il crocevia delle carovaniere tra Adua e Adigrat. Il Comando del Gruppo ha preso posizione su una vetta che si protende sopra la valle e fa arditamente sventolare il tricolore. Commovente fu il momento in cui issammo la bandiera: era la domenica prima di ottobre circa alle ore 17, quando per i paesi italiani si snoda la processione della Madonna del Rosario, in ricordo della vittoria riportata dai Cristiani a Lepanto. E qua sul monte, il sacerdote aveva recato il tricolore, che ora saliva sotto il cielo africano per forza delle baionette: e il sole che baciava il tricolore dava pure barbagli all’argentea Croce arabescata, retta dalle mani di un càscì1 strabiliato. Nel breve spazio terminale della vetta, sorgono le piccole tende /209/ del Comando circondate da una selva di telefoni e apparati ottici e radiotelegrafici, disposti e vigilati, perfettamente come sempre, dal capo manipolo Piero Morglia. Questo punto strategico collegato con tanti mezzi celeri a tutti i reparti è come il cervello del corpo, che si stende a vista d’occhio.

Ampio è il panorama. In lontananza scorgiamo ancora l’Amba Terica e la solenne Amba Gheââ (o gran casa) che torreggiano fra le brume, quali cattedrali ciclopiche. Sul fianco, ecco le vette che incoronano Adua, quasi sultana vegliata da giganti. Di queste vette, ne conto circa una trentina o isolate come il famoso dito di Adua o a face, quasi tutte tondeggianti al pari di coni e di colonne, grigie di colore, contrastanti con lo smeraldo, che le recenti piogge hanno disteso a valle.

Quando cinquant’anni or sono Ras Mangascià giungeva a questi monti, portando nelle orecchie l’irrisione incitativa di Menelik: «Vuoi essere Re? Devi riconquistarti il regno!», questi monti parvero far pregustare al giovane e lascivo principe, la vittoria sugli odiati stranieri, ma oggi il valore del Re d’Italia, l’ordine del Duce hanno commosso anche i giganti di pietra e noi sentiamo un’altra voce ben diversa che lingueggia dalle vette e dai fianchi dei monti abbandonati per sempre dal vile Ras Sejum e questa voce ci spinge avanti a seguitare la conquista mentre affidiamo sicuri alla Patria la gloria di Adua, riconsacrata all’Italia da duplice sacrificio, alla distanza di quarant’anni. Che la nostra conquista sia ormai definitiva non /210/ siamo noi soli a pensarlo, a dispetto di certa inciprignita politica europea.

Le popolazioni di queste valli, chiuse ad ogni contatto, prive di cognizioni politiche, provviste però, come tutte le genti semplici, di un’intuizione infallibile, ci hanno seguito con continui atti di omaggio e sudditanza. L’apparato formidabile delle nostre forze avrà certo detto loro che l’Italia di Benito Mussolini non è più quella che passa, ma bensì quella che rimane.

Dalle piccole Bieté Cristian, o pievanie copte, nascoste tra le macchie dei boschi sacri, sono usciti i cascì in piviale (sudici cenci da rigattieri) recanti la grande croce abissina, in segno di pace e di amicizia e guidanti sciami di paesani. Offrono al Generale, uova, grano turco, e qualche capretto e ne ricevono, in cambio, sonanti talleri.

La figlia del famoso Degiac Lamina, col capo coperto di un ampio Borsalino, giunse da un paese lontano a far atto di omaggio accompagnata dalla moglie del Fitaurari e più oltre balambaras e degiac sono termini della complessa gerarchia militare e civile abissina Fitaurari, o capo-paese, e da altre donne trillanti il gorgheggio singolare con cui le donne abissine dimostrano le grandi gioie. L’Artiglio Sabaudo e la Scure Littoria sono ormai conficcati nell’epidermide coriacea del colosso etiopico. Non manca certo in noi la volontà, nè la certezza di ghermirne il cuore. Nè le provate difficoltà logistiche, nè gli ambiti incontri con le barbare zagaglie renderanno vana la fede e la speranza nostra.

Iddio adesso, che ha benedetto gli inizi, ci accompagnerà in ogni passo della santa crociata.

/211/

II

Arditismo d’Africa

(12 ottobre 1935-XIII)

Con l’atto spontaneo di chi, superato un ostacolo «si volge all’acqua perigliosa e guata» dalle pendici del monte Raio, che pare una colonna alzata a ricordare gli eroici caduti del 1896 sul luogo preciso del loro sacrificio, sostando in un profumatissimo boschetto di gelsomini in fiore, ripiego il mio sguardo ai più che ottanta chilometri superati nella corsa di tre giorni con le truppe del Corpo d’Armata Indigeni, e ripensando alle molte virtù esercitate dai miei Battaglioni, constato con soddisfazione che molti argomenti non indifferenti sono stati dati comprovanti che, se vi è un erede ab intestato dello spirito e della forza dell’arditismo della guerra mondiale, questi non può essere che la Camicia Nera.

La sveltezza e la fulmineità della nostra manovra, che riuscì a disorientare il nemico e a farlo persuaso della inutilità di attardarsi in posizioni che altrimenti avrebbero potuto rappresentare per lui una difesa ad oltranza, è stata apprezzata dai superiori comandi che la vollero elogiata ufficialmente. Pure i Battaglioni Indigeni, che erano adusati a stimarsi ineguagliabili e nella agilità e nella prestezza dei movimenti, si mostrano ora, dopo la prova tangibile da noi offerta, orgogliosi di esserci /212/ compagni. Troppo a lungo si era mantenuto in colonia il preconcetto che la truppa nazionale, appesantita dai bagagli e dalle necessità proprie dell’uomo bianco, fosse meno atta della gente di colore, alla guerra movimentata di questi difficili ed ampi territori.

Ma i vecchi coloniali non avevano ancora conosciuto l’Italiano nuovo allenato fascisticamente, esercitato nei muscoli da tutte le forme di atletica e nell’anima da una tensione spirituale capace di portare il sacrificio al limite del possibile. In questa gioventù muscolosa, perfettamente sana di corpo e di mente, resistente eroicamente alla fame, alla sete, alla stanchezza, in questa gioventù che ha ora compiuto un miracolo, di podismo collettivo non per l’avidità della coppa targata, ma per l’ansia d’incontrarsi con il nemico e con la glorificazione della Patria, noi riscontriamo quell’autentico insorgere di energie superiori della nostra gente che sul Carso e sul Piave creò il tipo del combattente perfetto nell’Ardito e che qua, sui monti d’Africa brilla nelle Camicie Nere.

Mantenere unita una massa fluente di circa quattromila uomini, manovrarla su terreno quasi sconosciuto (le carte militari del Tigrai non possono essere che di una precisione assai relativa) fra difficoltà logistiche di prim’ordine, rifornirla giorno per giorno anche solo dei vivevi di stretta neces- /213/ sità; ecco diversi problemi la cui soluzione spetta precisamente ai Comandi.

Ma la cooperazione intelligente di tutti e di ciascuno ai rispettati e amati superiori è quanto ha lubrificato e reso agile ogni movimento ed ha esteso per tutti i vari servizi quella intuizione pratica che è madre sempre dei migliori effetti. Sarebbe però errato credere che questa disciplina cosciente non costi sacrificio al volontario che liberamente la pratica. Nelle varie contingenze della giornata del combattente, molte volte è necessario rintuzzare la personalità propria che vorrebbe insorgere nel pensiero, nella parola, negli atti e capricciosamente scatenarsi nelle follie dell’individualismo. Disciplina e gerarchia, forze instaurate dal Fascismo, sono mantenute integralmente da quella continua violenza con cui il milite impone a se stesso le norme collettive contro le intemperanze dell’intimo egoismo. I disaccordi a tali principii, nella vita di guerra, appaiono quali mostruose stonature.

Ma il sacrificio cocente della propria personalità alle necessità collettive, non rappresenta che la prima vittoria spirituale del vero arditismo. Con questa, quante altre battaglie vinte in questo primo incontro col elima africano!

La rinuncia al superfluo, agli agi della vita cittadina non è nulla in paragone delle privazioni dello stesso necessario. Non sempre si riesce a far affluire i rifornimenti per tutta la rete tattica, che si stende mobile e ardita sulla diversa ramificazione della colonna. Più d’una volta bisogna «stringere la cintola» come diceva il vecchio Fante. Il rifor- /214/ nimento idrico è difficile perchè le sorgenti sono rare e non sempre pure. I muletti stanchi, fiaccati talvolta si buttano a terra con tutta la soma: sembrano far lega col Negus o almeno essere in accordo segreto coi cinque o con i tredici della Società delle Nazioni. E chi ne porta la pena è il combattente che non può nemmeno avere la soddisfazione di prendersela con la Sussistenza Militare come avveniva nelle trincee del Carso, dove si combatteva: «da loro si scialacqua, ed a noi qua manca l’acqua».

Alla stanchezza, che fatalmente t’incoglie dopo le fantastiche camminate, puoi riparare, non con un comodo lettino, ma con la nuda terra: la quale ti offre molti vantaggi. Prima di tutto la terra non è un letto di Procuste e quindi puoi stenderti quanto sei lungo e per di più stirarti quanto vuoi, incontrando forse con i piedi la testa di un vicino notturno e aspettandoti un qualche servizio da un compagno qualunque. La terra d’Africa è secca: vantaggio non indifferente per il decubito, ma è pure rocciosa e tutta cosparsa di ciottoli aguzzi: se te ne capita per caso uno, sia pur piccoletto, lungo la colonna vertebrale o negli intercostali, sentirai che ricordino per più di un giorno! Vi è pure il pericolo di scomodare qualche scontroso scorpione o qualche vendicatrice viperetta, ma per compenso sulla nuda terra non vi sono ne pulci nè pidocchi, /215/ come sotto certe comode tende, da cui non si riuscì a snidare i sudici parassiti nè dalle sezioni di disinfezione nè dagli empirici esperimenti del passaggio delle pecore e dei caproni che avrebbero dovuto fare l’adunata nel proprio vello di tutti i parassiti.

Non essere costretti a pernottare in ambienti incubatori d’insetti è un beneficio che io apprezzai più che mai l’altro giorno, quando fui a visitare la chiesetta copta di Adi-Charaés, nel cuore dell’Entisciò. In quel piccolo villaggio, dove vivono non più di centocinquanta persone, vi sono nientemeno che sessantacinque cascì. È vero che il Tigrai è la regione più religiosa dell’Abissinia intera, ma mi pare che sia proprio il caso di ripetere il proverbio inglese: «Too many cooks spoil the broth».1 Quando si sa che i cascì, avendo il diritto di assidersi a qualunque mensa e di venir serviti come Dio stesso, sono degli eremiti scrocconi, vi è proprio motivo di chiedersi, come mai questo povero popolo abissino, dissanguato da tante mignatte, possa campare. I cascì, per ragioni di vita, per necessità di camorra sono gli spalleggiatori del Negus. Bisogna tenerli d’occhio e non lasciarsi persuadere dai loro atti di omaggio e dai ripetuti inchini.

Io volli perciò perlustrare la chiesa di Adi-Charaés soprattutto per vedere se in questa i complici del tiranno di Addis-Abeba non vi tenessero celate le armi. Il mio dubbio veniva sostenuto dalle dif- /216/ ficoltà che quei signori adducevano nel rintracciare la chiave del rozzo lucchetto che ne assicurava la porta.

Dopo molte parole e mie insistenze, fu aperto ed io potei aggirarmi nelle tenehre di quell’androne tetro dai bassi soffitti pavesati di ragnatele, dalle cassapanche coperte dal disordine dei paramenti sacri trattati come stracci, e dai grandi libri liturgici in pergamena riportanti l’antica scrittura tigrina.

Non eran trascorsi dieci minuti da che posavo i piedi sulle luride stuoie, che per l’allarme datomi dal mio compagno di perlustrazione, il centurione Damiani, dovetti buttarmi verso l’uscita. Che era successo? Eravamo caduti nella più disgustosa delle imboscate: dalla testa ai piedi si era coperti di pulci. Ci vollero ripetute cacce a fondo per liberarcene.... e non certo completamente.

La vita all’aperto ha dei grandi vantaggi, ma presenta pure non lievi inconvenienti specialmente per le costituzioni abituate al riparo delle comode abitazioni, ed ora gettate sugli altipiani del Tigrai, dove fra il giorno e la notte, nel breve spazio delle dodici ore, si ha uno squilibrio di temperatura quale in Roma si nota tra l’estate e l’inverno. Il sole di mezzogiorno arrostisce ferocemente, nel mentre che di notte non c’è panno che ripari sufficientemente dal freddo.

/217/

Ma via, lasciamo queste melanconiche meditazioni, che annoverano le sofferenze dei nostri Arditi d’Africa. Non senti in quest’aria che flagella i gelsomini fioriti, le vibrazioni d’una canzone gettata da quei visi arrossati dalla fiamma del bivacco, che in allegria vigilano una mezza dozzina di gavette ribollenti? Le Camicie Nere han smesso di fumare, perchè le sigarette sono finite tutte, anche le riserve dei signori ufficiali. Non han potuto smettere di mangiare; perciò hanno acquistato qualche pannocchia di grano turco, qualche pizzico di tè, qualche caprettino condiviso fraternamente.

E soprattutto non hanno potuto smettere di cantare e di amare: di cantare non si può fare a meno da questo popolo sentimentale, che tutta la vita ha rivolto a nota musicale e che dell’eroismo ha fatto fluente canzone.

Amare poi è vita della vita, è respiro, è palpito per tutti coloro che, lungi dalla mamma, dalla sposa, dai figli, sentono più tenaci gli affetti lontani, più necessari e fraterni i sensi del cameratismo, più vivo l’amor di Patria, della grande Patria che oggi domina il mondo col genio del Duce e col grido di vittoria che facciamo e faremo echeggiare per ogni pendice d’Etiopia. Un solo desiderio strugge e appassiona le giovani Camicie Nere: venire consacrati perfetti Arditi, nella vampa ardente di un assalto.

/218/ La barba cresce incolta ed ispida sui visi di vent’anni.

Si attende d’ora in ora, l’ordine di riprendere l’avanzata e di sostenere un attacco. Sotto la camicia nera è sempre la stessa anima ardita che accompagna la bora del Carso o il vento d’Abissinia, cantando con la voce e con i fatti, la stessa canzone: «Giovinezza, Giovinezza»!...

III

Una passeggiata ad Adua

(20 ottobre 1935-XIII)

Il mio generale Diamanti mi ha dato il permesso di recarmi ad Adua. Che il Cappellano delle truppe che avevano sì efficacemente, benché a distanza, cooperato alla espugnazione della capitale del Tigrai, dovesse proprio essere il primo degli ufficiali nostri a mettervi il piede, fu per lui una felice necessità, data dal fatto che il vino per la Santa Messa era stato esaurito nell’opera di misericordia che nell’Africa è la più necessaria e la più gradita: dare da bere agli assetati. Dovevo quindi raggiungere in Adua qualche buon collega pronto a condividere con me i suoi rifornimenti.

Parecchi amici mi sconsigliavano dalla gita, che dicevano assolutamente imprudente, poichè i luoghi erano ancora palesemente infestati da bande nemiche. Ma la necessità e l’ardire ruppero ogni indugio e nella mattina del giorno 17 d’ottobre, /219/ con la scorta di due militi e di un ascaro messo a mia disposizione dal capitano Aliberti, comandante dell’eroica Banda dell’Hazamò, scesi da Zebàn Bachinienà e attraversai la valle antistante ai nostri avamposti, dirigendomi al versante sud del Baio e del Semaiata. Terreno vergine per le truppe italiane, che noi battemmo per quattro ore con passo affrettato, gli occhi e gli orecchi tesi ai monti e alle valli circostanti.

Per i campi dorati dal taft maturo, incontravamo abissini intenti al raccolto, i quali, già edotti della nostra occupazione, ci salutavano con il braccio teso e con grandi inchini. Qualcuno interrogato dal nostro ascaro ci accompagnò per qualche tratto di strada, e ricevette con segni di giubilo, qualche monetina di mancia. Bakshish parola di origine persiana usata in tutto l’Oriente che significa “mancia”, “elemosina”, talvolta anche “tangente” «Sultan Bakcisc» è anche qua, come in tutto l’Oriente, il più riverito dei monarchi.

