Reginaldo Giuliani O. P.
Per Cristo e per la Patria

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Appendice

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La guerra italo-etiopica

Tembien (Passo Uarieu)

Discorso pronunciato alla Radio il 10 dicembre 1936-XV dal generale Filippo Diamanti

Tembien: nome di un’ampia regione del Tigrai, delimitata a nord e ad ovest dal torrente Gherghedà e dal corso dell’Ueri, a est e a sud dal corso del fiume Ghevà, fino alla confluenza col Tacazzè. Capitale della regione l’importante centro di Abbi-Addi. Tembien, ex-feudo principale di Ras Sejum. Tembien, zona scelta per la manovra del grosso dell’esercito abissino. Tembien, terra d’Africa dove sono state scritte le prime pagine di gloria dell’esercito italiano e la vittoriosa campagna italo-etiopica; terra divenuta sacra per il cuore degli Italiani, siccome le petraie del Carso lo sono per il ricordo glorioso dell’ultima guerra di redenzione. Cinquecento croci sono infisse sulla terra brulla che ha assistito alla titanica lotta delle Camicie Nere, dei Fanti, degli Artiglieri, degli Ascari del Corpo d’Armata Eritreo, tutti egualmente degni della venerazione e della riconoscenza della Patria.

Sotto ogni croce un eroe, accanto, nella dimora eterna, al più sublime, al più tipico di quegli Eroi, a Colui che, discepolo di Cristo, volle accomunarsi /296/ nel sacrificio estremo con le sue Camicie Nere per tutelare dappresso le loro anime nella vita eterna che nell’olocausto loro si dischiuse.

Il primo contatto col nemico

Il 26 novembre il Gruppo Battaglioni CC. NN. d’Eritrea, su cinque battaglioni più uno squadrone carri veloci e aliquote di artiglieria, costituendo colonne leggiere al mio comando, penetrò nel Tembien, mantenendo continuo contatto con le retroguardie delle truppe di Ras Sejum che ripiegavano verso il Ghevà.

Il 5 dicembre, dopo un concentramento dimostrativo della Divisione Eritrea nella zona del Cacciamò e della 2ª Divisione Eritrea nella zona di Melfà, con la stessa colonna e aliquote di reparti eritrei, procedemmo all’occupazione di Abbi-Addi.

Il successivo giorno 6, le due Divisioni Eritree si trasferirono nella zona di Macallè. Rimaneva in Tembien il Gruppo Battaglioni CC. NN. d’Eritrea, l’11° Squadrone Carri Veloci e il 6° Gruppo Autocarrellato Eritreo. Forza esigua data l’ampiezza della zona e la lontananza dei centri di rifornimento. Ma in quel periodo non era possibile disporre di altri Reparti e le piccole unità lasciate a presidio della più vulnerabile zona dello schieramento, costituì la sfida per il nemico che doveva subire poi in Tembien il più duro, se non il più decisivo, scacco di tutta la campagna.

Tra i giorni 7, 8 e 9 dicembre, le truppe di Ras Sejum rivarcarono il Ghevà con l’intenzione /297/ manifesta di attaccare le forze dislocate ad Abbi-Addi, costituite dal Reparto del Comando di Gruppo e dal 2° e 4° Battaglione CC. NN. d’Eritrea.

Mediante opportuni spostamenti e successive occupazioni di zone dominanti, riuscimmo a temporeggiare, in attesa degli annunciati rinforzi che giunsero la sera del 13 dicembre, costituiti da due battaglioni eritrei e da una batteria someggiata. Ma il nemico aumentava la sua pressione e trasportava al di qua del Ghevà altre migliaia di armati. Mi fu annunciato l’invio di nuovi rinforzi. Ma nel frattempo, per mantenere ogni iniziativa nelle operazioni future, cercammo il contatto con le avanguardie di Ras Sejum, per prevenire ogni azione alle colonne nemiche, tendenti a girare alle nostre spalle per tagliarci le vie dei rifornimenti.

Una giornata di combattimento

Nei giorni 16 e 17 non si ebbero che brevi scontri di pattuglie. Il giorno 18, il 2° Battaglione CC. NN. d’Eritrea prendeva contatto col grosso dell’avanguardia nemica, impegnando combattimento che si protrasse fino a sera, con esito pienamente favorevole, con perdite nostre relativamente lievi, con perdite per il nemico notevolmente rilevanti.

Tuonavano ancora le batterie del 6° Autocarrellato e la 3ª Batteria Eritrea, quando giunsero, a sera inoltrata, altri quattro battaglioni eritrei e altre due batterie someggiate al comando del gene- /298/ rale Dalmazzo. Il nemico, sorpreso dal primo colpo ricevuto il giorno 18, concentrò le sue forze nella zona di Enda Mariam Quarar, occupando saldamente Amba Tzellerè, dominante il paese di Abbi-Addi. All’alba del giorno 22 il 6° Gruppo Eritreo, agli ordini dell’allora colonnello Tracchia, tentava l’occupazione dell’Amba Tzellerè. Ma nonostante il valore e l’eroico sacrificio degli ufficiali e dei fedelissimi ascari eritrei, il nemico riuscì a mantenere l’occupazione dell’amba, nelle cui adiacenze aveva raggruppato oltre tredicimila armati, di cui ottomila dell’esercito di Ras Cassa, al comando del bigerondi Latibelù.

Informazioni attendibili fecero stabilire con certezza la volontà del nemico di concentrare nuove forze nella zona del Tembien e di conseguenza, in seguito ad ordine superiore, fu scelta una zona prospiciente il territorio di Abbi-Addi, dove fosse possibile organizzare una sistemazione difensiva che consentisse di rintuzzare ogni velleità nemica, in attesa della possibilità di svolgere un preordinato piano di operazioni.