Qualche fucilata d’ignota provenienza e d’uguale ignota destinazione ci metteva sul «Chi va là». Quando raggiungemmo la via carovaniera, che unisce Adigrat ad Adua, fu grande gioia per noi incontrarvi un reparto di militari in marcia e poi una carovana di una cinquantina di cammelli e finalmente le prime bande indigene dell’Achellé Guzai che tenevano gli avamposti del Corpo d’Armata di Adua. Si era nuovamente su terreno sicuro e non v’era più bisogno di fermare, come si era fatto per l’innanzi, ogni indigeno che procedesse armato.

L’incanto di questi luoghi presso che selvaggi è indescrivibile. Il fondo della valle è percorso da /220/ un torrente ombroso che talvolta sì nasconde sotto liane impenetrabili o tutto si interra e poi si spande in ampi acquitrinii, dove fra giunchi corrono a nascondersi anitrelle selvatiche o biscioni d’ogni specie o colore. Campi biondeggianti coltivati di taft e di anghera si stendono qua e là, e i monti dalle falde verzicanti, frastagliano il cielo con roccioni informi. L’aria è satura dai trilli di uccelli multiformi e policromi; ogni tanto irrompe lo stridulo grido d’una scimmia disturbata.

È il cuore della primavera africana, che pulsa in tutte le arterie della selvaggia natura. Verso il termine del mio viaggio, a un’ora di cammino da Adua, la valle si apriva alquanto per dar luogo nel suo bel centro, alla collina di Enda Mariani Scioaitù. Non ho visto sinora in Africa, una conca più vaga di questa. È tutta un fresco svettare di ciuffi di palme che incoronano il colle centrale, su cui domina la annerita chiesa copta. Gelsomini e mimose in fiore coprono ogni cespuglio e spandono sotto il cielo meridiano, un senso sottilissimo di refrigerio esilarante. Tutto invita ad una sosta. Presso l’onda mormorante del torrente, all’ombra dei giganteschi gelsomini aggrappati alle palme, ci arrestammo in compagnia di una graziosa famigliola abissina. Ma noi, più che all’acqua chiara, al profumo dei fiori, alla vaghezza del paesaggio, alla grazia dei bimbetti neri, ci deliziammo nel fascino delle memorie, poichè è quella valle romantica che, nelle giornate del 1896, bevve il sangue più generoso degli eroici fratelli nostri.

/221/

Superato il colle che sovrasta Enda Mariam Scioaitù, eccoci in vista di Adua: nome familiare per ogni italiano, nome famoso, cui malamente corrisponde la delusione della realtà.

Da un lato della vasta conca tutta tappezzata di biondi campi, si protende una collina che porta sui due fianchi i tucul circondati di muriccioli a secco, dominati dalle cinque chiese copte e dal Ghebì, o casa regia del Ras, elevata sulla sommità quale rozzo ammasso di un primitivo castello medioevale. Il colle, a differenza del paesaggio è arabescato dai ciuffi degli alberi che circondano i templi o formano i boschetti-domestici, riparo pei tuguri, dagli ardori solari. Un fiumicello corre ai piedi del colle; molti militari attingono acqua e abbeverano quadrupedi, alcuni indigeni sulle rive sciacquano i panni, pestandoli con i piedi dentro a distese pelli: strano modo di lavare, che risparmia fatica alle pigre braccia. Tutto il rifornimento idrico urbano è affidato a quel filo di acqua, che nel tempo stesso compie le funzioni, non sempre igieniche, di cloaca massima.

Al di qua del fiume, un campo è adibito al mercato. Non più di un centinaio di venditori tengono esposte le loro miserabili mercanzie che si riducono, oltre che a un po’ di bestiame, a qualche mucchietto di pannocchie di grano turco, di orzo, di peperoncini, a qualche formella di pane e a po- /222/ chi generi di tele e mercanzie. Vi acquistai l’unico cucchiaio che vi scoprii e per cui, benché fosse di ferro arrugginito, dovetti sborsare il prezzo di Clitté Ferenchà!1

Alla nostra truppa è stato proibito di passare il fiume; un cordone di fieri carabinieri vieta l’accesso della città a chi non è munito di un permesso speciale, rilasciato dal Comando del Corpo d’Armata.

Misura prudentissima, tendente ad impedire ogni violenza o saccheggio. Poco però vi è da asportare da quella miserabile cittaduzza, priva quasi di botteghe, formata di povere stamberghe, senza arredi, quali sono tutte le abitazioni abissine. Un giretto per la città è una curiosità necessaria. Per le ripide viuzze si aprono le piccole porte: molte di esse sono fatte con le assicelle da imballaggio su cui si legge tuttora distintamente: Vermout Martini & Rossi; Fratelli Cinzano, Torino. Su tutte le abitazioni uno straccetto bianco rimane ad indicare agl’Italiani, la resa abissina.

Il luogo più interessante per noi è il Ghebì, reggia di Ras Sejum. Questi lasciò andare in rovina il palazzo che il Negus Joannes erasi edificato su un colle antistante, e fece sua abituale dimora nell’ammasso di casupole che circondò di muraglione sulla parte più alta della stessa capitale. Vi si accede per una porta aperta nelle mura di cinta e incorniciata nelle rozze linee di pietra murata a fango come gli abissini usano per le entrate dei /223/ loro templi. Un ampio spiazzo vi mostra a destra il rozzo padiglione del tribunale, a sinistra un grande locale oscuro come le antiche stalle delle nostre campagne e dietro a quello, l’ufficio del Ras con la sua abitazione privata, ridotta a pochi ambienti sopraelevati col suolo stesso del colle, che nella parte più alta è coperto dalla camera e dal gabinetto di pulizia. L’uno e l’altro erano pure stati saccheggiati dopo la precipitosa fuga del principe, impaurito dalla precisione del bombardamento aereo: però l’arredamento manomesso di questi locali intimi era tutto all’europea: testimonianza chiarissima del fatto che il Ras, mentre accettava per sè le intime comodità della nostra civiltà, manteneva forzosamente il suo popolo nei disagi e nelle privazioni della vita selvaggia. Molti tiranni conoscono quest’arte egoistica e crudele!

Fra le carte abbandonate dal vile monarca, una mi colpì per il grande stemma reale che portava impresso. Poichè era scritta in perfetto amarico la feci tradurre. Era una lettera stesa dal segretario della Regina stessa, Iteghé Menen, in cui questa, facendo considerare al marito che agli Italiani armati di cannoni e aeroplani sarebbe stato follia resistere, lo consigliava di abbandonare Adua senza fare opposizione al nemico e di raggiungere la sua adorata consorte nella arretrata regione del Tembien, presso Demarà. Consiglio, che potrà sembrare giudizioso e pratico per una figlia di Eva, abbia essa la cute bianca o nera, ma che da quel Ras Sejum che sull’altana di Adua aveva spergiurato sino a pochi giorni avanti che egli sarebbe /224/ sceso a fare il bagno a Massaua, avrebbe dovuto essere rigettato come debolezza di vii femrninetta, preferendo la gloria del cornbattimento o almeno di una nobile resa. Ras Sejum, come è noto seguì invece il femmineo invito e si diede alla fuga.

Nel mio breve soggiorno in Adua condivisi la tenda ospitale col Cappellano della Sezione di Sanità P. Carlo Marangoni O. F. M., e il rancio con il Cappellano del 19° Artiglieria, il mio caro confratello P. Federico Ferrarotti. Rividi le nobili persone cui l’Italia ha affidato l’incarico del Comando sulla sacra terra di Adua: il principe Pignatelli, commissario civile, affaccendato nel disbrigo dei primi affari, nel nominare i capi dei paesi, nel ricevere gli atti di vassallaggio delle autorità indigene, nel rastrellare le armi. A lui è dovuta tutta la preparazione civile della resa di Axum.

Ossequiai S. E. il sig. generale Maraviglia, comandante del Corpo d’Armata, che mi esaltò il valore delle truppe e con giusto orgoglio paterno, mi parlò dell’ardire del suo caro figliuolo, che, quale comandante della squadriglia aerea, si prodigò eroicamente dal cielo per l’espugnazione della città. Abbracciai con la commozione del vecchio camerata del Carso, il nobilissimo generale Nino Villa Santa, già segretario di S. A. Reale, il grande Comandante della 3ª Armata. Egli mi spiegò con /225/ poche parole la classica manovra della sua divisione, La Gavinana, su Adua: due colonne attaccavano di fronte, mentre una terza, di sorpresa prendeva alle spalle il nemico, che veniva così disorientato e sgominato.

Mi è caro riportare il proclama che il generale Villa Santa ha diramato alle sue truppe al termine della gloriosa giornata, anche perchè in esso i vecchi combattenti del Carso e del Piave avranno certamente, come io ebbi, l’illusione felice di risentirvi quasi una eco dei regali discorsi dell’inobliabile Comandante, di cui il giovane generale Villa Santa fu il più fedele e il più amato dipendente:

Riconquista di Adua
(Ordine di Divisione n.° 34)

Adua, 6 ottobre 1935-XIII

La divisione Gavinana ha riconquistato Adua. Lo slancio travolgente delle sue truppe ha schiacciato le difese avversarie, impedendo al nemico di formare la massa contro di noi e di colpirci sul fianco, come voleva. L’avanzata rapidissima della Gavinana ha sconcertato Ras Sejum Mangascià, il Re del Tigrai, il quale, al nostro impeto, ha opposto la fuga.

Il voto da voi solennemente formulato nell’atto del balzo, davanti alle cappellette di Biserat, di Mai Libus, di Teramni, di Debaroà e di Enda Abba Mata, è stato sciolto, e la prima mèta è raggiunta ed i nostri fratelli, immolatisi il 1° marzo 1896 /226/ su queste stesse ambe, sono stati rivendicati per sempre.

Io sono fiero di avervi qui condotto, e, soprattutto, che la Divisione Gavinana, mercè la manovra ed il fulmineo attacco, abbia potuto occupare Adua, senza gravi sacrifici di sangue.

Rivolgiamo il nostro commosso pensiero al tenente Morgantini caduto per aprirci la strada e a tutti i gregari che per la vittoria, hanno fatto olocausto della vita.

L’Italia esulta, in quest’ora, per la vittoria conseguita e l’inno di riconoscenza, che si eleva dal cuore dei nostri cari lontani, rappresenta il miglior compenso per lo sforzo compiuto e per i pericoli corsi.

Ma la nostra fermata, qui, non è che una sosta: ben altri compiti ci aspettano e li assolveremo con fermezza, con ardore, con abnegazione. Riconquistiamo perciò rapidamente ogni energia; altri sbalzi ci attendono, altre vittorie ci arrideranno, altre contrade conquisteremo per la grandezza e per la maggior potenza della patria.

Il Generale Comandante
Nino Villa Santa

Ritornammo per la stessa via, che, nel breve tempo di due giornate, era diventata più sicura. Infatti alle prime pendici del Raio incontrammo /227/ i militi della 23 Marzo, la prima Divisione delle CC. NN., giunti a far parte, come i miei Battaglioni, del Corpo d’Armata Indigeni; essi già avevano preso contatto con le truppe di Adua.

Il nostro arrivo ai Battaglioni fu accolto come il ritorno vittorioso da una lunga spedizione e gli alalà si rinnovarono quando, nelle bisacce del mio muletto, fu scoperto un paio di bottiglie di spumante e qualche scatoletta di antipasto. Si doveva ben festeggiare anche alla mensa degli ufficiali – dopo vigilia e astinenze – la vittoria di Adua!

Serenità e affetti, poesia e canti non mancano in questa perenne primavera di fiori e di cuori, che insorge per le pendici dei monti del Tigrai. Il pensiero della Patria che, col nostro sacrificio, si fa più grande, della famiglia che trepida amorosamente per noi ci riempie l’anima di orgoglio e di tripudio.

Il giovane capo manipolo Bucci mi fa leggere, intenerito, il sonetto che ha composto per la sua seconda bimba, della quale ricorre il secondo compleanno:

Per il compleanno di mia figlia

« Bimba, tu dormi placido il tuo sonno,
ti sfiora un bacio, ma tu non sai chi sia.
Non son le labbra del tuo caro nonno,
ignote pur non son, anima mia.

« È papà, cuore bello, a te d’intorno.
Per carezzarti il volto con follia,
da lontano è venuto e attende il giorno
per l’augurio. Non dirmi: – Via! Via!–

/228/

« Si chiudon le papille! Fiordalisi
irrorati di lacrima innocente,
colpiscono il mio cuor e non sorrisi.

« Maurita! Riconosci chi fidente
per tre fiamme s’affanna, strugge e vive ?
Ride la bimba e più non son dolente. »

Il poeta, nel frastuono del campo, ha trovato senza fatica il dolce ritmo della eterna poesia del focolare, perchè qua tutto è fiamma ed amore.

Intanto i Battaglioni si riassettano. Il centurione Maglioni, nostro attivo veterinario, ha rimandato all’infermeria divisionale ottantotto muli fiaccati, inservibili. Ma degli uomini nessuno è riformato. Ottima è la salute, l’entusiasmo indeficiente. Appena sarà terminata la rotabile, che il genio militare e civile sta costruendo con una celerità fantastica, sulle piste che abbiamo tracciato noi stessi nella trascorsa avanzata, riprenderemo il cammino in avanti, all’ordine dei nostri capi, con la protezione di Dio, sotto lo stellone d’Italia.

IV

Alpinismo africano

(12 novembre 1935-XIV)

Non so proprio dire se per ragioni di analogia oppure di contrasto avvenga in me il fatto che volgendo lo sguardo in giro al fantastico panorama dell’altipiano del Tigrai, mi ritorna ognora in mente il titolo del vecchio libro che rese celebre /229/ Guido Rey 1861-1935, alpinista, scrittore e fotografo. Durante la I Guerra Mondiale prestò la sua opera per la Croce Rossa, e fu gravemente ferito. Alpinismo acrobatico (1914) tratta delle sue scalate sulle Dolomiti. il mio compianto amico, Guido Rey: Alpinismo acrobatico. È vero che l’alpinismo acrobatico per secoli in Abissinia continuarono a farlo solamente le infinite tribù di scimmie che si sono sempre esercitate su queste crode. Gli indigeni impigrirono nel fondo delle valli o sulle molli pendici e se qualche ardita carovaniera è stata incisa nelle rocce a superare rilevanti dislivelli, ciò non fu fatto che per la pura necessità di quelle minime comunicazioni, che intercedono fra i paesi del mal connesso impero del Negus Neghesti.

Al contrario, la fisionomia del paese offre, di natura sua, la più meravigliosa arena a tutte le umane arditezze. Occhi, cuore, polmoni e muscoli trovano qua la cote del più sottile affinamento. L’altimetria si aggira attorno ai duemila metri e, talvolta, come nel massiccio del Samajata, supera i tremila metri; i displuvi, che versano nei due bacini del Nilo e del mar Rosso, vanno digradando per tavolati di arenarie, su cui poggiano fantastiche rocce vulcaniche rilucenti di basalti e trachiti. I massicci tavolari pianeggianti sono poi normalmente rotti agli orli da una linea orizzontale che fa scendere a valle, uniformi strapiombi di cortine rossastre, le quali, allorché vengono investite dalle prime ombre della sera, segnano il paesaggio di un mesto listone. Su quella linea però, si stendono fioriti pianori, quasi primavere pensili perennemente pioventi dal cielo, siepate di ambe capricciose che paiono sogni di un gigante inebriato.