Le posizioni avanzate

Le posizioni avanzate di tale sistemazione difensiva, furono stabilite nella zona denominata di Passo Uarieu, compresa fra Uork Amba e la cima dello Scimarbo.

Frattanto la sera del 27, giungevano il Comando della 2ª Divisione Eritrea e i rimanenti reparti della Divisione stessa e fra il 3 e il 5 gennaio si /299/ concentrava ad Addi Zubahà la Divisione Camicie Nere 28 Ottobre.

Il giorno 11 gennaio si trasferiva nei pressi di Addi Zubahà il Comando del Corpo d’Armata Eritreo, il quale veniva ad avere a sua disposizione il Gruppo Battaglioni CC. NN. d’Eritrea su cinque battaglioni: la 2ª Divisione Eritrea, la 2ª Divisione CC. NN. 28 Ottobre, il 6° Gruppo Autocarrellato Eritreo.

Le intenzioni del nemico erano ormai manifeste: superare, travolgere, annientare le forze dislocate nel Tembien, per raggiungere l’importante centro di Hausien e di là tagliare la linea dei rifornimenti al grosso delle nostre truppe dislocate nella zona di Macallè. Ove le resistenze nella zona di Hausien fossero insuperabili, impegnare le difese e puntare verso Adua attraverso il Feres Mai. Piano indiscutibilmente audace, ma al quale il nemico ammetteva tale importanza da fargli dislocare in Tembien quasi l’intero esercito di Ras Cassa, al suo diretto comando, integrato da tutte le forze di cui disponeva Ras Sejum.

I superiori Comandi intuirono che era necessario provocare l’azione del nemico e il Comando del Corpo d’Armata Eritreo, presi gli ordini dal Comandante superiore dell’Africa Orientale, emanò l’ordine di operazione in oggetto: «Operazione su Melfà». Ordine di operazione la cui applicazione ebbe inizio il giorno 20, determinando l’episodio bellico che passa alla storia col nome di «Prima battaglia del Tembien».

Il giorno 13 gennaio mi trovavo col Comando, /300/ il 1° e il 3° Battaglione e il Battaglione complemento nella zona di Mai Atebei. La sera giunse la 114ª Legione della 28 Ottobre, i cui battaglioni sostituirono i miei nei vari presidii della zona, dato che il Gruppo Battaglioni CC. NN. d’Eritrea doveva concentrarsi tutto ad Abbi Zubahà a disposizione del Comando del Corpo d’Armata Eritreo.

Il successivo giorno 14 eseguivo il movimento verso Addi Zubahà. Qui giunse S. E. Pirzio Biroli, comandante il Corpo d’Armata Eritreo; mi impartì personalmente gli ordini acciocché proseguissi con due battaglioni, il 2° e il 4°, per Passo Uarieu dovendo svolgere un’azione dimostrativa verso Abbi-Addi, con una colonna leggera al mio comando, come previsto dal precitato ordine di operazione.

Sul passo

Il successivo giorno 15 raggiunsi il Passo Uarieu, dove, in seguito ad analoghi ordini del comandante del settore generale Somma, Comandante la 2ª Divisione CC. NN., assunsi il comando di tutte le truppe dislocate nella zona, costituite da: l’organo del Comando del mio Gruppo, col Reparto Zappatori e il Reparto Esploratori, il 2° e 4° Battaglione CC. NN. d’Eritrea, il Comando della 180ª Legione e il 180° Battaglione della Legione stessa, tre Compagnie Mitraglieri della 2ª Divisione CC. NN., il 12° Battaglione Eritreo, il 6° Gruppo Autocarrellato Eritreo da 77-28, la 180ª Batteria Legio- /301/ nale CC. NN., il Gruppo Cannoni della 28 Ottobre su due batterie.

Nel frattempo il Comando del Corpo d’Armata Eritreo aveva costituito altri raggruppamenti di forze che, alla data del giorno 18, risultavano così dislocati: 2ª Divisione Eritrea e 1° Gruppo della Divisione Eritrea nella zona di Mai Meretà; 116ª Legione CC. NN. della 28 Ottobre verso l’Amba Tzellerè a sud del Passo Abarò; 1° Battaglione CC. NN. d’Eritrea a Passo Abarò; 3° Battaglione CC. NN. d’Eritrea ad Addì Zubahà; 4° Gruppo Eritreo, al comando del colonnello Butta, comprendente i Battaglioni 9° e 17° rinforzati dal 174° Battaglione CC. NN. della 28 Ottobre, da una compagnia Mitraglieri pesanti CC. NN. e da una batteria del Gruppo Cannoni della 28 Ottobre, dislocato presso le acque di Monte Pellegrino, a nord dell’Amba Carnale.

Secondo gli ordini emanati dal Comandante del Corpo d’Armata Eritreo, l’operazione doveva svolgersi nel seguente modo:

La colonna di sinistra, composta della 2ª Divisione Eritrea, al comando del generale Vaccarisi, doveva procedere all’occupazione di Melfà, seguendo la direttrice Mai Meretà, Zeban Kerchatà, Monte Lata, Melfà. Alla sua destra la colonna del colonnello Butta, attestata inizialmente tra l’Amba Carnale e Abba Salama, doveva svolgere azione concomitante a quella della colonna Vaccarisi, tenendosi in condizione di raggiungere, se richiesta, Monte Lata e Melfà.