Ecco tutta la vallata del Faras-Mai, dominata da un merlato castello di pietre; ecco sulla sinistra, /230/ una grande roccia in cui si profila nettamente una testa d’aquila rostrata; più avanti, verso Hauzien, domina un isolato fascio di colonne levigate dal vento, troneggiami sul plinto di un verde tappeto. Che se, costeggiando per la carovaniera del pianoro antistante, gli occhi non si staccano dal vago spettacolo di quel curioso monumento, s’osserva, con crescente ammirazione, che quelle colonne prendono la forma della facciata d’un tempio, anche perchè lo strapiombo regolare delle retrostanti rocce traforate vi si connette quale muraglione laterale, rosso di quel vecchio color mattone delle Cattedrali trecentesche, che, oggi ancora, s’alzano sotto il sereno cielo lombardo.

La flora accompagna, qual veste appropriata, le caratteristiche del paesaggio: acacie, mimose spinate, ulivi e fichi selvatici, qualche colossale sicomoro e più in basso cespugli di gelsomini, agavi, euforbie dalle punte fiorite di bottoncini rossi, quasi fiammelle sul candelabro; e finalmente a valle, pascoli perenni alimentati dalle acque che, assorbite dalle vulcanite, conservate in polle, ora stagnano coronate dalle alghe e dai palmizi, ora scendono rumorosette quali gorgheggiami torrentelli alpini. Non mancano i terreni coltivati normalmente a leguminacei, cereali e lino, ma questi uomini orientali, più che di dar mano all’aratro od alla vanga, si deliziano nel vellicare oziosamente i dorsi degli ovini, poichè tutta la popolazione è principalmente dedita alla pastorizia, come tutti gli abitatori delle regioni montuose.

Invano però, cerchereste nelle mani nere, il /231/ flauto o la fistola dai sette fori degli antichi pastori d’Arcadia o anche la modesta cornamusa o la zampogna del ciociaro. Il sinfoniale a tutto ripieno, che la natura selvaggia scatena su questi monti, è impotente a svegliare il millenario sonno di questo popolo sordo e muto alle espressioni estetiche; a malapena qualche lieve nota, quasi sempre stonata, si aggiunge dagli uomini incolti, al concerto della natura.

In quella macchia fiorita del Faras-Mai, in cui si nasconde la rozza chiesetta di Enda Micael-Zattà, avevamo alzato le tende del Comando del Gruppo CC. NN. d’Eritrea. Ma la prima notte stessa quella susseguente alla lunga marcia, il nostro riposo fu disturbato, poichè verso le tre ore cominciò a sentirsi un suono: tin, ton, tan, tin, ton, tan. era il cascì che batteva uniformemente a quelle tre lastre di pietra sospese ad un arido ramo che formano il concerto di ogni chiesa copta. Il tono, l’ordine delle note rimase sempre invariato e il gioco pareva interminabile. Ma i frizzi dei disturbati persuasero finalmente il disturbatore della pubblica quiete a troncare quella stucchevole nenia. Un’altra musica, non meno curiosa ci venne offerta in questi giorni in una fresca valletta presso il paese di Mai Afarit, dai notabili della piccola comunità mussulmana.

Mentre la truppa passava velocemente, scesi dai monti essi attesero il generale Diamanti formando un gruppo caratteristico: si disposero a semicerchio attorno ad un panno bianco issato su una canna, tenendo nel mezzo un paio di rustici tam- /232/ burelli toccati dalle canne di un suonatore accosciato su di questi. Accompagnati dai colpi del tamburo e dal ritmico battito delle loro scarne mani, ripetevano questo invariato ritornello: «Salàm Alecùm – Mahammet aminùy». Le parole significano: «Saluto a voi, per il credo di Maometto». Saluto rituale, che queste teste in turbante, uomini senza spina dorsale, hanno ripetuto nei secoli ai ras burbanzosi ed a chiunque incutesse terrore o seminasse una speranza. Tale è la verità, aliena da esagerazioni e da interpretazioni iperboliche. Ma è pur vero che quella nenia, dopo la prima curiosità, ci fece ridere di compassione. Musica di tribù, come il gridio uniforme e rauco degli indigeni in fantasia, come le manifestazioni d’un popolo primitivo.

Tutto è nenia: tutto è uniforme, livellato e freddo nelle manifestazioni di questa gente. Persino la toponomastica non fa che ripetere per tutta l’Abissinia gli stessi nomi con i perenni tre o quattro suffissi di Addì (paese), Amba (monte), Enda (chiesa o luogo sacro), Debre-Debra (convento). Mentre la terra abissina si solleva a tanta altezza, si assottiglia e quasi si spiritualizza nelle punte delle ambe e nei pètali dei fiori e pare, quindi, una naturale pedana per le umane esaltazioni, il suo popolo è rimasto tanto in basso, appiattito in una uniformità volgare di sentimento e di espressione.

Per questa volta, almeno, ha torto il poeta di affermare che: Torquato Tasso 1544-1595 Gerusalemme Liberata, I LXII “La terra molle e lieta e dilettosa, / Simili a se gli abitator produce.” «simili a sè la terra – gli abitator produce».

/233/

Il vero alpinismo in Abissinia, è incominciato con le nostre azioni militari. Alpinismo in pieno anche se, lungi dall’essere ornato degli aggeggi di quello di moda presso i sedentari nazionali che cercano salute e vanto nelle escursioni festive, esso getta l’uomo, armato del semplice necessario, a lottare contro tutti gli elementi dell’alta montagna.

È da notarsi che già vi è una grande preparazione morale nella massa stessa della truppa a godere degli spettacoli che si presentano man mano più sorprendenti. Non è solo l’ardente patriottismo, non è neppure il fascino delle recenti memorie che aureola i nomi di Adua, Macallè, Amba-Alagi, che fa vibrare tutta l’anima nostra.

La squisita sensibilità italica, nata per il bello, adusata a percepirlo integralmente, a gustarlo a fondo, qui trova un pascolo esotico inesausto. L’estetica dei boschetti di euforbie, i contrasti fra l’orrido ed1 il fiorito, fra la landa ed il coltivato, fra gli immensi cortinaggi rocciosi e i viridari più intensi, i profumi di gelsomini e dei mentastri e il sapore acre delle salvie spinate ci inebria.

L’attenzione della Camicia Nera è sempre desta, tanto nello spiare il nemico che viene incalzato, quanto nell’ammirare e nell’assaporare le sorprendenti bellezze panoramiche. E poi queste montagne di Abissinia sono pure generose ristoratrici di forze, È vero che: «pane e panorama», /234/ come dice il Milite, non è sempre sufficiente, ma noi proviamo, per esperienza quotidiana, che il sacrificio torna meno difficile, la privazione meno sentita, l’entusiasmo più trabocchevole in questa atmosfera sottile e nella corona di tante meraviglie naturali. Le quali non annoiano, non stancano, che anzi sono curiosamente appetite sempre di più dall’anima giovanile della truppa.

V’è l’ansia di camminare, di andare avanti, di vedere cose nuove, di incontrarsi con nuovi ostacoli. Le soste diventano uggiose, se protratte ai quattro o ai cinque giorni, in capo ai quali esplode la comune impazienza nei discorsi che non parlano che di riprendere il cammino, che di partire. «Partir c’est un peu mourir,» si dice dai francesi. Per noi, al contrario, partire è vivere.

Le soste sono necessarie. Un insegnante della Valle d’Aosta scriveva ad un amico ufficiale presso i miei Battaglioni, come i bimbi della sua scuola, dinanzi alla distesa carta geografica, in cui la nostra avanzata viene segnata dalle bandierine, chiedevano con insistenza il perchè della lentezza delle nostre operazioni.

Molti altri, io me lo immagino, i quali, come questi cari bimbetti valdostani, non hanno la testolina proporzionata alla grandezza del loro cuore, hanno ripetuto la stessa domanda: alla quale facilmente dà risposta colui che conosce la vastità dei territori abissini e tutte le difficoltà logistiche che essi presentano a una truppa in marcia e che ha necessità di continuo rifornimento.

Come nel cuore di tutti i veri Italiani, dai figli /235/ della Lupa ai veterani, oggi il Fascismo ha acceso la dinamica volontà della marcia in avanti, così e più ancora, come è facile immaginarlo, questo incendio divampa: nel genio del Duce, che pure deve manovrare contro gli scogli degli egoismi internazionali; nella saggia direzione dei Comandi superiori che, guidando i Battaglioni, devono pensare alle condizioni del terreno, alle coperture di protezione, al vettovagliamento; nello spirito d’una truppa eccezionale, che è tediata dal bivacco e che non anela che a mettersi in moto. L’ordine d’una partenza è accolto con gioia, è seguito con entusiasmo. Normalmente si parte nelle prime ore del mattino; perciò, i movimenti al campo si iniziano nelle ultime ore della notte. Fantastica è la scena che si presenta a chi da un’altura domina quel quadro.

Nel cielo crepuscolare, frastagliato dalla nera cornice delle cime, occhieggiano ancora le stelle. Le ombre notturne sono rotte dal lingueggiare di centinaia di fiamme, attorno a cui si delineano profili e scorci degni di venir eternati da un novello Gherardo delle notti. Cadono le tende, si affardellano gli zaini, si imbastano i muli e, quando il sole sorge, con la sua luce illumina un gruppo di Battaglioni distesi in perfetto ordine di marcia, sul sentiero che taglia la falda del monte o scende nel fondo ancor tenebroso della valle o sale verso un passo del colle.

Nell’aria è tutto un vario getto di canzoni, che vibrano in una ispirazione superiore alla gamma tradizionale della soldatesca in marcia, poichè quasi tutte sono canzoni della rivoluzione fascista. Le /236/ note armoniose dei maestri Puccini e Blanc non hanno mai accompagnato più degnamente, «il sole che sorge»: il mattinale sole dell’orizzonte e il sole di gloria della novella romanità.

La marcia dura normalmente quanto la giornata. Il passo sovente prende il ritmo della corsa. Il sentiero è più spesso aspro che pianeggiante: si sale e si scende cento volte per infiniti colli dove la mulattiera diventa talvolta lunga, stretta e incassata nella roccia, quale una trincea carsica. Non mancano gli ingorghi con le relative attese, ma le soste sono sempre brevi e il tempo viene presto ricuperato da repentini acceleramenti. Nè la stanchezza, nè i piedi sanguinanti per le scarpe consumate, nè l’alimento invariato della solita scatoletta di carne con le solite durissime gallette, nè qualche intermittente scarica di fucileria di dispersi nemici, fermano il ritmo della corsa o le canzoni in cui perennemente fiorisce la consapevole gioia dei cuori. E la montagna africana continua ad offrirci a piene mani le sue grazie vergini e selvagge: e l’atmosfera sottile e il profumo dei fiori e l’acqua fresca dei celati impluvi e la policromia luminosa che abbraccia cielo e terra e i contrasti dei rabbiosi ardori solari, con la gelida pallidezza notturna dell’ampio plenilunio.

Ruskin assai freddamente (oggi potremmo dire inglesemente) derideva i pionieri dell’Alpinismo europeo, qualificando le prime ardite ascensioni /237/ quali giochi di alberi insaponati scalati per il piccolo premio. Alle irrisioni dell’esteta inglese, gli Italiani possono contrapporre i canti del Giovanni Bertacchi (Chiavenna SO 1869 - Milano 1942) storico della letteratura italiana, autore del Canzoniere delle Alpi 1895 Bertacchi, la cui poesia, che è tutta una esaltazione dei valori spirituali del più sano Alpinismo, non può venir meglio sintetizzata che dai suoi famosi versi:

« Nè mai vi miro, di perpetui geli
inargentate rupi di granito,
senza che il cuor all’alto, all’Infinito
con novo, intenso desiderio, aneli. »

E che l’esercizio del più intenso Alpinismo sia sprone continuo del cuore a salire alle altezze spirituali, alle vere altezze dello spirito, che sono i cieli della rinuncia, della dedizione, lo sentiamo soprattutto qui in Africa, dove la nostra corsa fremente di entusiasmo e di canzoni viene intrecciata con il quotidiano sacrifìcio per gli ideali della Patria Fascista e della Civiltà. Quanto errerebbe colui che volesse appellare la nostra ventura africana, una gita di piacere!

Certo non frequenti, almeno per ora, sono i combattimenti e il conseguente rischio immediato della vita, ma, per compenso, pochi sono i ristori del corpo e molte le diverse afflizioni cui altra volta io accennai. Ma vi è sempre il desiderio vivo di offrire di più, vi è una solidarietà fraterna, dominatrice di ogni egoismo, che commuove.

Quando Sua Eccellenza il generale De Bono presso una base dei nostri rifornimenti assisteva all’incendio casuale di una macchina che trasportava a noi i viveri, vedendo l’autista scoppiare in /238/ dirotto pianto, lo interrogò sul motivo della sua inconsolabile desolazione. E la Camicia Nera, fra le lacrime, rispose:

– Eccellenza, piango perchè penso al dispiacere che recherà al mio Generale la notizia di tutti questi viveri distrutti; ne soffriranno i miei fratelli che sono in trincea. –

Nè fu calmo che quando Sua Eccellenza; con paterna bontà, lo ebbe assicurato che sarebbe stato dato ordine alla Sussistenza Militare di ripetere immediatamente il prelevamento dei viveri perduti.

Tanto la Camicia Nera ama i superiori e i commilitoni!

Gli stessi sentimenti sono nutriti verso tutti i combattenti che l’Italia ci ha dato quali fratelli, più che compagni in questo lontano campo di battaglia. Recentemente nel territorio di Hauzien è caduto il giovane sottotenente Aldo Lusardi del sedicesimo Battaglione indigeni. Ferito sul campo, egli aveva chiuso gli occhi fra i compagni che poi avevano dovuto interrarlo senza che un sacerdote ne celebrasse i rituali suffragi. Il mio generale Filippo Diamanti, subito ordinò che, attorno alla tomba, si adunassero le nostre Camicie Nere, e che il cappellano sopraggiunto compisse, nella forma più solenne, il rito funebre. E poi lo stesso Generale ideò e curò l’esecuzione d’una tomba che certo riuscì il meglio che si possa fare in questi luoghi e in queste circostanze.

I monti del Tigrai, che van ricevendo tributo di sudore e di sangue, dall’ardente giovinezza ita- /239/ liana, saranno degni fratelli dell’Alpe, del Grappa, del Carso, nel presentare all’Eccelso quali veri altari, l’offerta per la Patria e nel ricordare per sempre, monumenti d’eternità, i sacrifici nascosti o palesi, di cui essi furono stimolo e teatro.

V

Muli e muletti abissini1

Non v’ è legionario dell’Africa Orientale, che, dotato di quello spirito di fraternità universale e francescana che è proprio delle genti italiane, non sia stato punto talvolta da una commossa affettuosità verso il quadrupede che per le petraie, sulle sabbie e tra le spine sopporta con noi da mesi la quotidiana fatica.

Stivati nel fondo delle navi, soffocati dalle calure di Suez e del Mar Rosso, viaggiarono con noi muli italiani e siciliani; ogni battaglione era fornito del numero regolamentare ed anche di più. Ma presto l’ambiente esotico, il caldo e la peste mieterono vittime fra gli equini. I mancanti furono sostituiti dai complementi locali. E come di fianco alle truppe nazionali combattono i bei Battaglioni indigeni, così di fianco al mulo di razza /240/ italiana, grosso e solenne come un monumento, abbiamo visto porsi il focoso muletto abissino.

Nella vita moderna la maggior parte dei trasporti di persone e di materiali viene effettuato non più con i vecchi quadrupedi, ma con gli automezzi: così pure è avvenuto nelle congestionate retrovie sorte come per incanto sotto il braccio dell’operaio italiano nella nostra crescente colonia. Però, verso le prime linee, sondate nell’impervio terreno, il motore non può sostituire il mulo, nè l’autista il vecchio salmerista.

Dove si addensano le incognite dei pericoli, dove oggi l’esplorazione dà all’uomo l’ebbrezza eroica ispirata dal motto: «Viam aut inveniam aut faciam»,1là vi è il mulo, o superbamente sellato e montato dai comandanti delle belle Compagnie, o umilmente imbastato e recante le armi pesanti ed il fardello dei combattenti. Molte fatiche dell’esercito peregrinante nell’impervio Continente Nero sono addossate alle robuste groppe del forte quadrupede. Tutte le nostre vie, prima d’essere allargate ed assodate dai rotabili, sono segnate dallo zoccolo ferrato o no dell’animale, e spesso dal suo corpo abbattuto sui margini appena tracciati della mulattiera, pascolo alle iene, ai corvi ed ai nugoli di falchetti montani.