/302/ Alla estrema destra, nella piana di Beles verso Abbi-Addi, doveva agire, con compito dimostrativo, una colonna al mio comando, costituita dal 2° e 4° Battaglione CC. NN. del mio Gruppo, da una compagnia Mitragliatrici pesanti del 2° Battaglione, da un Gruppo di cannoni 65/17 su due batterie della 28 Ottobre.

Monte Lata

Il compito di questa colonna era di attrarre le forze armate dislocate nella zona, pure evitando di correre il rischio di essere staccata dall’appoggio di Passo Uarieu per la prevalente azione di forze nemiche scendenti sia da Debra Amba che da Uork Amba.

Il giorno 20, all’alba, l’operazione aveva inizio. La colonna di sinistra raggiunse Monte Lata, superando resistenze non notevoli; la colonna Butta non ebbe occasione, nella giornata del 20, d’impegnarsi notevolmente. La colonna al mio comando, secondo i superiori ordini emanati riusciva ad attirare su di sè l’attenzione del nemico, col quale prese contatto soltanto con episodiche azioni di pattuglie.

Il successivo giorno 21 l’azione riprese per il raggiungimento degli obiettivi prefissi. Mentre la colonna Vaccarisi e la colonna Butta, entrambe alle dirette dipendenze del Comandante del Corpo d’Armata, svolgevano la loro azione per l’occupazione di Melfà, la mia colonna si trovava dislocata nella Piana di Beles, a circa tre chilometri a sud del /303/ Passo Uarieu. Alle ore 10,45 ricevetti l’ordine dal Comandante del settore di avanzare decisamente verso sud, per procedere all’occupazione dei roccioni nord-occidentali di Debra Amba, posti a circa sei chilometri in linea d’aria dai ridotti di Passo Uarieu.

Emanate le disposizioni conseguenti, ebbe inizio l’azione per l’occupazione dell’obiettivo assegnato, azione che doveva determinare poi il più aspro combattimento di tutta la campagna, che ebbe come episodio culminante una lotta in campo aperto nella zona di Mai Beles e una tenace difesa nelle posizioni di Passo Uarieu.

Il 4° Battaglione CC. NN. d’Eritrea alle ore 14 riusciva ad occupare uno dei più aspri roccioni dell’Amba, accanitamente difeso dal nemico. Il 2° Battaglione CC. NN. d’Eritrea, dislocato a destra del 4°, s’impegnava aspramente con una colonna di circa mille armati che tentava l’aggiramento del 4° Battaglione. I Reparti del mio comando (una compagnia del 2° Battaglione, un plotone Mitragliatrici pesanti) erano fortemente impegnati da un’altra colonna nemica che tentava di raggiungere la posizione dove trovavasi l’unica batteria da 65/17 assegnata alla mia colonna il giorno 21.

L’obiettivo raggiunto

Le forze nemiche erano state attratte in pieno dalla nostra azione; l’obiettivo che mi era stato ordinato di raggiungere era raggiunto a prezzo di gravi sacrifici. Alle ore 14,45 il Comandante del /304/ Settore mi ordinò di rientrare nelle posizioni di partenza di Passo Uarieu, mettendo a mia disposizione il 12° Battaglione Eritreo per usufruirne nella non facile situazione che si era nettamente manifestata per la stragrande prevalenza nel numero delle forze nemiche.

Il Comandante del Corpo d’Armata Eritreo diede ordine alla colonna principale di sinistra di procedere celermente verso la cima di Debra Amba, allo scopo di sfruttare il successo ottenuto dalla mia colonna. La distanza cui si trovavano le forze del generale Vaccarisi non consentì che il concorso di tali forze pervenisse nel tempo necessario. Fu arduo il ripiegamento, ma i Legionari del 1° Gruppo che ebbero vicino i mitraglieri e gli artiglieri della 2ª Divisione CC. NN., e gli Ascari del 12°, ascrivono con orgoglio a loro onore l’avere impiegato oltre quattro ore a ripiegare su una profondità di circa quattro chilometri, contrastando al nemico il terreno palmo a palmo, riuscendo a infliggergli ingentissime perdite che lo obbligavano a fermarsi, data anche la sopravvenuta notte, sotto le difese di Passo Uarieu, consentendo al Comandante del Settore di poter procedere nella notte stessa alla organizzazione della difesa del Passo, difesa contro cui inutilmente si accanirono ripetutamente gli assalti del nemico nei giorni 22, 23 e 24.

Le forze per la difesa furono suddivise in due settori: uno, quello antistante, fu affidato al mio comando e ne facevano parte: il 2° e il 4° Battaglione CC. NN. d’Eritrea, il 12° Eritreo, il 6° Gruppo Autocarrellato, una compagnia del /305/ 180° Battaglione, due compagnie Mitraglieri del 2° Battaglione; l’altro, retrostante, al comando del console Biscaccianti, costituito da due compagnie del 180° Battaglione, dalla 180ª Batteria Legionale, da due compagnie Mitragliatrici pesanti e dall’Artiglieria del 2° Gruppo Cannoni.

Nel ridotto occupato dalle forze del secondo settore, erano dislocati anche il Comando della Divisione 28 Ottobre, con il suo quartier generale, l’ospedaletto da campo ed i servizi.

Immagini tra le pagg. 304 e 305
Tabernacolo

Tabernacolo costruito in onore di Maria SS.ma dalle CC. NN. di P. Giuliani

Prima sepoltura

Prima sepoltura del P. Giuliani

Tomba Lusardi

Tomba del S. Ten. Lusardi, ideata e voluta dal Gen. Diamanti (Hauzien, Novembre 1935-XIV)

Tomba Giuliani

La tomba del Padre Giuliani nel Cimitero a Lui intitolato
(Passo Uarieu)

L’elogio del duce

L’accanimento del nemico fu pari all’eroismo dei difensori delle posizioni. La fame, la sete, la stanchezza, non fiaccarono ne lo spirito nè le forze della difesa. La situazione creatasi consigliò, però, di desistere per il momento dal raggiungimento dell’obiettivo previsto dall’ordine di operazioni.