Il mulo, ibrido voluto dall’uomo per il proprio servizio, pare sentire istintivamente lo scopo che la natura e l’uomo gli hanno assegnato. Fra i nostri muletti molti se ne trovano che con una te- /241/ stardaggine veramente mulesca non muovono un passo se non cammina davanti a loro l’uomo.

Immagini tra le pagg. 240 e 241
Prima Messa

La prima Messa celebrata da P. Giuliani in territorio etiopico
(Zeban Bachinienà, Ottobre 1935-XIII)

Muletto

Nel Tembien col suo muletto

Camicie Nere

P. Giuliani in mezzo alle sue Camicie Nere che tanto amava

Funerale

Funerale di un eroe caduto a Debra Amba

Puoi dare curbasciate a sangue, puoi sparare a certi recalcitranti animali, non li costringerai adi incamminarsi se non quando avran vista avanzare l’ombra dell’attendente. Questa bizzarria è comunemente ritenuta un difetto, specialmente quando, in arcioni, hai bisogno di prendere un’improvvisa e solitaria direzione e la contrarietà della bestia ti fa smaniare e inutilmente inferocire: ma, a ben considerarla, potrebbe apparire anche una virtù: la virtù di seguire sempre l’uomo. Inoltre, nel mulo, appare evidente quel mimetismo universale che modifica e livella gli esseri ed ha coniato l’evidentissimo proverbio: «Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei». Non solo le virtù strettamente morali, ma pure le qualità fisiche paiono talvolta rompere la scorza dell’individualismo per travasarsi da un essere all’altro in una, sia pur relativa, comunione d’ambiente. L’animale che convive con l’uomo depone gli istinti feroci, si addomestica e pare talvolta umanizzarsi, e per la stessa legge sovente l’uomo s’affratella coll’animale ed imbestialisce.

Questo rilievo è facile a noi che osserviamo le relazioni che passano fra l’animale ed il milite che lo ha in consegna, fra il mulo e il mulattiere. L’ordine o la trascuratezza di questo nel dare il foraggio, nell’abbeverata, nella pulizia non solo sono sempre manifesti nell’animale, ma si direbbe che tutti gli istinti della bestia vengano modificati dalla cura dell’uomo. Un mulo eccellente diventa biz- /242/ zarro per l’incuria del custode o per l’inettitudine del cavalcatore: mentre che una bestia indomabile si fa docile nelle mani o sotto l’arcione di provetti.

Non è quindi da tenersi in poco pregio, in Africa soprattutto, l’occupazione del salmerista. Non si può considerare le salmerie come il rifugio di tutti gli inetti agli altri servizi del battaglione. Ci vuole arte e scienza e cura in ogni servizio della Patria. La scienza e l’arte saranno impiegate dai nostri bravi ufficiali veterinari: ma la cura modesta, paziente, talvolta eroica viene data dalla generosità inesausta delle nostre Camicie Nere addette alle salmerie, fra cui trovi spesso qualche artigiano, qualche cittadino che evidentemente non aveva mai avuto famigliarità di sorta con i muli, e che tuttavia, con l’intelligenza abile a tutto e con lo spirito di sacrificio, che compie miracoli, riesce ad adempiere alla perfezione il non aristocratico dovere.

È interessante assistere al governo alla mano che gli uomini van facendo al quadrupede. Uno psicologo rileva con la maggior evidenza tutte le qualità umane che nel libero tratto con la bestia incosciente, spontaneamente fioriscono. La gentilezza dell’animo di alcuni si abbandona a certe tenerezze di parole e di modi che sanno di ingenuo affetto.

«Io e il mio mulo ci diamo del tu,» scriveva una Camicia Nera ai parenti lontani, con un’espressione indovinata della mutua intima comprensione.

Vi è chi al mulo dà gli ordini con parole gar- /243/ bate, lo esorta, lo sprona con gentili espressioni e ragiona con l’illusione di essere compreso.

Chi può dire gli artifizi, i sacrifici che fanno certi solerti mulattieri per procurare alla loro cara bestia un miglior foraggio o una manciata di avena in più della razione? Quando poi la soma da porsi sul basto è giudicata superiore alle forze dell’animale ben conosciuto ed altrettanto amato, il mulattiere non risparmia le rimostranze e prende le parti del suo tutelato meglio che se fossero le proprie.

Ed ha ragione, anche perchè gli incidenti incresciosi della strada sono a danno sia del mulo che del mulattiere. Quando alla soma sono impari le forze, quando il carico non è ben distribuito, il quadrupede s’attarda o s’abbatte ed il poveromo che l’ha in consegna passa dei brutti guai, perchè deve uscire dalla colonna per attendere lunghe ore di giorno e di notte un rinforzo che quasi mai giunge, sui margini sovente infestati dalle hande armate. Mi si raccontò che dopo una recente imboscata del crudele e selvaggio nemico, fu trovata la salma di un combattente aggrappata al collo della sua bestia, parimenti uccisa: la solidarietà del legionario d’Africa col suo fedele servitore, il mulo, non può meglio essere rappresentata che da quel groviglio dei due corpi, sì diversi eppure fusi nel sangue, straziati nella stessa battaglia, per la stessa causa, dallo stesso barbaro avversario.

E pur senza questa immolazione, i nostri muli ci offrono continuo argomento di meditazione su /244/ molte virtù, e potrebbero ispirare un poema intero a un favolista moderno.

Il carico deve essere proporzionato alla sua forza specifica e individuale: il muletto abissino porta una soma che si aggira sui settanta chilogrammi. Il cammello porta di più: ma è più lento. Il cavallo pure sopporta maggior peso, ma ha minor resistenza ed è più prezioso. L’asinelio porta sempre un peso minore: e tuttavia il suo concorso nei nostri trasporti non è disprezzabile. Ma l’asino viene adibito ad un prezioso servizio di complemento nei Battaglioni: molti asinelli ci furono consegnati dall’amministrazione militare e furono presi in forza regolarmente ed a questi se ne aggiunsero delle diecine reclutati per via o, come si dice dai militi, «arruolati» a portar gli zaini al seguito dei plotoni ed a scendere quotidianamente alle fonti, coperti dalle numerose borracce per il rifornimento ìdrico. L’asinello non richiede alcun speciale foraggio e quindi senza difficoltà può seguirci nelle nostre corse, alle quali i rifornimenti sono sempre limitati.

Ma neppure il mulo ha molte necessità: i muletti abissini soprattutto paiono aver ridotto all’estremo i requisiti del loro meschino vivere. Sovente, sprovvisti di biada in terreni aridi, disseccati dalla stagione, ci siamo chiesti se proprio fosse il caso di credere che queste povere bestie vivessero d’aria, come i camaleonti delle antiche favole. Gli equini che l’uomo ha assunto al suo servizio furono normalmente forniti ed armati di ferri agli zoccoli: ma i muletti di questo paese non hanno neppure /245/ bisogno di questo ammennicolo. I maniscalchi sono superflui per i muli abissini, che hanno un’ugna densa e forte per mordere senza danno le rocce più dure.

Tutti gli indigeni vanno scalzi su questa arida terra dell’Africa Orientale, dal muletto all’ascaro, dallo schiavo al Negus, il quale ultimo oggi più che mai pare scalzo, scalzo come un cane o come un mulo.

Vi fu un tempo in cui, consumate le scarpe nella marcia continua e tardando a giungere i nostri rifornimenti, pure buona parte dei nostri militi camminavano scalzi. I piedi facevano sangue e spesso si piagavano con noiose piaghe tropicali: ma non cessarono dal battere la terra africana, dall’andare avanti, senza arrestarsi, senza richiedere la visita medica. Occupando il paese di Abbi-Addi alcuni militi camminavano in queste tristi condizioni, sulle quali fu richiamata l’attenzione del generale Filippo Diamanti. Ed egli rispondeva:

– Non fatemi piangere di più: purtroppo lo so che sono scalzi. –

Fu provvisto anche a questa bisogna, ma è bene non dimenticare nessuno dei molti sacrifici, che sono stati fatti per glorificare l’amor di Patria dai legionari d’Africa.

Non è difficile scoprire nel mulo altri pregi preziosi. Nella diuturna convivenza, noi abbiamo, per esempio, apprezzato assai il suo silenzio relativo. Il cavallo ha un nitrito di nobiltà che raramente dà fastidio, anche perchè di rado si fa sentire. Ma gli altri nostri quadrupedi spesso ci infastidiscono.

/246/ Il cammello gibboso, che fra tutti ha una voce più sgradevole, pare dilettarsi di lacerare i ben costrutti orecchi: si lagna mentre lo si carica, e ne avrebbe forse motivo: ma si lagna pure quando viene scaricato. Si lagna quando è costretto ad accosciarsi e anche quando si alza.

È nota la sgradevolezza della voce asinina. Bene è vero che, come dice il proverbio: «raglio d’asino non sale in cielo», ma è pur vero che di notte i nostri accampamenti rintronano di sonorissimi ragli che disturbano il relativo riposo notturno e che svelano al nemico la nostra celata presenza.

Il mulo è più taciturno perchè più modesto e sapiente: anche per questo motivo si può dire che nel suo ibridismo trionfa l’elemento paterno del nobile cavallo sulla maternità asinina.

Si vorrà fare colpa al mulo abissino della sua innata focosità? Ma dove gli uomini sono barbari, sarà comprensibile che le bestie siano focose, ombrose e bizzarre. Gli scalzi Ras, assisi su una sella di legno, mal celata da un tappetino arabo, acquistano vanto dai movimenti impetuosi dell’umile cavalcatura. Del resto sprone e curbàsh frusta curbas sapranno domare e piegare al servizio dell’abile cavaliere anche le più riottose tendenze della più stupida ombrosità. In qualche caso bisogna però confessare l’inutilità dei conati del domatore; vi sono certe bestie pienamente ribelli, testarde all’inverosimile. È propria della natura del mulo la cosiddetta testardaggine, e bisogna ricordarlo soprattutto quando ci si incontra con animali tipici. Il mulo non è nato pecora e una sua docilità non è /247/ normalmente frutto che dello stimolo sapiente dell’uomo. Ciò è tanto vero, che quando si vuole indicare la massima cocciutaggine d’un ragazzo si dice che egli è testardo come un mulo. Nella testardaggine questo animale segue sempre l’istinto naturale, proprio all’opposto di quanto succede, per esempio, per il mulattiere bestemmiatore, di cui si possono ripetere giustamente i versi di Shakespeare: «Egli ha ragione e se ne vale per essere d’ogni bestia più bestiale».

Inoltre, quando all’Italia delle sanzioni e a noi combattenti d’Africa canta in cuore un italico ritornello che suona così: «Tieni duro!», siamo tentati pure di esaltare la tenacia di queste innocenti bestiole che, con quell’apparenza di virtù che natura pose in loro, ci insegnano a fortemente volere sino alla morte, sino alla vittoria.

E veramente la tenacia di questi muli è forte sino alla morte: la fatica da sola non li abbatte: contro le privazioni del necessario si mostrano estremamente resistenti. Molti vengono fiaccati e poi piagati sul dorso dai basti inadatti. Altri sono presi dalla peste equina, fatale epidemia che li decima crudelmente, senza però nuocere alle persone. L’epidemia stessa che all’estremo li abbatte inesorabilmente, non li costringe a lunga inerzia. I poveri colpiti continuano a lavorare sino all’ultimo, sì che paiono, come il Don Ferrante manzoniano, non ammettere l’esistenza della peste sin che la peste non li porti via.

Mentre sto scrivendo agonizza il muletto abissino che per otto mesi fu la mia cavalcatura in /248/ terra africana. Sin da quando mi fu assegnato gli imposi il nome di «Areghit», che in africano significa «vecchio». Con tal nome l’appellai, non perchè realmente esso sia vecchio: non conta infatti che sette anni: età matura, non di vecchiaia per un mulo. Ma il suo pelo rosso-grigiastro e una certa andatura solenne e grave gli dava una cert’aria di maturità, per cui da tutti fu stimato indovinatissimo l’epiteto. Benché non fosse nato con le ali ai piedi, come certi suoi fratelli abissini, con una buona curbasciata si metteva ad emulare nel trotto e vinceva nella resistenza i migliori. Mi ha servito inappuntabilmente nelle corse affocate dei Battaglioni, portando pure gli zaini dei militi più stanchi, ed era sempre il primo ad essere sottoposto ad un improvviso carico dall’ultimo sopraggiunto a ricercare un mulo nelle comuni salmerie. Perciò era comunemente conosciuto e prediletto.

Ora è là in un campo, isolato, all’ombra magra di un’acacia spinosa, con gli occhi gonfi e le nari tumide e la bocca schiumosa: sta per lasciarci, con dispiacere mio e di quanti lo conoscono.

Noi amiamo queste care bestiole, per i servizi che ci rendono, per la fedeltà che paiono mantenere alla mano che li guida e che pure talvolta li deve percuotere. Ci sentiamo affratellati ad essi nell’impresa e nella morte. Anche coloro che non diedero mai il nome alla società protettrice degli animali, hanno cure affettuose pei muletti e non incrudeliscono contro di essi: pure i più giovani, i «balilla» dei nostri Battaglioni, che si divertono a lanciar sassi ed a sparare qualche furtiva mo- /249/ schettata contro le scimmiette fuggenti sui monti, col mulo han delle tenerezze che commuovono. Uno di questi ragazzoni mi diceva un giorno:

– Quando sarà finita la guerra vorrei fare un monumento al mulo: io sarò in arcioni, e avanti al mulo d’Abissinia, a reggere le briglie, metterò il.... Negus. –

VI

Motori nel Tembien

(3 dicembre 1935-XIV)

Verso la fine di novembre l’ordine di operazione del Corpo d’Armata Eritreo venne a darci il «Via» da Hauzien, dopo il bivacco di un paio di settimane. La colonna delle nostre truppe preceduta e fiancheggiata dalle pattuglie, uscì a scaglioni dal campo trincerato e si diresse verso le pendici del massiccio del Gheraltà: raggiunte le quali più non se ne staccò lambendole per tutto l’ampio giro che si stende a nord-ovest. A sinistra i fianchi del colosso tagliati spesso a precipizio, quali muraglie immani di turriti castelli: sulla destra l’ampia e collinosa convalle, chiusa a tergo dalle lontane erode dell’Entisciò.

Siamo perfettamente i primi, i veri esploratori di regioni dove, a memoria d’uomo, non s’è mai visto un bianco: il nostro piede viene quindi a conquistare una terra vergine. Ce ne accorgiamo dalla impraticabilità del terreno, che, quantunque /250/ scelto e corretto sulle tracce di una consunta mulattiera dalla perspicacia del generale Diamanti, che è sempre alla testa dei suoi Battaglioni, non offre che rari tratti di pianori facili al transito soprattutto per le ruote del nostro equipaggio. “...acciantellati carri veloci...” Le “ciantelle” letteralmente “ciabatte”, erano piastre metalliche che si applicavano alle ruote delle artiglierie per aumentare la base d’appoggio ed evitare che affondassero nel fango. Il Giuliani usa qui questo termine per indicare le maglie di cui sono composti i cingoli dei carri armati.
Il “carro veloce” CV33, in seguito ridenominato L3/33 (L sta per “leggero”), ed il suo successore CV35 o L3/35, furono piccoli carri armati, del peso di poco più di tre tonnellate, armati non con un cannone, ma solo con due mitragliatrici, impiegati nella guerra d’Etiopia e in seguito, con esisti disastrosi, nella II Guerra Mondiale.
L’“Ardita del Signor Generale” è la Fiat 518, che fu costruita anche in versione Coloniale
Perchè bisogna sapere che, questa volta, marcia con noi l’undicesimo squadrone di acciantellati carri veloci con un paio di autocarri. Ovunque è nientemeno che l’Ardita del signor Generale: la quale, non v’è bisogno di dirlo, fa da testuggine in capo alla colonna. Ardimento vittorioso come tutti gli ardimenti italici: poichè la solida vettura cui la Fiat impose il nome storico e fatidico, dopo più che cinquanta chilometri di collaudo senza paragone, intatta e splendente sta ora nel nuovo centro del campo trincerato, come una gemma nell’incastro, pronta a novelle prove.

La brughiera più accidentata di sassi e cespugli del suolo italiano non offre alle ruote difficoltà paragonabili a quelle che s’incontrano quassù. I primitivi che levigarono con i piedi scalzi queste pietre non hanno mai curvato il dorso per facilitare l’accesso con l’opera del braccio, ma quanto non fu fatto nei millenni viene ora miracolosamente compiuto dalla penetrazione delle Camicie Nere che, in tre giorni, gettano un nastro ardito della lunghezza di cinquanta chilometri sulla terra selvaggia. I nostri uomini dovrebbero essere sfatti dal rigore del clima, dalle privazioni inerenti ai due mesi di movimentata guerra logistica; eppure, quante fatiche eroiche consumate sotto il solleone meridiano, con il piccone e con la marra, per li- /251/ vellare guadi, per rimuovere macigni, per incidere sui fianchi pietrosi ampia e facile strada. Lungo la marcia della colonna si distaccano le squadre e, zaino a terra, moschetto a tracolla, impugnano il piccone; talvolta, una compagnia o un intero battaglione rimane scaglionato sul cammino per una giornata a compire opera più diffìcile. Ma la celerità è sbalorditiva: i carri d’assalto fanno, rombare i motori nelle orecchie tese dei nostri muletti e s’avanza, s’avanza superando ogni ostacolo con la forza viva dell’entusiastica fede che agita i cuori. Vi furono dei momenti di questa avanzata in cui l’ebbrezza dello spirito fu tanto alta, quanto profonda avrebbe dovuto essere la stanchezza delle membra.

Nella seconda tappa, ci venne incontro il Fitaurari del paese successivo detto Quararò. Recava una carta ottenuta dal Comando militare di Macallè che lo dichiarava suddito fedele di Ailé Selassié Gugsà il degiac di Adigrat che da tempo era passato alla nostra parte con tutti i suoi armati. Il Fitaurari di Quararò veniva a noi in forma solenne con la testa ricciuta coperta di un aristocratico casco, vestito sotto la tuta, di un’elegante divisa color kaki. Capeggiava un corteggio di uomini e un moretto gli portava, avvolto in cencio giallo un nuovissimo moschetto belga. Il signore ci fece intendere che avremmo trovato migliore strada dal- /252/ l’altra parte, e alquanto baldanzosetto insisteva nelle sue proteste. Ma il tono fermo e deciso del nostro Generale lo persuase del contrario a tal segno che egli divenne il nostro cooperatore più efficace e, nelle tappe successive, ci portò egli stesso i capi e i cascì dei paesi limitrofi a prestare omaggio al Manghestì d’Italia.

Quando giungemmo a Quararò, il borgo dominato dal suo ghebì, ci si fece incontro con tutti i suoi uomini che restarono sbalorditi dinanzi ai carri veloci. Ci fece visitare prima di tutto un antichissimo monastero addossato ad un’alta forra e in parte scavato nella roccia viva. Un getto di acqua della grossezza di un polso sgorga perenne dalla pietra, ai piedi del cadente monumento, alimentando dei secolari sicomori, che rendono ombroso e ameno l’anfratto. Una cinquantina di monaci oziosi e girovaghi abitano quei tuguri e tucul circostanti.

Sulla sera, egli fece assidere il Generale sulla vetta del colle del suo ghebì e vi presentò a turno i notabili dei sei distinti paesi che portarono ai piedi di quel trono improvvisato, centinaia di polli e di uova. Tutti proclamavano la loro gioia per l’avvento degli Italiani e per la liberazione dai «briganti».

Le truppe sbandate del fuggitivo Ras Sejum dovevano aver sparso il terrore per tutta la vallata: e, del resto, la vita di questi primitivi, anche in tempi normali, veniva di frequente turbata da grassazioni e rapine cui era impotente mettere rimedio la tarda e venale opera dei rappresentanti /253/ del Negus. L’arrivo degli Italiani rappresenta quindi per questo pacifico popolo di pastori e di rozzi agricoltori, una insperata liberazione dal millenario stato di continue malversazioni.

Dopo una gelida nottata, battuta dal vento impetuosissimo, ci preparammo a riprendere il cammino. Il Fitaurari venne a salutare il signor Generale, portandogli, ultimo suo dono personale, un grosso caprone. Raccattò quindi con profonda serietà, quanto più potè dello scatolame buttato dalle cucine e attaccò briga con parecchi dei suoi, affine di spogliarli della identica preda.

Nel paese successivo inoltrato per otto chilometri nel Tembien fummo accolti con non minori segni di giubilo. Parte degli uomini ci corse incontro, e molti, si posero ad aiutare i militi nel rimuovere i sassi che ostruivano il passaggio alla macchina. Altri ci attesero sui roccioni circostanti con il coro delle donne, trillanti il gorgheggio di giubilo abissino. Mentre si rizzano le tende il signor Generale deve sedere a ricevere l’omaggio e i soliti donativi dei capi dei paesi prossimi accorsi alla novella dell’arrivo degli Italiani. Malati di ogni genere dai lebbrosi ai tracomatosi, si portarono poi dai nostri medici per avere il primo sollievo dell’umana civiltà. Abbiamo però presto notato che in questo, come negli ultimi paesi attraversati, non si vedeva la testa di un bovino. Eppure è ne- /254/ cessarlo sfamare la truppa; bisogna a cui, tardando i rifornimenti, non si può provvedere che con bestie grosse.

Il capo e il cascì, alle preghiere di venderci qualche bovino, non risposero che con buone promesse all’orientale. Ma al tardo mattino successivo, diverse pattuglie dei nostri militi scovarono in lontani pascoli le mandrie nascoste e le spinsero sino al bel mezzo dell’accampamento. E allora i pastori vennero a parlamentare, riconobbero con grandi segni di pentimento il loro torto e cedettero al prezzo pattuito quante bestie ci abbisognarono imparando che l’italiano non è un razziatore da equipararsi al selvaggio abissino. I militi intanto si satollano e a stomaco non digiuno, possono vegliare questo estremo lembo conquistato alla Patria contro le insidie notturne dei nemici e sentirsi pronti a gettare domani la nuova strada che richiederà nuovo sudore e nuovi sacrifici.

Ho rilevato lo stupore esterrefatto degli indigeni alla vista dei nostri motori rivestiti di acciaio, ma devo pur far notare quanta sicurezza infonde nella nostra truppa l’accompagnamento marziale del rombo di un motore. Questi piccoli carri veloci, formati dal congegno di innumerevoli pezzi d’acciaio coronati di ciantelle metalliche completamente corazzati con la doppia canna della mitragliatrice protesa, sono l’orgoglio del milite che /255/ gli apre la strada e che talvolta li sente passare d accosto alla propria squadra, con la velocità sfrenata di una vettura da corsa. Quanti Alalà vengono gettati nell’aria all’indirizzo dei motocarristi! Rinchiusi quasi ermeticamente, come nei doppi fondi d’un sommergibile, il pilota e il mitragliere vengono sballottati nella piccola cella di acciaio, così che quando ne escono vi aspettereste di vederli barcollare quasi sfiniti, mentre invece sovente quegli uomini, deposto il casco di cuoio, svestita lestamente la tuta blu, vi si presentano quali eleganti ufficiali dei Cavalleggieri Guide.

Se i carri veloci dovranno domani affrontare per la prima volta un vero e proprio combattimento, riveleranno appieno il valore di questa mobile testuggine, seminatrice di pànico e di piombo. Ma la sorte dei due rinchiusi potrà essere forse più o meno fatale. Sentii in questi giorni due autocarristi che, esaminando la loro macchina, scherzosamente si chiedevano:

– Come faranno i nemici a farci arrostire dentro a questa padella? –

Il motore della moderna guerra ha risolto pure gran parte dei faticosi servizi logistici: ma se ha liberato l’uomo e la bestia da una parte del fardello di combattimento, per altra parte ha aumentato il lavoro e le tribolazioni di quel combattente autentico che si appella l’automobilista. Nella passata guerra mondiale il fante s’era adusato a regalare l’appellativo d’imboscato all’automobilista che, certo, non divideva con lui i gloriosi triboli d’ella trincea. In Africa non ho ancora sentito re- /256/ galare questo titolo ai guidatori delle lunghe colonne di carri, che sfilano a centinaia sulle recenti strade: forse perchè è troppo evidente lo strapazzo di questi buoni ragazzi, inchiodati ai volanti impolverati, sulle non assodate strade.

I pericoli della macchina sono molti, ma grazie a Dio, per la maturità precoce dei bravi guidatori, le disgrazie sono pochissime. Ma quante volte la giornata dell’autista tutta fatta di corse veloci, di pazientissime attese per guasti repentini, con la sprovvista dei pezzi di ricambio o di benzina o di pane, è tutta una trama di sventura. Una Camicia Nera del nostro auto-drappello ha scritto sul proprio casco questo chiaro motto: «donne e motori, gioie e dolori». Il commento, agli ammogliati e anche.... agli scapoli. Ma i visi impolverati degli autisti sono sempre sorridenti, perchè il cuore è sempre in festa: il cuore piegato sulle leve, come il cuore del pedone che, a zaino affardellato, morde lo spazio selvaggio conquistato alla Patria. È tutta vibrante forza italica che si scatena con amore, con gioia, con entusiasmo, sulla preda che il Dio di giustizia le ha assegnato.

Le ruote volano, i motori stridono sotto il solleone e lo stellato magnifico dell’Africa tenebrosa, per le grandi arterie delle retrovie create dal genio di questo nuovo popolo fascista che, finalmente, si è aperto una decorosa via di espansione. E non solo per le retrovie corre il motore, ma fino agli ultimi mobili avamposti, dove alla comparsa del nuovo mostro squamato di acciaio, stupisce il creato e i piccoli moretti ignudi guardano dai bian- /257/ chi occhi spalancati o fuggono a nascondere il viso in grembo alla mamma, ignari che nel rombo del motore, squilla la diana della resurrezione e della civiltà, per tutto il popolo d’Abissinia.

Immagini tra le pagg. 256 e 257
Cappellano

Padre Giuliani Cappellano delle Camicie Nere
(Gruppo del Gen. Diamanti)

Clicca per ingrandire

Ultima Messa

L’ultima Messa del P. Reginaldo Giuliani presso il fortino dei Leoni - 19 Gennaio 1936-XIV

Clicca per ingrandire

VII

La crociata dell’Africa Orientale

(9 dicembre 1935-XIV)

L’impresa cui s’è accinta l’Italia, titanicamente lottando e in Africa e dentro ai confini del paese, con la luce del genio del suo Governo e con la cooperazione compatta, quale mai si vide, di tutto il suo popolo, può essere paragonata, senza molte eccezioni, a quelle spirituali fiammate di fede e civiltà che divamparono fra i popoli esuberanti del cristiano medio-evo e che la storia segnò a larghi capitoli col titolo di Crociate, le stesse difficoltà, che la politica internazionale ha suscitato contro l’impresa italiana sin dal suo primo momento, nascono da quelle gelosie di nazionalità, da quei contrasti di interessi che comparivano palesi al sorgere di ciascheduna crociata e l’accompagnavano per tutta la sua durata, non represse e trionfate che dalla politica sagace di qualche grande, quale fu il santo papa Pio Quinto, il cui nome è legato alla vittoria di Lepanto.

Oggi, mentre l’Inghilterra con tutti i suoi insipienti cinquanta accoliti arma ipocritamente il proprio egoismo e gli inutili conati della massone- /258/ ria internazionale con le inumane sanzioni per intimorire l’intrepidezza della nuova Italia, appaiono più che evidenti le ragioni del raffronto. Ma è soprattutto esaminando da vicino, vivendo nel cuore della gesta africana che l’animo cristiano si conforta, si esalta nel paragone delle finalità, dei mezzi, degli ardori che coronarono di gloria le antiche crociate e che, certamente, non permetteranno alla Divina Provvidenza di lasciare senza corona, il nostro sacrifizio.

Il compiacente Ras di Harrar in una recente conversazione amichevole con il Console italiano lo urgeva con queste domande:

– Non ci sono nel tuo paese terre belle quanto queste nostre?

– Sì, e ancora più belle, – rispondeva il Console.

– Non ci sono alberi e fiori come i nostri?

– Sì, e ancora più belli.

– E non avete case come le nostre?

– Sì, e ancora più belle.

– E allora perchè volete venire ad occupare le nostre terre e le nostre case? –

Tali interrogazioni non sono nuove. Vecchie volpi di tirannelli, minaccianti proscrizione e morte, le hanno ripetute cento volte ai missionari della Chiesa cattolica. Al Ras di Harrar, rappresentante autentico di un’autorità usurpatrice (gli Amhara sono /259/ invasori delle altre regioni dell’Abissinia, e il Negus, con usurpazione evidente, occupò il sommo potere) noi non chiediamo di conoscere, in antecedenza, il diritto di espansione del popolo italiano, ma, mentre da una parte gli dimostriamo, con fatti recenti, che l’Italia riconosce e intronizza le autorità indigene che non le si oppongono, dall’altra, vogliamo che sia noto essere l’Italia la tradizionale vindice di quella Civiltà a cui hanno diritto imprescindibile tutti i popoli della terra; diritto sociale a cui non si può rinunciare, come l’individuo non può rinunciare al diritto, che è pure dovere, della vita. L’Italia sente questa sua missione e cerca di attuarla soprattutto nel momento e sul campo che la Divina Provvidenza le ha segnato. Tutti i gregari d’Africa sono permeati da questo doppio spirito di combattenti e di civilizzatori.

E non è difficile per le nostre truppe investirsi di questo duplice spirito sul teatro africano, splendido per natura, tragico per le rovine accumulate da millenaria barbarie. Quanto più ci inoltriamo nelle regioni dell’Abissinia, terra senza frutti pur sotto un clima così propizio all’agricoltura, tanto più palesi ci appaiono le profonde miserie del suo popolo. Come i poveri corpi denutriti, mal coperti, non curati da alcuna previdenza igienica, sono preda facile ai morbi più ripugnanti, così tutta la vita sociale e spirituale è qua insanabilmente inquinata.

Le carovaniere sono abitualmente infestate dai briganti di mestiere che improvvisano pedaggi su /260/ uomini e merci, moltiplicando all’infinito le dogane numerosissime che stanno ai confini dei molti degiaccati. Tale brigantaggio è un mestiere rimunerativo, non solo, ma anche onorifico a segno che molti degli attuali Ras o Degiac si gloriano di aver passato le stagioni in cui erano caduti in disgrazia del potere centrale, esercitando con un pugno di armati, il nobile mestiere del brigante. Questa piaga radicale della vita sociale abissina, il buono e vero popolo la detesta, benché impotentemente. Quando abbiamo occupato, alcuni giorni or sono, la capitale del Tembien, Abbi-Addi, il paese era stato taglieggiato sino all’ultimo momento, da una banda che per estorcere talleri minacciava di creare una opposizione all’entrata degli Italiani «e questi» essi dicevano «per vendetta, incendieranno i vostri tucul».

Dopo aver ricevuto il denaro, misero ad effetto la loro minaccia scaricando i fucili contro le nostre avanguardie. Ma immenso fu il giubilo di tutta la popolazione, quando fra i morti (tutti dalla parte dei briganti) fu rinvenuto il cadavere del famigerato capo-banda.

Se l’Arcivescovo anglicano di Londra avesse conosciuto tutto ciò non avrebbe certamente implorato dal mondo cristiano, la continuazione del cancrenoso stato di cose, dinanzi a cui inorridisce ogni animo civile.