Le due colonne attaccanti sulla sinistra furono, con rapido spostamento, impiegate a rinforzare lo schieramento a tergo del Passo Uarieu, e presidiare fortemente la linea verso Hausien, ciò che fece desistere il nemico da ogni velleità offensiva. Gli obiettivi previsti non furono raggiunti, ma il nemico ebbe, nella prima battaglia del Tembien, il più duro colpo morale che ci si poteva ripromettere. Il suo piano d’azione ne uscì completamente sconvolto. L’iniziativa era restituita completamente nelle mani di chi, con le successive battaglie, affluite le nuove unità, seppe condurci alla finale vittoria.

/306/ Tutti, di qualsiasi arma, di qualsiasi reparto, di qualsiasi specialità, furono egualmente degni dell’elogio che il Duce si compiacque inviare alle truppe che presero parte alla prima battaglia del Tembien, elogio che fu emanato con l’ordine del giorno del Comando Superiore dell’A. O. il giorno 30 gennaio 1936, e che suona testualmente così:

«Il tentativo nemico di spezzare il nostro schieramento in corrispondenza del Tembien è stato annientato nella vittoriosa battaglia dal 20 al 24 gennaio u. s. A V. E., che ha ideato la manovra, agli ufficiali e alle truppe nazionali ed eritree che l’hanno eseguita, all’arma del cielo che ha validamente concorso alle operazioni, va il mio fervido elogio. Questo mio elogio è in particolar modo diretto alle CC. NN. del 1° Gruppo Battaglioni d’Eritrea e della Divisione 28 Ottobre che, con l’eroica tenace difesa al Passo Uarieu, respinsero il nemico dopo due giorni di accaniti combattimenti. La vittoriosa prova del Tembien è vittorioso auspicio per la vittoria futura.

«Mussolini»

Sicuro auspicio! Altre quattro battaglie, altre quattro vittorie. Cinque battaglie, e la conquista di un Impero.

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Il cappellano del Gruppo Diamanti

Discorso letto dal generale Filippo Diamanti nello storico salone del Palazzo Madama a Torino, la sera del 21 gennaio 1937-XV, primo anniversario della morte gloriosa del P. Giuliani, cappellano del Gruppo Diamanti

Eminenza,1 Eccellenze,2 Signore, Signori,

Consentitemi che io mi permetta di ritenere che l’accoglienza di plauso testé tributatami sia rivolta alla mia persona solo col significato di rendere omaggio a coloro che della più recente pagina della Storia d’Italia hanno avuto la ventura e l’onore di essere attori partecipi.

Ma consentitemi allora che io vi preghi di considerare che fra quanti ebbero la possibilità di combattere per la realizzazione di uno dei punti basilari del programma fascista, quelli verso i quali noi tutti dobbiamo sentirci pervasi da un sentimento di profonda gratitudine, sono coloro che tutto hanno donato, rimanendo eternamente avvinghiati a quella terra che è stata testimone di /308/ gesta epiche che sicuramente superano nella intensità tutti gli episodi eroici del passato, potendosi affermare senza vana retorica, che l’eroismo e lo spirito di sacrificio nella dura se pur rapida recente campagna non è stato retaggio di una minoranza di eletti, ma patrimonio comune di tutte le masse operanti.

Consentitemi che io vi chieda di rivolgere a loro il vostro, il nostro pensiero, giacchè solo in un clima di austero raccoglimento mi sarà reso meno difficile il compito di rievocare qui, dinanzi a voi, la figura di un grande scomparso sulla cui morte gloriosa molti hanno riferito, parecchi hanno scritto, pochi, anzi pochissimi, hanno saputo segnare nelle pagine della Storia la verità vera che è le mille volte più bella di tutte le ricostruzioni fantasiose.

Padre Giuliani è caduto da sacerdote che esplica la sua missione in mezzo ad uomini che combattono per la loro Patria; e siccome coloro che combattono espongono la propria vita, Egli si trovava là dove la vita si espone; e siccome dolorosamente, ma irreparabilmente, tra coloro che espongono la propria vita una più o meno forte percentuale sono destinati a soccombere, Egli, compreso tra coloro che il destino ha prescelto per il sacrificio supremo, ha trasformato la sua missione in martirio, chiudendo la sua terrena esistenza in una sublime apoteosi da amore e di gloria.

Egli è caduto così com’è descritto nella motivazione della più alta ricompensa al valor militare concessa alla sua memoria; motivazione che io /309/ stesso ho redatta e che sintetizza ciò che hanno visto i miei occhi; giacchè, fra tutti coloro che hanno riferito o che hanno scritto, consentitemi almeno l’orgoglio di potervi dire che è la prima volta che parla del grande scomparso chi è stato testimone delle sue ultime ore di vita, così come gli è stato camerata fraterno negli ultimi mesi della sua esistenza.

Mi raggiunse in Adi-Caieh nel mese di maggio del 1935. Conoscevo il suo nome; avevo letto un suo libro sugli Arditi; avevo avuto modo soprattutto di apprezzare le sue doti di spirito e di cuore attraverso una lettera che Egli mi indirizzò nel febbraio del 1935 non appena seppe della sua assegnazione al mio Comando.

Io credo superfluo illustrare qui dinanzi a voi le doti di carattere, le qualità intellettive, lo spirito, la fede di Padre Reginaldo.