/261/

Il sentimento religioso del popolo abissino è per tradizione fortissimo. Fra poche minoranze mussulmane ed ebraiche, il popolo vive nella fede del Meschel, la croce di Cristo, della Vergine e dei suoi Santi. Celebra con una frequenza fantastica (un paio di giorni alla settimana) feste di precetto, che sospendono ogni lavoro. Le chiese che, all’esterno, vanno dalla capanna alla costruzione rustica in pietra e fango (che però talvolta porta delle linee di un certo qual gusto di arte primitiva), all’interno, presentano un’universale trascuratezza e un’indecenza ripugnante. Poche sono le chiese monumentali antiche, perchè le più insigni furono distrutte, fin dal medio-evo, dalle orde di Mohamed Gragne. Veneratissima è la Basilica di Axum (più volte ricostruita con materiale di antichi templi pagani) per la credenza di custodire le tavole della legge, affidate da Dio a Mosè sul Sinai.

Ricordo ancora le chiese monolitiche di Lalibelà nel Lasta e quelle analoghe che io visitai nel Tigrai e nel Tembien, scavate nella viva pietra del massiccio del Gheraltà. Nella più che millenaria chiesa di Hauzien, nascosta all’esterno dall’apparenza di una capanna, e nell’interno scavata, a tre regolari e belle navate, nella roccia viva, con i pilastrini intagliati di blocco nella stessa roccia, per una indiscrezione dei miei militi potei vedere /262/ le due immagini veneratissime e sempre gelosamente velate nella parte più remota del tempio: con mia grande sorpresa constatai che queste niente altro erano che due ordinarie policromie tedesche stampate su carta, rappresentanti l’una un Cristo morto, e l’altra la Vergine Assunta. Contrasti africani!

Tutta la pratica del culto cristiano è infarcita di superstizioni, residui mai recisi di antiche pratiche idolatriche o mosaiche o mussulmane. La circoncisione è praticata universalmente; pure è in uso la distinzione fra animali mondi e immondi e l’uso di non mangiar carne macellata da gente di diversa religione. Il Regio Esercito italiano deve far confezionare per gli ascari copti lo zighinì (carne drogata) dai monaci del convento di Bizen, che ne garantiscono al consumatore l’autenticità con il loro bollo crociato, impresso su ogni scatoletta di carne; come per le truppe mussulmane, che normalmente formano i reggimenti di artiglieria indigena, devesi far controllare e bollare ogni scatola dal timbro del grande ufficiale Seyed Giafer El Morgani dell’Asmara.

Il clero è formato di gente di scarsissima istruzione: vive con la rendita dei campi assegnati alle chiese, con le regalie di pochi talleri annuali e con la somministrazione del vitto da parte delle famiglie che vi provvedono a turno, in ogni paese.

I cascì contraggono matrimonio, ma non possono passare a seconde nozze a meno di rinunciare definitivamente alla carica sacerdotale. Fra i muratori indigeni che io assunsi per la costruzione /263/ della chiesa di Adi-Caieh, vi era appunto un prete decaduto per questo motivo: egli tuttavia si conservava osservantissimo copto. La casta sacerdotale è tutta stretta nella morsa politica della Autorità Suprema, dalla quale dipende il patriarca di Addis-Abeba e l’Ecceghiè (capo dei monaci). Il patriarca, per téma che l’Abissinia sfuggisse alla giurisdizione propria e di colui che lo aveva mandato (il patriarca copto di Alessandria) non volle riconoscere mai nel clero etiopico la capacità di conseguire la dignità episcopale e solo di recente si piegò a consacrare alcuni vescovi coadiutori indigeni con limitato potere.

I monaci dipendono pure direttamente dall’autorità regia che nomina il padre spirituale di tutti i conventi: questi però non ha alcuna influenza reale sulla moltitudine di monaci oziosi e specialmente dediti a traffici politici. Appare quindi evidente che sarebbe follia sperare un risanamento sociale, da una religione in cui l’elemento cristiano primitivo è rimasto soffocato dal peso della millenaria eresia, della superstizione e della volgare politica. Che, anzi le prime energie che dovrebbero venire ristorate, sono appunto le forze strettamente spirituali, le quali potranno poi influire universalmente sull’anima religiosa del buon popolo abissino, per darle la pienezza gioiosa della sana vita sociale. Ne noi ci possiamo illudere pensando che la babele protestantica d’Albione possa avere la forza atta a troncare la senescenza dell’eresia africana. Solo la forza integrale cattolica potrà tentare con la dolce e tenace persuasione dei suoi /264/ apostoli, l’opera lunga e sacrificata che ricondurrà all’ovile di Cristo le nere pecorelle.

Durante la prima guerra d’Africa, agenti interessati diffusero false voci cercando di far credere alle masse ignoranti, che esistesse un abisso insormontabile fra la religione cattolica e la copta. Oggi, invece, notiamo, spesso con stupore, che i più intelligenti cascì ci dicono: «Noi siamo cristiani come voi». Ciò avviene per influenza del lavoro missionario in Eritrea e per tutta l’Abissinia; per le simpatie che si vocifera siano nutrite dal Negus Ailè Selassiè verso il Cattolicismo; e soprattutto per la moda di europeizzarsi, che ha preso gli abissini evoluti.

Io stesso nella costruzione della chiesa cattolica per gli indigeni di Adi-Caieh (i cattolici abissini hanno molte cerimonie, costumanze e la lingua stessa rituale, comune ai copti), ho notato con piacere la tendenza dei capi cattolici a seguire gli usi latini. L’universalità del Cattolicismo che, per la saggezza della Chiesa Romana sa mantenere immutabili i capi saldi, pur concedendo quelle variazioni policrome che sono appetite dai gusti dei diversi popoli, faciliterà la soluzione di molte divergenze. E la bandiera dei tre colori, legata all’asta della Croce, può quindi avanzare quale vela gonfia della barca apostolica, sicura di portare con sè la redenzione sociale e spirituale del popolo abissino.

/265/

Il popolo di combattenti, che volontarismo o precetto di autorità ha adunato nei Battaglioni africani, è mirabilmente vivificato dalle alte idealità del più puro ed eroico patriottismo italico.

Il contatto immediato con la meravigliosa natura che ci riflette, meglio di qualunque opera umana, la trascendenza del genio e del cuore del Creatore; la vita che, spoglia di tutti gli artifizi, si è ridotta alla semplicità del necessario; le fatiche eccezionali e i sacrifici che sono quotidiani; il cameratismo vero che quassù si impone e trionfa di quella universale eresia pratica moderna Stanislao Martino Gillet 1875-1946, francese, fu Maestro Generale dell'Ordine dal 1929 a pochi mesi dalla morte (come l’appella il P. Gillet) che è l’individualismo; lo sprone dei più cari e santi affetti che fioriscono nella ricordanza delle preghiere e delle lacrime delle Madri lontane: sono questi, alimenti alla fiamma della più forte spiritualità.

La pratica religiosa è assidua, attorno ai piccoli altari castrensi e sotto la bassa tenda, vigilata dalle sante immagini che molti militi portarono dai santuari d’Italia, bagnate dalle lacrime materne e seralmente circondate dalla improvvisata recita del Santo Rosario. Quanto è bello sorprendere nel campo trincerato una dozzina di militari adunati da qualche zelante compagno a rinnovare la dolce preghiera su queste terre che attendono ancora il passo del missionario. I reparti che indugiarono qualche settimana in luogo fisso, vi lasciarono im- /266/ perituri segni della religiosità dell’esercito italiano. La Divisione Gavinana con il suo incomparabile comandante, il generale Nino Villa Santa e le Camicie Nere d’Eritrea del generale Filippo Diamanti che primi fra le truppe giunsero in colonia hanno segnato le stazioni della vigilia con chiesette, cappelle e altari, degni monumenti della fede del nuovo e antico popolo italiano.

È vero che fra le truppe, specialmente fra quelle che provengono da certe note regioni, la bestemmia è troppo, troppo usata. I cappellani militari e molti Comandi impegnano con vigoria il loro zelo contro questa indecente mania, nemica della Religione e della Civiltà. Ma il difetto purtroppo, dobbiamo dirlo a nostra maggior confusione non è caratteristico dei combattenti d’Africa, bensì di quella parte del nostro popolo e di quelle regioni, che ribelli a tutte le sante e universali crociate contro il cattivo parlare hanno continuato da buoni Girella ad accendere una candela al Signore e l’altra al diavolo, e cioè a credere e a praticare pure la Religione e nel tempo stesso sputare besternmie.

Non errò colui che nella passata guerra mondiale, in cui fermentò tutto il sangue della nuova Italia, ha trovato in germe, la conciliazione fra Chiesa e Stato, che poi le due Sovrane Autorità sottoscrissero nei protocolli ufficiali. È nel sangue, /267/ nella sofferenza che si generano realmente i grandi, felici avvenimenti d’un popolo. Oggi nella gesta africana noi sentiamo a pieno, il beneficio della conciliazione con l’armonia perfetta dei grandi sentimenti delle nostre truppe e pensiamo che gli attuali sacrifici compiuti serenamente da tutto il popolo italiano, o pressato dalle sanzioni o vigile sull’impervio suolo africano, non mancheranno di ottenere da quel Dio che della Passione fece aurora di Resurrezione, inestimabili benefici per l’Italia e per la Civiltà.

VIII

L’occupazione di Abbi-Addi

(16 dicembre 1935 -XIV)

Ai Battaglioni Camicie Nere d’Eritrea, penetrati per primi e da soli nel cuore del Tembien, è ancor riserbato l’onore di condurre a termine l’impresa.

La sera del 4 dicembre, gli ultimi raggi del sole illuminavano una cerimonia suggestiva sull’estremo lembo dell’alto sperone montano che regge i tucul di Zubahà. Il quadrato dei nostri Battaglioni riceveva solennemente, nell’ora dell’ammaina bandiera, S. E. il generale Pirzio Biroli, comandante del nostro Corpo d’Armata, per la celebrazione cara a tutti i militari, la Santa Barbara, patrona dell’Arma dell’Artiglieria, del Genio e della Marina.

/268/

Dopo la rivista delle truppe, il coro intonò il Te Deum: quindi il Cappellano esaltò brevemente le virtù e la gloria della eroina cristiana e concluse con la rituale preghiera per S. M. il Re e per il Duce. Abbassata la bandiera, un vibrante discorso di S. E. accrebbe negli animi il desiderio di nuove imprese.

La cerimonia era infatti come la preparazione degli avvenimenti che dovevano svolgersi nelle giornate successive. Al mattino del giorno 5 dicembre, due dei nostri Battaglioni (il secondo ed il quarto) sfilano sulla strada per continuare il cammino verso la capitale del Tembien. Altri due battaglioni indigeni, una batteria e uno squadrone di Cavalleria sono con noi: tutta la colonna è al comando del signor generale Diamanti e si onora di formare la scorta di S. E. Si risalì la valle del Cacciamò brulicante delle truppe di colore del Corpo d’Armata e si superò la sella posta fra l’Amba Carnales e il paese di Enda Tecarà. Dopò circa otto ore di marcia siamo dinanzi ad Abbi-Addi, la capitale del Tembien.

Abbi-Addi (che in tigrino significa grosso paese) è il feudo tradizionale della famiglia di Ras Sejum. Infatti egli vi teneva insediato, quale degiac, il suo stesso figliuolo Mangascià, ancor minorenne.

Il borgo è chiuso al vertice di un angolo incassato fra due falde di monti. Come tutti i centri abissini è un cumulo di tucul coperti di saggina, dominati dal Ghebìà e dalle chiese. Gli scorre nel fianco un fiumicello, sulle cui rive verdeggiano ampi giardini, spiranti oggi un profumo intenso /269/ e graditissimo di fiori di caffè e soprattutto di mature e saporite banane.

La popolazione era preparata a ricevere gli Italiani. I Mangascià, benché originari del paese, dovevano tenerlo soggetto più col timore che per affezione. Pochi masnadieri fecero opposizione alla nostra entrata, ma alcune nostre fucilate rotolarono nel fondo di un burrone, pochi cadaveri, causando la fuga precipitosa degli altri oppositori.

Gli abitanti, schierati in diverse parti, fecero ala alla nostra entrata, osannando alla moda abissina. Gli uomini erano divisi in due schiere: i mussulmani da una parte e dall’altra i cristiani; reggevano bandiere bianche e improvvisati tricolori. Le donne cristiane (esse sole, poichè alle mussulmane è interdetto ogni pubblico intervento) formavano due cori: le sposate e le vedove con la testa completamente rasa, a destra, e sulla sinistra le giovinette con il capo ornato dalla Sadulla o rasura in tutto simile alla tonsura clericale o fratesca.

I cori femminili venivano modulati con movimenti di danza e battito di mani e agitarsi di sciammo, e ripetevano all’infinito questo ritornello: «Aia taliari, woer kì chenatur allaudeka, beliuanatu» che significa: «Governo italiano, d’oro son le sue fibie, buono coi miseri, egri mangia del suo». Chiara poesia, che compendia i motivi della gioia di questo popolo che, nel nuovo Governo italiano, intuisce un’autorità non più sfruttatrice ed esosa come quella che vergognosamente s’era data alla fuga.

Nell’aria continuarono i canti per tutta la se- /270/ rata: le viuzze del paese erano piene di gente che ci scrutava con occhi di simpatia e ci salutava con la rituale parola abissina: Salàm.1

I nostri Battaglioni intanto si vanno ad appollaiare sui monti circostanti prendendo provvisorie posizioni di difesa contro eventuali attacchi.

Il giorno susseguente, 6 dicembre era destinato adi una grande cerimonia. Il Governo italiano doveva installare solennemente nella capitale il nuovo Degiac di tutto il Tembien, che era stato scelto in sostituzione del fuggitivo imberbe Mangascià, figlio di Ras Sejum e nipote del Ras Mangascià, resosi famoso per la sua italofobia nel 1896.

Il nuovo Degiac Lillai è un uomo sulla sessantina, maturo di anni e di senno. Recentemente egli governava, in nome del Negus, un’altra regione dell’Abissinia, e all’inizio delle nostre operazioni militari aveva lasciato ogni cosa per seguire l’invito che gli venne da Ras Gugsà di Adigrat e passò con questi dalla nostra parte. Egli vantava un certo qual diritto sul Tembien, diritto che sin ora gli era stato contrastato dai Mangascià. In questi giorni ci ha seguito nella nostra marcia di conquista e presentato ai paesani, ha subito formato la sua corte ed ha trovato una trentina di armati che si sono messi a sua disposizione.

/271/ Oggi il paese rinnova in forma più solenne e ordinata la festa di ieri. Sulla piazza del mercato è ritta l’antenna della radio: all’intorno vengono a schierarsi i militi e dietro di questi gli Indigeni, distinti nelle diverse comunità col clero ed i notabili. Le donne e le fanciulle ripetono le danze e il coro. Alle donne anziane danno il ritmo della danza, due vecchie vedove che, poste di fronte alla massa, girellano su se stesse con una agilità di movenza maggiore di quella della nostra «vedova allegra».

Uno squillo di tromba annuncia il giungere di S. E. il Comandante del Corpo d’Armata. Attorniato dalla lanciata Cavalleria Indigena, seguito dal nuovo Degiac, dalla corte di lui e dagli armati paesani, passa in rivista le Camicie Nere e poscia, dà l’ordine di alzare la bandiera. La folla che si era perfettamente zittita, quando vide il tricolore salire, scoppiò in applausi frenetici. Gli uomini tendono le braccia e i cascì alzano sopra gli ombrelli arabescati, le grandi croci scintillanti, mentre riprende il coro e la danza delle fanciulle.

Con ripetuti ordini si ottenne il silenzio: ed allora la voce chiara e poderosa del generale Pirzio Biroli prese a scandire le frasi (immediatamente tradotte alla folla dall’interprete) con cui in nome di S. M. il potentissimo Re d’Italia si investiva il nuovo Degiac del Tembien e si comminavano pene terribili agli oppositori, perseguibili sino alla settima generazione. Il Degiac Lillai s’era portato intanto presso l’arcione del Generale a ricevere la rituale stretta di mano e, al termine del breve di- /272/ scorso d’investitura, si buttò prono sul suolo e baciò la terra «per dare segno», come disse egli poi «della propria gratitudine al Manghestì d’Italia».

La cerimonia ebbe termine nei cortili del prossimo Ghebì dove sedendo fra il conte Della Porta e il dottor Sarubbi, ufficiale del governo civile nelle regioni conquistate, il nuovo Degiac ricevette l’omaggio e i donativi (bestiame e frutti) delle diverse comunità della Capitale e dei paesi limitrofi, spontaneamente convenuti. Nella stessa giornata S. E. lasciava Abbi-Addi, per ritornare con le truppe di colore, alla propria sede.

Il presidio di Abbi-Addi rimase formato dai nostri due battaglioni cui si aggiunse presto il terzo che però rimase qualche chilometro distante a presidiare un passo importante,1 come un altro battaglione (il primo) compiva altrove un’uguale missione.

Si sostò su un poggio fronteggiante il paese, costruendo all’intorno, in due giorni e due notti, una cintura di muro a secco che ci chiuse come in un fortino. La domenica 8 dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, alzai il mio altarino all’ombra dell’unico grande albero che dominava la nostra piazza forte. Era quella la prima Messa celebrata nel Tembien, nella terra luminosa e fe- /273/ race che i tirannici feudatari hanno mantenuto per secoli, impenetrabile al culto cattolico. Ma con la bandiera d’Italia, la Croce, non quella fatturata dai cascì, ma la vera Croce cattolica, finalmente poteva alzarsi e, nella siepe delle baionette del plotone d’onore, brillare sul meriggio d’Etiopia. La Vergine candida, implorata dalla fede viva delle Camicie Nere pareva benedire dal Cielo alla primavera del rito e delle forze italiche, gareggianti in promesse coi campi feraci che si stendevano a vista d’occhio, sino alle capricciose vette del Semien, le più alte di tutta l’Abissinia.

In quel giorno stesso, si ebbero informazioni da paesani di nostra fiducia, che le avanguardie degli armati racimolati da Ras Sejum avevano ripassato il Ghevà e si dirigevano alla nostra volta. Lo spodestato Ras di Adua si era finalmente vergognato della propria viltà, o l’insperato aiuto di migliaia di Amarici pervenuti dall’interno dell’Abissinia, gli aveva dato forza di sperare in una riconquista del regno perduto? La notizia del concentramento delle truppe nemiche sul nostro fronte venne pienamente confermata dalle osservazioni degli aerei. Ripetuti messaggi che gli apparecchi fecero piovere dentro alle borsettine caudate di tela rossa, concordavano nel riferire che tre distinte colonne di circa duemila uomini ciascuna, marciavano contro Abbi-Addi.

La notizia diffonde per tutto l’accampamento una vibrante nota di gioia: le Camicie Nere si entusiasmano nella speranza di un prossimo incontro, che dia ai Battaglioni l’atteso battesimo /274/ del sangue. Nei loro occhi brilla questa appassionata speranza. Ho visto un milite che, baciando il moschetto davanti ai compagni, esclamava:

– Finalmente mi potrai servire! –

Il generale Diamanti, a sostenere l’urto del nemico, tre volte a noi superiore in numero e, soprattutto, onde meglio compiere il nostro mandato essenziale di sbarrare il passo all’avversario, giudicò necessaria una rettificazione della nostra posizione e, con un repentino movimento, per via impensata dall’avversario, trasportò i Battaglioni alla distanza di poche centinaia di metri, su posizione più dominante e assicurata alle spalle dalla falda della montagna. Questo cambiamento dovette sconcertare e sgomentare il nemico, che rimase per una settimana titubante sulle rive del Ghevà, continuamente tenuto d’occhio dagli aeroplani e dai nostri informatori.

Il giorno 13 dicembre, il colonnello Bausano portava in rinforzo al nostro gruppo due battaglioni indigeni ed una batteria di artiglieria da montagna. Con queste nuove truppe, la difesa della capitale del Tembien poteva essere assicurata contro qualunque preponderante impeto nemico. Sempre alto, sereno e forte è stato lo spirito delle Camicie Nere che sole erano rimaste in questo lontano campo per una settimana, legate al mondo e all’esercito dell’Africa Orientale con le tenui eppure efficacissime comunicazioni della Radio.

In una giornata di alta tensione, S. E. il Co- /275/ mandante del Corpo d’Armata così radiotelegrafava al nostro Generale:

«Scelga posizione più adatta difesa secondo situazione attuale, garantendosi per l’acqua. Ricordi Galliano, uno contro venticinque. Se occorrerà le CC. NN. sapranno scrivere la più bella pagina di gloria. Sono giunto a Macallè. Mi tenga informato preparo rinforzi.

«Generale Pirzio Biroli»

Il generale Diamanti gli rispondeva:

«Tutto già precedentemente è preveduto circa acqua e rifornimenti. Assicuro che in ogni circostanza sia immediata che avvenire, qualora fosse necessario fare paragoni, essi ridonderanno tutti nostro vantaggio, essendo unico stimolo per noi la voce del dovere volontariamente impostoci agli ordini del Duce per la potenza della Patria e per la grandezza del suo Re.

«Generale Diamanti»

Non solo le nostre pattuglie avanzate, ma pure il cuore dei Battaglioni hanno preso contatto con il nemico. Fiammeggiano le canne delle mitragliatrici controbattenti la fucileria nemica, mentre che le gole dei monti ripetono mugghiando la eco dei colpi delle nostre armi pesanti e delle nostre artiglierie.

/276/

IX

Nel fuoco della battaglia

(20 dicembre 1935-XIV)

Dal momento in cui i nostri Battaglioni ebbero la ventura di varcare, per i primi, i confini dell’Impero etiopico, furono arsi dal desiderio di misurarsi con il nemico a viso aperto, in una vera e propria battaglia. Per quasi tre mesi si è compressa nel cuore quest’ansia, poichè nel settore affidatoci dal Corpo d’Armata Eritreo, la guerra fu principalmente contro le asprezze della indomata terra africana. Il nemico uomo, continuò a fuggire incalzato dalle nostre avanguardie o solamente di tanto in tanto ci concesse l’onore di qualche duello di fucileria. Doveva però suonare l’ora bramata di uno scontro bellico in pieno stile. Le Camicie Nere la presentirono parecchi giorni innanzi e il nostro Comando, con una perfetta chiaroveggenza strategica, predispose ogni cosa.

Dopo l’occupazione di Abbi-Addi, i Battaglioni vennero schierati sulle alture a nord di Debra Amba, in difesa della capitale del Tembien e della selletta montana che dava il passo alle nostre retrovie. Si erano aggiunti a noi due battaglioni indigeni ed una batteria da montagna, al comando del colonnello Bausano. Si formò così un piccolo esercito, sicuro di sè e pronto a tutte le evenienze. Precise informazioni, confermate dai messaggi de- /277/ gli aerei, ci riferivano di ora in ora l’accesso di nuove truppe nemiche: si parlava di circa ventimila armati che si annidavano negli anfratti del Ghevà a covare un’offensiva pronta a sferrarsi contro di noi. Quotidianamente dalle nostre alture scendevano pattuglioni allo scopo di perlustrare il paese e la valle e di prendere eventuali contatti con i celati appostamenti del nemico.

Nel pomeriggio del giorno 17 dicembre, sulla cresta altissima di Debra Amba al nostro tergo, furono avvistati gruppi nemici che, scoperti, aprirono un insistente fuoco di fucileria. Venne immediatamente distaccato un reparto allo scopo di rintuzzare quegli audaci che dalle vette stavano minacciando una discesa. Si accese un intenso fuoco; fu una pioggia di pallottole sul nostro campo, soprattutto al centro: le nostre mitragliatrici rispondevano squittendo rabbiosamente, mentre gli uomini della pattuglia fermavano arditamente le avanguardie nemiche nel folto della boscaglia.

Apparve evidente al nostro Comando che il nemico fingeva quell’attacco per attirare da quella parte attenzioni e forze, onde sferrare poi un vero assalto sul fronte prospiciente la valle. Si aprirono perciò occhi di Argo all’ingiro, più che mai, per tutta la serata e per tutta la nottata. I fatti della giornata successiva, 18 dicembre, dovevano dare piena ragione a queste previsioni.

Di buon mattino gli abissini riaprirono il fuoco dalla cresta di Debra Amba: celati dalle boscaglie che fasciano quella vetta, famosa per il convento copto che s’alza sul suo rovescio, scaricavano con /278/ insistenza sfacciata i fucili sul nostro accampamento e non furono sgominati che dai colpi perfettamente assestati delle nostre artiglierie.

Intanto, alla prima luce, un ordine di operazione distaccava un intero battaglione di Camicie Nere, il secondo del nostro Gruppo e lo gettava nella vallata, con precisi obiettivi, alla ricerca del nemico. L’audacia accompagnata da Madonna Prudenza, riporta sempre vittoria sui campi bellici. I compagni, rimasti al presidio della piazzaforte dal ciglio tutto orlato di mitragliatrici, guardavano l’invidiato battaglione preceduto e fiancheggiato dalle pattuglie di sicurezza, disteso a valle e sveltamente diretto verso l’Amba dell’albero, prospiciente la valletta in cui si cela Abbi-Addi. Sedici ufficiali, quattrocentottanta uomini di truppa sono agli ordini del seniore Luigi Valcarenghi, che del suo battaglione ha saputo fare, con tenace preparazione, una perfetta massa di assalto, quasi un reparto di quei vecchi Arditi, che egli comandò sul fronte del Piave.

Lungo la direttrice di marcia, forti nuclei nemici impegnarono le pattuglie dell’ala sinistra, che prontamente rinforzate poterono permettere l’avanzata rapida di tutto il battaglione verso il suo obiettivo. Senonchè gli esploratori avvertivano il Comandante che la posizione era difesa da numerosi armati asserragliati in un recinto. Un deciso ordine getta gli esploratori e la compagnia di avanguardia all’attacco frontale, mentre altre due compagnie devono aggirare cautamente e lestamente il nemico. /279/ I primi assalitori, tutti bravi ragazzoni friulani, capeggiati dal capo manipolo Ismaele Barnaba, d’un balzo soverchiano l’avversario. La manovra riusciva in pieno, tanto che senza perdita alcuna, pur fra intenso fuoco nemico, in brevi istanti i nostri occupavano il campo, costringendo la massa avversaria alla fuga. Sul terreno fra morti e feriti, il nemico aveva lasciato i cadaveri di quattro dei più influenti capi del Tembien.

Mentre i nostri si dispongono a difesa per ogni parte della posizione conquistata, si accorgono che il nemico riavutosi della grave perdita, corre ai ripari: sono notati folti gruppi che scendono dai roccioni sovrastanti il paese di Abbi-Addi e si ammassano fra i tucul mentre altre colonne di centinaia di armati accennano ad un aggiramento. Il fuoco delle nostre mitragliatrici continua a battere con insistenza e con evidentissima efficacia tutti questi movimenti di accerchiamento.

In uno dei gruppetti nemici, su cui piombava il tiro diretto d’una nostra mitragliatrice, il seniore Valcarenghi notò distintamente la figura di quell’abissino che egli aveva tenuto con sè parecchio tempo, quale guida ed interprete, e che da alcuni giorni si era improvvisamente eclissato. Una intelligente pallottola italiana faceva ora giustizia del traditore.

Verso le tredici e quindici il battaglione, secondo gli ordini doveva iniziare il suo ritorno alla base di partenza. Il nemico, accortosi del movimento, si fece più audace. Tutto all’intorno, fra /280/ le pietre ed i cespugli fu un brulicare di bianchi sciamma, un levarsi di fucili e di mitragliatrici. Precisi ordini del nostro Comandante raccolsero allora tutto il battaglione su due rialzi dove le Camicie Nere, rimpiattate fra i sassi, rispondevano arditamente al fuoco nemico. Il maggior numero dei feriti si ebbe in quelle due ore di ininterrotto fuoco. I medici Bellusci e Mancini si prodigarono eroicamente, dando fondo ai rifornimenti degli zaini di sanità.

Dal posto di Comando, il generale Diamanti seguiva tutto lo svolgersi del combattimento. Pronti ordini gettano verso i nostri, due compagnie di rincalzo: la seconda Compagnia del dodicesimo Battaglione Eritreo e la terza Compagnia del nostro quarto Battaglione, comandata dal centurione Capparelli. Queste, appoggiate da tre carri veloci, prendono di fianco la colonna aggirante e con le raffiche della mitraglia le infliggono forti perdite, costringendola a ripiegare in disordine. Interviene l’artiglieria che, sotto le indicazioni dirette del signor Generale, martella in pieno il nemico che, pure nella fuga disordinata verso i suoi covi presso il Ghevà, è incalzato dal tiro preciso dei nostri diversi calibri.

Mentre la massa nemica fugge, nuclei sparsi continuano, con quella tenacia che è propria di questi combattenti primitivi, a tenere i nostri movimenti sotto il loro fuoco.

Le perdite nemiche accertate risalgono a qualche centinaio. Da parte nostra si ebbero due morti nei Battaglioni Indigeni, quindici feriti fra le Ca- /281/ micie Nere e di più, una ventina di altri feriti leggieri. Nè vi è da meravigliare se dopo otto ore di continuo fuoco infernale, le nostre perdite non siano state proporzionate alle ingenti perdite del nemico.

La guerra bisogna saperla fare. Il numero dei caduti non sempre dice l’eroismo della truppa, perchè i combattenti autentici sanno che ordini oculati, disciplina perfetta, preparazione tattica della massa possono impedire più di una strage e conservare alla Patria vite preziose. Le nostre Camicie Nere con lunghi mesi di esercitazione si sono rese addestratissime; in questo primo drammatico incontro con le forze nemiche, hanno rivelato, fra l’altro, una qualità essenziale del combattente coloniale: la parsimonia nell’impiego delle munizioni. Non un colpo a vuoto; ogni pallottola ha avuto il suo bersaglio.

E poi non v’era che da leggere negli occhi scintillanti di ciascuno, per vedervi quella serenità permanente dello spirito, non turbata neppure dalle più tragiche situazioni, che è la migliore condizione di una efficace riuscita bellica. Anche i feriti furono meravigliosamente sereni.

Con le carni lacerate dalle barbare dum-dum, si facevano lestamente e tacitamente medicare, stringendo sempre fra le mani il moschetto, preoccupati di puntarlo un’altra volta.

Ecco un ferito, uno dei più gravi: è la camicia nera Guglielmo Bergamaschi. Vecchio fascista veronese, padre di cinque bimbi, due dei quali gemelli gli son nati alcuni mesi fa: ha scritto sul /282/ viso la bontà serena del popolo veneto. La folta barba nera gli ha meritato il soprannome di Negus con cui è conosciuto presso tutti i Battaglioni. Egli è capo arma e la sua mitraglia gli è cara come se fosse la sua sesta figliuola.

Durante tutto il combattimento, non si staccò un istante dall’arma e tutti i suoi colpi, puntati con estrema diligenza, giunsero a bersaglio.

Fu appunto mentre egli si alzò velocemente a puntare che lo colpì una pallottola nemica in piena spalla. Si fece medicare con grande tranquillità e benché la lacerazione presentasse una certa gravità, rifiutò la barella e a piedi rientrò con gli altri feriti, sempre sorridente. nè rifiutò qualche sigaretta e una buona razione di rancio.

Mirabili ragazzi! Mirabili sempre, ma in modo particolare, in quella sera, ritornati sereni dal combattimento; con le bianche bende arrossate di sangue, mentre il generale Diamanti abbracciava il seniore Valcarenghi, mentre in tutti i nostri cuori fremeva l’orgoglio di avere scritto una delle più fulgide pagine di sangue della Milizia sulla terra d’Africa!

Il Duce sarà certamente soddisfatto di questi suoi Battaglioni, i primi che Egli volle inviare all’impresa.