Egli nella sua Torino, nel suo Piemonte, è troppo noto, perchè io possa pensare di metter qui in evidenza le sue eccelse qualità di sacerdote, di predicatore, di educatore.

Ma gli uomini per giudicarli bisogna poterli apprezzare non attraverso il normale andamento della comune vita, ma seguirli in quegli ambienti eccezionali dove, per particolari condizioni, cessano molte delle costrizioni imposte dalle convenzioni, dalle necessità, dai doveri di una disciplina sia pur volontariamente desiderata ed accettata.

Ebbene, io posso asserire che, se pur spoglio della sua candida veste, costretto ad una vita di /310/ eccezione, obbligato ad una convivenza con elementi della più disparata mentalità, io e con me tutti gli ufficiali e con noi tutti i legionari, abbiamo visto in Lui sempre e soltanto il sacerdote che nei lunghi mesi di attesa precedenti le operazioni, nelle aspre ed estenuanti marce oltre i vecchi confini, nelle veglie durante le soste, nei combattimenti precedenti le giornate del gennaio, siccome nella tragica e sanguinosa giornata del 21, ha sempre esercitato esclusivamente la sua missione materiata di fede cristiana e di passione italiana.

C’eravamo compresi reciprocamente fin dai primissimi giorni del suo arrivo.

A mensa egli sedeva quasi sempre a me vicino; nelle ore in cui le necessità del servizio me lo consentivano (parlo del periodo antecedente alle operazioni) mi trattenevo spesso a conversare con Lui; ma le nostre conversazioni non riflettevano mai questioni specifiche di servizio; se Egli aveva bisogno di Richiedermi qualche cosa riflettente necessità inerenti l’estrinsecazione della sua attività lo faceva sempre attraverso l’aiutante di campo od altro ufficiale; nè ai miei ripetuti inviti di rivolgersi a me direttamente quando ve ne fosse stato il bisogno, Egli acconsentì di cambiar metodo; giacchè asseriva che la sua particolare missione non gli poteva concedere speciali privilegi, ma imponeva a Lui che nei vincoli della subordinata disciplina Egli potesse costituire esempio costante per coloro che dovevano condividere la diuturna vita del campo.

Egli si recava spessissimo presso gli accampa- /311/ menti dei singoli battaglioni; partecipava alle mense degli ufficiali; viveva tra le Camicie Nere nelle ore di riposo; condivideva con loro le asprezze della dura vita di preparazione alla guerra.

Ricordo di non aver mai udito da Lui riferimento alcuno su quelle inevitabili, momentanee, fugaci divergenze che possono affiorare tra giovani elementi che condividono tra loro continuamente la vita nel succedersi ritmico dei giorni, negli spazi lunghi del tempo.

Ma sono venuto a conoscenza solo più tardi come Egli sia sempre, in tali casi, tempestivamente intervenuto, allo scopo di rendere ancor più omogenei e più amalgamati i quadri tra loro, le truppe tra loro, i quadri con le truppe; sicché io posso serenamente ed onestamente affermare che quel blocco granitico di volontà e di muscoli formato dai quattromiladuecento legionari che il 3 ottobre 1935 varcarono il Belesa sotto le insegne del Gruppo CC. NN. d’Eritrea, era permeato di quello spirito che in otto mesi d’intensa preparazione io avevo cercato di trasfondere in ognuno, ma era anche permeato ed ingentilito da una fede che completava lo spirito guerriero, quella fede che con la parola e con l’esempio il degno sacerdote sapeva trasfondere nelle anime di coloro che alla prova sublime seppero serenamente affrontare la più aspra, la più cruenta, la più difficile battaglia della Guerra Italo-Etiopica, battendo in campo aperto, in una sproporzione di forze quale si ebbe analoga soltanto sui campi di Adua e di Dogali, un nemico che riteneva che al primo incontro con /312/ le truppe nazionali, avrebbe avuto la possibilità di annientarle e di distruggerle.

Credeva e riteneva; ma quando verso i primi di marzo, dopo la seconda battaglia del Tembien furono fatti prigionieri alcuni capi indigeni che avevano partecipato alla battaglia del gennaio, questi affermarono e confermarono in dichiarazioni raccolte dal Commissariato Civile di Hausien, che pur avendo ricevuto ordine di cercare di rilevare qualche prigioniero, non era stato loro possibile farne alcuno, perchè gli armati abissini, venuti a contatto anche coi feriti, questi si difendevano fino all’ultimo anelito, lasciandosi uccidere piuttosto che lasciarsi trasportare.

E non saprei quale pensiero più bello elevare alla memoria di Colui che qui commemoriamo, nel riconoscere io, capo e comandante di quella falange di eroi, riconoscere che gran parte della loro anima e del loro spirito era stata curata, affinata, indirizzata da Colui che vissuto tra loro, cadde vicino a loro, per rimanere eternamente con loro.

Nell’ultimo periodo di sua vita Egli era dimagrito, direi quasi invecchiato.

Ma non aveva mai voluto rinunciare alla vita durissima della campagna e la sua naturale serenità di spirito che lo rendeva apprezzato camerata anche durante le ore di riposo, si era andata man mano attenuando, sostituendosi ad essa un’ombra soffusa di tristezza sicuramente derivante dalle sue menomate condizioni fisiche che facevano presentirgli l’impossibilità di affrontare per molto tempo ancora l’aspra vita della guerra coloniale.

/313/ Ma non ebbe mai a lamentarsi; usufruì soltanto negli ultimi tempi più spesso del suo muletto come trasporto personale, anziché seguire le lunghe marce a piedi com’era uso fare nei primi tempi della campagna, percorrendo i vari tratti degli snervanti itinerari ora con l’uno, ora con l’altro dei reparti in movimento.

Quante volte durante l’ultimo periodo io ho cercato di convincerlo a concedersi un po’di riposo proponendogli di portarsi, sia pur temporaneamente, in quella Adi-Caieh che Egli particolarmente prediligeva, perchè beneficata dalla sua opera per la costruzione di una chiesa per gli indigeni cristiani di rito copto cattolico.

Egli non aderì mai alla mia proposta, promettendomi che avrebbe acconsentito soltanto quando i battaglioni del Gruppo avessero avuto la possibilità di sostare per un previsto periodo di tempo, su determinate posizioni.

Egli affermò che, comunque, finchè i reparti avevano la possibilità d’incontrarsi col nemico, il suo posto era vicino alle sue Camicie Nere.

Ma il Gruppo Battaglioni d’Eritrea ebbe sempre, dal primo all’ultimo giorno della campagna, la possibilità d’incontrarsi e di battersi col nemico. E Padre Giuliani ci lasciò soltanto il giorno che Iddio lo rivolle più vicino a Sè.

Della particolare affezione che Egli aveva verso i Legionari del mio Gruppo ne ebbi la più alta, la più sublime prova, dopo la sua morte: quando un ufficiale del Comando con cui Egli si era confidato, svincolato ormai dal segreto impostogli, mi /314/ riferì che qualche tempo prima l’Augusto Comandante della 1ª Divisione CC. NN., il Duca di Pistoia, lo aveva chiamato a far parte dei quadri del suo Comando e che Egli, pur lusingato dell’ambito onore, aveva cortesemente pregato di esser lasciato vicino a quei Reparti coi quali aveva già condiviso le ore ansiose dell’attesa e le asprezze di alcuni mesi di campagna. Gesto nobile ed altamente significativo reso ancor più nobile dal fatto che Egli si era raccomandato a coloro che ciò sapevano, perchè io non ne fossi stato mai avvertito.

È nel mese di dicembre che Egli deve dedicarsi dolorosamente ai più tristi uffici della sua pietosa missione.

L’assistenza prodigata già in dolorose circostanze, quali la morte durante un’esercitazione di un valoroso ufficiale ferito da scoppio di bombe a mano, la perdita di alcune Camicie Nere dovuta ad una intossicazione, fortunatamente circoscritta a pochissimi casi, avevano rivelato già prima dell’inizio delle operazioni, com’Egli sapesse concepire la sua missione nel prodigarsi in ogni circostanza perchè il ferito od il morente non sentisse quel vuoto intorno a Lui che seimila chilometri di distanza dalla casa e dagli affetti più cari, creano per coloro che presentono l’avvicinarsi della fine della propria esistenza.

Sapevo di conseguenza com’Egli da solo avrebbe potuto lenire ogni dolore morale, confortare ogni tristezza, alleviare ogni pena e, nella previsione certa che i miei uomini avrebbero dovuto in un /315/ tempo non lontano affrontare sicura battaglia, io, nelle ore di comprensibile meditazione, ho sentito sempre il sollievo nel mio animo che proveniva dalla certezza che i miei legionari, che affrontavano con tanta serenità i sacrifici e la morte, erano assistiti spiritualmente da chi era più che degno di poterlo fare.

Il suo orgoglio maggiore era quello di essere riuscito a regolarizzare la posizione di alcune decine di Camicie Nere, sì da poterli rendere tranquilli che alcune creature innocenti avrebbero comunque assunto e conservato il nome del padre loro nel caso dell’eventuale olocausto della vita alla Patria.

La sua soddisfazione maggiore era di poter segnare il passaggio dei nostri Reparti con la costruzione di una croce, di una chiesetta, di un segno qualsiasi che testimoniasse della fede e delle virtù cristiane dei suoi uomini.

I suoi occhi sfolgoravano di commozione quando, dopo una Messa, parlando alle Camicie Nere, Egli si accorgeva, come sempre avveniva, di essere riuscito a penetrare nell’anima di quei giovani soldati abbronzati dal sole, adusati ad ogni fatica, pronti ad ogni cimento.

E pur noi che nella nostra vita di asprezza e di dolore, di ardimento e di pericolo non abbiamo mai cessato di essere dei sentimentali capaci di commuoverci ad ogni cosa che possa far vibrare la nostra anima; pur noi abituati alla freddezza apparente imposta dalle necessità della dominazione dello spirito delle masse; pur noi troppe volte de- /316/ lusi dalla realtà della vita che ci fa rinchiudere nella più triste solitudine, sentivamo commuoverci dalle parole di Colui che sapeva renderci più serena una vita dedicata al sacrificio, dandoci la certezza che tale sacrificio sarebbe stato compensato in un qualsiasi domani dalla voce della propria coscienza, paga di sapere che la nostra opera costituiva utilità per coloro che di essa avrebbero potuto e saputo beneficiare.

Ed ogni nostro tormento, ogni nostra passione umana la confidavamo a Lui, perchè ci potesse conoscere ed apprezzare di più, a Lui che ha portato con sè nel chiuso della sua tomba la parte più recondita e più pura delle nostre anime.

Lo rivedo ancora prono sui corpi esanimi dei caduti del 18 dicembre, del 22 dicembre e del 3 gennaio; lo rivedo ancora vicino a me il 21 gennaio verso le ore 15, quando tra l’infuriare della battaglia, tra il crepitare delle mitragliatrici e il fragore del cannone, Egli mi avvertì che era giunto al posto di medicazione il primo ufficiale caduto nella giornata, il centurione Capparelli spirato durante il suo trasporto.