/283/

X

Natale di sangue

(7 gennaio 1936-XIV)

Dopo il combattimento del giorno 18 dicembre, ci giunse il rinforzo di una intera brigata di ascari, guidata dal generale Dalmazzo. Si potè quindi estendere la fronte, ridiscendendo a valle e occupando la collina che fronteggia Abbi-Addi. Su quella posizione, che portava evidenti i segni del recente combattimento, si appostarono due nostri battaglioni, mentre un terzo rimaneva a difesa della selletta di Uuerì1 e un quarto continuava a formare il presidio del passo di Abarò, nel cuore delle montagne verso Macallè.

Il nostro Comando pose le tende all’ombra del grande ed unico sicomoro che sta sulla vetta. Sul terreno, ai piedi dell’albero, una grande chiazza di sangue raggrumato ricordava che, due giorni avanti, un giovane tiratore abissino era stato abbattuto dalle nostre mitraglie, mentre, occultato fra gli alti rami, era intento a sparare sui nostri. S’alzarono là presso, le antenne della stazione radio, col tricolore. Due batterie piazzarono i pezzi presso le nostre tende. Il Comando della seconda Brigata Indigeni prese posto sulla falda del colle e i Battaglioni degli Ascari s’attendarono verso il fondo della valle.

/284/ Non tardarono gli abissini a rivelarsi con scariche intermittenti di fucileria dalle falde dei monti sovrastanti e soprattutto dall’amba Tezellè, che si eleva dominatrice a sud-ovest di Abbi-Addi. I colpi venivano normalmente preceduti da un suono di trombetta, quale si usa da noi nelle fiere villerecce. Evidentemente era questo un segnale di comando dei regolari dell’esercito del Negus. Scoperti così dai nostri, venivano controbattuti con precisi colpi di artiglieria.

Lo scontro con le nostre truppe si ebbe nella domenica, 29 dicembre. Sin dal primo mattino, i Battaglioni di ascari, rafforzati da qualche compagnia delle nostre Camicie Nere si diressero verso il paese e, superatolo, infilarono le mulattiere che si arrampicano nei crepacci dell’asprissima montagna. Tutta l’amba Tezellè era brulicante di nemici che si mostravano sfacciatamente sulla vetta e scendevano in orde ad incontrare l’assalto dei nostri ascari.

Le artiglierie appoggiavano l’avanzata. Io celebrai la Santa Messa festiva, accompagnato dalla musica continua dei prossimi cannoni.

Gli scontri furono parecchi: in qualche punto, l’onda nemica scendeva come un torrente di energumeni, armati alla rinfusa o di “...nuovissimo moschetto belga...” si tratta del fucile automatico M1918 Browning, sviluppato a partire dagli ultimi tempi della I guerra mondiale, che negli anni ’20 e ’30 fu prodotto in numerose varianti da fabbriche di diversi paesi tra cui la belga FN Herstal col nome di FN Mle 1930 nuovissimo moschetto belga a ripetizione e a mitragliatrice o di vecchi archibugi o di lance o di semplici bastoni. L’impeto barbaro fu contenuto non senza grandi sacrifici. Verso l’una pomeridiana, sentimmo che una nostra batteria di montagna, piazzata sui roccioni dominanti il paese, ripeteva celermente i /285/ colpi: evidentemente, circondata dal nemico, sparava a zero.

Esso era infatti giunto a cinquanta metri dai pezzi e non fu respinto che da un efficace e celere soccorso delle prossime truppe. La lotta durò sin verso sera, riaccendendosi ad intermittenza qua e là per le forre, dove il nemico cercava lo sfogo a valle e dove lo trattennero efficacemente i nostri blocchi.

Intervennero pure gli aereoplani. Un aviere di ricognizione fu ferito: tre apparecchi da bombardamento, dopo lungo volteggiare, scoprirono i concentramenti avversari e scaricarono le bombe sulle vallette retrostanti.

Le perdite nemiche salirono ad oltre il migliaio. Il numero degli ascari curati per ferite al nostro posto di medicazione, fu di un centinaio. E noi, nazionali, piangemmo la morte di ben sei ufficiali dei Battaglioni Indigeni: le salme di due dei quali poterono venir subito ricuperate e furono da me composte in onorata sepoltura. Le altre salme rimasero sul terreno nemico e testimoni oculari ci riferirono le orribili mutilazioni cui furono soggetti gli agonizzanti nostri fratelli.

A notte, tra i feriti venne portato alla nostra sezione di sanità un prigioniero raccolto sul campo con una gamba spezzata. Egli aveva tutta la fisionomia degli amhara e portava appeso al collo il sigillo della dignità di Balambaràs. Compiuta la medicazione, fu trasportato in barella al nostro Comando, dove fu sottoposto a lungo interrogatorio. L’interprete gli traduceva in amharico, le /286/ domande e ripeteva quindi in italiano le risposte che egli dava. Confortato e meravigliato dal nostro umano trattamento, egli proclamava la sua riconoscenza a Dio ed al Governo italiano e ci diede delle informazioni che, confrontate con quelle di altri prigionieri, apparvero veritiere. Si seppe così con sicurezza, che al di là del monte Tezellè, i diversi capi avevano raccolto un esercito di oltre tredicimila uomini e che si attendevano le forze di Ras Sejum per scatenare un’offensiva su tutto il Tembien.

Trascorsero due giorni in una relativa tranquillità. Io potei così, per gli accordi presi con S. E. l’onorevole Bisi, che era in funzione di aiutante di campo del generale Dalmazzo, scegliere il luogo per il cimitero e inumarvi le salme dei nostri morti. Fra di essi, feci pure seppellire l’unico ascaro cattolico morto in seguito alle ferite riportate sul campo. Il suo corpo era stato avviluppato in diverse lenzuola e legato come un’antica mummia e per farlo scendere nella fossa vi fu stesa, al di sopra, una tela che non venne rimossa se non quando fu totalmente compiuta l’inumazione. Intanto gli ascari compagni piangevano, chiamando ad alta voce il defunto «Fratello, fratello mio», e accompagnavano il pianto con lievi movimenti di danza.

In quei giorni venne fucilato per tradimento /287/ operato a nostro danno, lo schiavo di un santone mussulmano, nostra vecchia conoscenza. Questo schiavo si chiamava Chianochiano-rrù sembra un soprannome beffardo di vaga assonanza napoletana Chianochiano-rrù, e quindici giorni prima era stato deferito al nostro Comando quale principale autore di un furto perpetrato a nostro danno. Gli si disse allora:

– Domani vi fucileremo. –

Ed egli, da buon fatalista mussulmano, rispose freddamente:

– Io sono già un uomo morto. –

Gli fu fatta grazia della vita e rimase anzi volontariamente alcuni giorni quale aiutante presso la cucina degli ufficiali. Andava al rifornimento dell’acqua, macinava il caffè e teneva allegra la brigata dei cuochi, da cui era stato soprannominato Taitù 1849-1918 moglie di Menelik II; il nomignolo ha un vago sapore razzista e misogino manghestì “governatore”, qui probabilmente vuol essere una traduzione di “Duce” Taitù. Il suo sorriso sciocco, diffuso sulla nera faccia scimmiesca, lo faceva giudicare un inetto avanzo di umanità. Ritornò poi al suo tucul e il santone mussulmano battè per più giorni il tamburo per la festa al generoso Manghestì d’Italia. Ma presto si seppe che lo schiavo aveva fatto una capatina nel campo del degiac Amarù a riferire sulle cose nostre. Al suo ritorno la perfida spia fu celermente giudicata e giustiziata. Persino nella mattinata del giorno 25 dicembre, sacro alla memoria gioconda del Natale del Cristo si dovette procedere all’esecuzione di un amhara svelato quale spia dallo stesso Balambaràs ferito e prigioniero, di cui parlammo dianzi.

Poche cose intorno a noi, in quel giorno ci parlarono della grande commemorazione sì cara al cuore cristiano del nostro popolo. Il sole tornava /288/ rabbioso, come sempre, nel cielo incorniciato dai rigidi e secchi monti del Tembien. I soliti aerei vennero a compire le ricognizioni sul campo nemico, ma passando su di noi per darci il messaggio con le novità ci gettarono qualche sacco contenente generi di conforto inviatici dai Comandi superiori. Condiviso il dono natalizio fra la truppa, ogni milite ebbe una sigaretta, piccola cosa che fu gradita assai e pel pensiero e pel modo con cui era stata donata e perchè nei più giovani nostri gregari riconfermava la dolce nostalgia dei doni natalizi di altri anni e di altri ambienti.

Pure in quel giorno la truppa attese ai soliti lavori per costruire le fortificazioni, ma per una mezz’oretta l’opere furono sospese onde attendere alla Santa Messa. Dinanzi all’altarino, eretto all’ombra del grande sicomoro e fasciato del tricolore, stavano tre generali: il generale Scarampi del Cairo, il generale Dalmazzo e il generale Diamanti.

Con le Camicie Nere era inquadrato un grosso plotone di ascari cattolici. La banda dei Battaglioni nostri eseguiva in sordina toccanti melodie, diffondendo nei cuori, religiose e forti rimembranze.

Alla Comunione, alcuni militi s’accostarono all’altare per ricevervi il Pane dei forti e diedero lo spunto al discorso del Cappellano1 che parlò della pace interiore annunciata dagli angioli nei cieli betlemitici e conservata nel mondo, per gli uomini di buona volontà, dalla virtù di quel Cristo, che, /289/ dalla nascita alla morte, fece della sua vita un richiamo a quella vita interiore che Egli rese bella, pacifica e gioconda, anche nello strazio delle membra e fra gli orrori della guerra più crudele.

Immagini tra le pagg. 288 e 289
Poche ore

Padre Giuliani due ore prima del combattimento in cui trovò la morte - 21 Gennaio 1936-XIV

Clicca per ingrandire

Luogo ove cadde

Luogo ove cadde Padre Giuliani

Clicca per ingrandire

Nelle prime ore del pomeriggio natalizio si accese sul nostro panorama una visione fantastica. I tucul di cui è formato Abbi-Addi s’incendiarono l’uno dopo l’altro, gettando nel cielo una selva di fiamme e di dense colonne di fumo. I tetti di paglia scomparivano divorati dalle pire: tutti, anche il gebì grande edificio a pianta circolare, di solito residenza di un capo Ghebì che ci aveva ospitati qualche giorno prima, nè vi fu eccezione che per le chiese.

Fatta prontamente dalle nostre Autorità un’inchiesta sulle cause del fatto, fu scoperto quale autore un ascaro che motivò la sua ira incendiaria con questa dichiarazione:

– Io devo vendicare il mio fratello che quegli assassini hanno ucciso l’altro giorno. –

Il sangue non si smentisce. Per tutta la serata le nostre batterie continuarono a tuonare. Nell’intimo cuore di ciascuno suonavano certo le melodie delle lontane campane di Natale suscitando le nostalgiche visioni di mense «fiorite di occhi di bambini» e delle sante canizie di mamme adorate. Ma bisognava astrarsi molto dalla realtà circostante, dalle bocche fiammeggianti dei cannoni, dalle pire degli incendi, dalla povertà delle mense, per poter rivivere ad occhi aperti la tradizionale e passionata gioia natalizia.

Alla cerimonia dell’abbassa-bandiera si volle arditamente dare tutta la solennità possibile. Al cospetto del nemico, che certamente spiava dai suoi /290/ covi, meravigliato di tanta arditezza, la banda dei Battaglioni eseguiva la Marcia reale e il Piave, mentre il tricolore scendeva lentamente sul campo. Si eseguì poscia un concerto inframezzato dal tambureggiare dei prossimi cannoni, che rendevano la musica maggiormente solenne. Le Camicie Nere assistevano con viva soddisfazione a quel singolare occaso del Natale. Un giovanissimo, al termine della cerimonia, mi si avvicina e con gli occhi accesi di entusiasmo mi sussurra:

– Ora ho cenato.... con la musica sola: ma questa, stasera, mi sfama! –

Tre giorni dopo il Santo Natale un ordine repentino, richiamava il Comando delle nostre truppe ad Addi-Zubahà, sulla via dei nostri rifornimenti. Due battaglioni, il secondo e il quarto, rimasero con gli ascari a presidiare la sella Uuerì, gli altri scesero a quei luoghi già occupati circa venti giorni prima dalle nostre truppe e che ora erano fatti segno alla più crudele reazione delle bande armate che infestavano le nostre vie di accesso.

Nel pomeriggio del giorno 28 di dicembre, giunti sugli alti roccioni di Addi-Zubahà, ci rendemmo conto del perchè fosse stato ordinato il nostro intervento. Un autocarro militare da Tansocà, località situata dieci chilometri da noi sulla strada di Hauzien, aveva appena portate le salme di ventidue soldati del 4° Gruppo Salmerie e Carreggio del /291/ nostro Corpo d’Armata. Il giorno innanzi, quei ventidue salmeristi avevano marciato in una colonna che recava i viveri alla sussistenza, ma giunti quasi al termine del viaggio, furono improvvisamente assaliti da trecento armati che tagliarono loro la strada e sbucarono improvvisi dai folti cespugli che per lungo tratto la fiancheggiano.

I nostri si difesero ingaggiando duelli, a corpo a corpo, che diedero forti perdite al nemico, ma il numero e l’agguato prevalse e i ventidue italiani giacquero mentre il nemico faceva man bassa sulle salmerie e bestialmente seviziava gli uccisi e li derideva con oscene mutilazioni e poi, con un canto feroce di barbara vittoria, si allontanava trasportandosi i suoi feriti ed i suoi morti.

Quando quelle salme venivano estratte dal carro impolverato in cui erano state ammucchiate, nel constatarne di una per una lo scempio, gli occhi delle Camicie Nere luccicavano di pianto e le mani, pietosamente insanguinate nel trasporto delle carni dei fratelli martoriati, andavano istintivamente ai pugnali pronti a scatenare giustizia sul brigantaggio, legalizzato dalla millenaria barbarie e dalla inettitudine e forse dalla complicità diretta dell’autorità sovrana.

La terra in una lunga fossa comune, ci tolse dagli occhi lo spettacolo efferato di quel macello di umanità, mentre l’ultima benedizione del sacerdote implorava dal Signore pace alle anime, conforto a ventidue madri lontane, ignare ancora di tanto strazio e giustizia stroncatrice delle barbare oscenità.

/292/ Qualche giorno dopo, un’altra volta il nemico doveva rinnovare i suoi furori di iena contro di noi.

Il 3 di gennaio del nuovo anno, quattro militi del 1° Battaglione che erano scesi in capo alla co lonna dell’acqua sul Mai-Gherghetà, furono cir condati fulmineamente e trucidati. I compagni sopraggiunti misero in fuga gli assassini che già si erano accinti alle oscene operazioni sulle vittime. Tre di queste erano già spirate. La quarta orribilmente seviziata, visse ancora due ore di un’agonia spasmodica, ripetendo ai compagni accorsi:

– Ditelo al Duce quel che ci fanno! –

Centurione Reginaldo M. Giuliani O. P.
Comando CC. NN. d’Eritrea
(Grappo Diamanti)

[Nota a pag. 208]

1 Sacerdote. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 215]

1 «Troppi cuochi guastano la minestra.» [Torna al testo ]

[Nota a pag. 222]

1 «Due lire!» [Torna al testo ]

[Nota a pag. 239]

1 Questo articolo non fu mandato con gli undici ricevuti per posta, ma fu trovato, insieme con altre memorie del caro amico, nel baule spedito a San Domenico di Torino, dopo la sua gloriosa morte. L’abbiamo inserito qui, quantunque composto dopo l’occupazione di Abbi-Addi (5 dicembre 1935) forse verso la fine del mese, per ricordare Areghit che era il suo muletto. (N. d. E.) [Torna al testo ]

[Nota a pag. 240]

1 «La via, la troverò o la farò.» (Trad. d. E.) [Torna al testo ]

[Nota a pag. 270]

1 Pace. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 272]

1 Il Passo Uarieu dell’azione militare del 21 gennaio 1936, fra l’Amba Uorc e i Roccioni Scemarbò. (N. d. E.) [Torna al testo ]

[Nota a pag. 283]

1 Passo Uarieu. (N. d. E.) [Torna al testo ]

[Nota a pag. 288]

1 Lo stesso Padre Reginaldo Giuliani. (N. d. E.) [Torna al testo ]