Per quanto le necessità m’imponessero di non muovermi dal posto di combattimento, aderii al suo invito e percorsi i cinquanta metri che mi dividevano dal punto dove i valorosi medici si prodigavano allo scoperto per lenire il dolore fisico dei numerosi feriti. Mi avvicinai al caduto e leggendo negli occhi di Padre Giuliani il suo desiderio che interpretava il mio, mi chinai a baciare la fronte del povero Capparelli.

/317/ Fu lo stesso Padre Reginaldo che stringendomi forte la mano mi aiutò a rialzarmi e fissò il suo sguardo nel mio e senza proferire parola s’incamminò con me verso il mio posto di comando. Io gli dissi:

– Padre, rimanga qui; questo è il suo posto, io devo ritornare al mio. –

Furono le ultime parole che ci scambiammo.

La battaglia aumentò del suo furore; si protrasse ancora per lunghe ore; verso le sedici diedi ordine al mio aiutante di campo di accelerare lo sgombero dei feriti verso le posizioni di Passo Uarieu cercando di riportare nei fortini quanti più caduti fosse stato possibile; lo incaricai di organizzare e dirigere tale movimento, ed a sua protezione assegnai i Reparti Esploratori e Zappatori di Gruppo. Io rimasi su di un rilievo del terreno verso il quale si rovesciavano ad ondate le orde abissine contenute dall’eroismo epico dei Reparti che ripiegavano dalle posizioni più avanzate contrastando il terreno metro a metro. La difesa di quel caposaldo intermedio, costituito per tutelare il ripiegamento dei Reparti più provati, e per organizzare il successivo ripiegamento dei Reparti che con me combattevano, potrebbe essere soltanto descritta da chi avesse assistito solo come spettatore ad una fase così epica del combattimento giacchè ogni mio riferimento potrebbe essere considerato troppo soggettivo. Solo posso affermare che ogni frase, ogni aggettivo, sarebbe inadeguato a descrivere l’eroismo ed il valore dei miei uomini.

Fu in tale frangente che una massa di armati /318/ nemici provenienti dalla sinistra impegnò la colonna affidata al mio aiutante di campo; non valse l’eroismo degli Esploratori dell’eroica Medaglia d’Oro capo manipolo Berretta; non valse il sacrificio del Reparto Zappatori; il nemico si gettò sulla colonna della gloria e del dolore creando una sanguinosa mischia nella quale trovarono morte gloriosa il mio aiutante di campo seniore Fazio, il centurione veterinario dott. Maglioni, il capo manipolo Molaroni ed altri ufficiali, nonché numerose e valorose Camicie Nere.

Fra tutti una figura eroica spiccava alta levando verso il cielo un piccolo crocifisso di legno; Padre Reginaldo Giuliani cadeva tra i suoi uomini in atto di benedizione.

La massa intanto degli armati abissini assetati di sangue, si rovesciava sulla fronte e sulla destra della posizione da me occupata mentre il nostro fuoco falcidiava gl’inorgogliti assalitori; e gli eroici Reparti che avevano raggiunto con bravura ed ardimento le posizioni che mi era stato ordinato di raggiungere, e che avevano iniziato il ripiegamento, solo allorquando mi era stato ordinato di ripiegare, si trovarono di fronte ad un nemico che imbaldanzito dalla convinzione che il nostro ripiegamento fosse imposto dalla loro volontà, cercava ad ogni costo di raggiungere e di superare le retrostanti difese di Passo Uarieu.

Ho già avuto occasione di affermarlo e ci tengo in modo particolare a riaffermarlo che se i Legionari del Gruppo CC. NN. d’Eritrea ascrivono a loro titolo d’onore di aver saputo conquistare le /319/ posizioni accanitamente difese dal nemico costituenti l’obiettivo fissato dal Superiore Comando di Settore, essi ascrivono con orgoglio a maggior titolo di onore di aver ripiegato passo a passo, contrastando il terreno palmo a palmo, impiegando oltre quattr’ore a cedere il terreno velocemente conquistato, combattendo disperatamente e riuscendo a contenere l’azione del nemico sì da farlo giungere sotto le posizioni sistemate a difesa solo a sera inoltrata, e riuscendo a farlo desistere dal proponimento di scavalcare quella sera le difese di Passo Uarieu, dando la possibilità di poter organizzare nella notte la difesa in modo tale, da poter far considerare nei giorni successivi il Passo Uarieu come le Termopili della nuova storia dell’Italia Nuova.

Furono a noi vicini, altrettanto eroici ed altrettanto meritevoli di essere annoverati nella fulgida pagina di gloria di quella giornata, i Mitraglieri e gli Artiglieri della 28 Ottobre assegnati alla mia colonna e gli Ascari fedelissimi del 12° Eritreo condotti da ufficiali eroici cui non può mancare la incondizionata riconoscenza della Patria per essere essi riusciti a trasfondere il loro spirito nelle anime primitive, ma fedeli delle nostre truppe di colore.

Così si chiudeva la cruenta giornata di battaglia del 21 gennaio 1936.

La notte serena, stellata, scendeva sul contrastato campo di battaglia; le urla degli abissini, i loro canti di guerra, le loro nenie per i caduti, il tam-tam dei loro tamburi erano intramezzati dal /320/ crepitio delle nostre mitragliatrici e dal rombo ritmico delle artiglierie della difesa.

Il ticchettio delle stazioni radio dava all’Italia ed al mondo la notizia della cruenta battaglia.

L’Italia accolse la notizia con dolore ed orgoglio misto forse a stupore. Si era fatta un po’ troppo l’abitudine alle notizie delle nostre conquiste incruenti e non mancarono coloro che avevano creduto a quelle fantasiose battaglie nelle quali morivano diecimila nemici rimanendo sempre incolumi i vincitori.

Noi che conoscevamo la situazione attraverso le circostanze di vita e di ambiente, sapevamo che prima o dopo l’incontro col nemico vi sarebbe stato e che la battaglia si sarebbe avuta violenta e cruenta. La impossibilità di molte precisazioni faceva giungere in Italia le notizie con qualche inesattezza; alcuni comunicati non furono riportai esattamente; di conseguenza le più disparate versioni sul combattimento di Mai Beles e sulle sue cessive giornate di Passo Uarieu! E purtroppo, come sempre avviene, le versioni che più accontentavano la sete dei curiosi erano quelle dalle quali si poteva desumere che c’erano dei «se» e dei «ma» da chiarire.

No, no; nulla, assolutamente nulla, c’era o c’è ancora da chiarire. La realtà storica dei fatti non può essere artefatta e non la può distruggere nessuno.

I Battaglioni del Gruppo da me comandati ebbero al mattino del 21 l’ordine di raggiungere un /321/ determinato obiettivo; non lo oltrepassarono, non aggiunsero iniziativa alcuna nella esecuzione degli ordini; soltanto li eseguirono senza esitazione. Ebbero più tardi l’ordine di ripiegare sulle posizioni di partenza; lo fecero come le circostanze imponevano: combattendo e lottando disperatamente.

Posso affermare con tutta serenità che nei confronti delle perdite inflitte al nemico in circa duemila abissini uccisi, le nostre perdite rappresentano il minimo che si possa concepire.

Sedici ufficiali, centosessantaquattro Camicie Nere del mio Gruppo avevano fatto olocausto della loro vita; tre ufficiali, ottantun Legionari della 28 Ottobre erano caduti; insieme a loro e gloriosamente caduti erano tre ufficiali del 12° Eritreo in testa a numerosi fedelissimi Ascari.

Circa trecento feriti del mio Gruppo e alcune decine degli altri Reparti erano stati premurosamente raccolti nei ridotti sistemati a difesa.

Ho sempre custodito tra gli atti di quella giornata un documento che costituisce una delle più ambite ricompense alla quale io ed i miei Legionari potessimo aspirare. È un telegramma di S. E. Badoglio ricevuto dopo che erano stati emanati i primi comunicati ufficiali. Consentitemi che io ve lo legga:

«453 Op. Nel comunicato ufficiale non fu menzionato il Gruppo Battaglioni CC. NN. d’Eritrea alt ne sono dolentissimo alt ho provveduto a riparare alt nell’ordine del giorno del Duce il Gruppo /322/ est messo a posto alt nessuno meglio di me apprezza sacrificio et valore del 1° Gruppo Battaglioni CC. NN. alt

«Badoglio»

Io ricordo che il giorno 21 quando a tarda sera mi presentai al Comandante del Settore, generale Somma, comandante la Divisione 28 Ottobre, nel riferire sulle perdite, ebbi occasione di dire che il mio più grande tormento era quello dovuto al fatto di essere sopravvissuto ai numerosi ufficiali, alle numerose Camicie Nere che avevano fatto olocausto della loro vita; giacchè mi sembrava di aver letto negli occhi di alcuni morenti che essi, fissando in me lo sguardo, m’interrogassero per sapere se si erano comportati così, come nelle numerose volte in cui mi era stato dato di cercare di avvicinare la mia anima, alla loro, io avevo indicato si dovesse saper combattere, si dovesse saper morire.

Ricordo di aver avuto la presunzione in quell’attimo di esser io quasi riuscito a trasfondere nei miei Legionari quello stesso spirito che avevo sempre sentito alitare in me stesso; presunzione fuori posto, giacchè ripensando subito dopo a quanto era passato nella mia mente, sentii tutta la mia pochezza e tutta la inopportunità di arrivare a poter eoncepire che la mia modesta opera avesse potuto contribuire ad un così sublime risultato.

Non è possibile che soltanto l’esempio di un modesto Capo possa indirizzare le azioni così sublimi, così eroiche delle masse; un solo Capo era /323/ presente nella mente e nel cuore di ognuno; e non affermo cosa meno che reale e vera, non cerco nessun risultato di vana retorica se io confermo qui dinanzi a voi di aver udito io stesso, personalmente, invocare dai morenti in un ultimo grido di passione e di gloria il nome di Colui che ha redento l’animo e lo spirito degli Italiani, di Colui che presiede e indirizza, che guida ogni azione, che porta questo popolo verso il raggiungimento della sua incontrastabile potenza; ho inteso personalmente ufficiali e Legionari gridare il nome del Duce prima di esalare il loro ultimo respiro. Il nome di Colui che ha saputo far balzare vivo dal cuore degli Italiani quello spirito nuovo che pur era nel sangue, nella carne, nella mente degli Italiani tutti.

In quel nome proferito come ultima invocazione gli Italiani sanno di sintetizzare tutti gli affetti ed i sentimenti più cari perchè è il nome di Colui che ha saputo fondere nel nostro spirito i sentimenti d’amore verso la Patria, verso Dio, verso la Mamma.

Ed è a voi principalmente, o madri, che si rivolge in questo momento il nostro pensiero di gratitudine per averci saputo forgiare ed educare in modo da poter rispondere agli ordini di un Capo che assumesse la guida di questo grande popolo.

È a voi, madri, che in ogni momento della storia d’Italia e del suo ciclo di redenzione e di potenza avete saputo affiancare l’opera di coloro che combatterono e lottarono su ogni campo di battaglia, con la vostra cosciente parola che sapeva anche /324/ celare l’intimo sentimento di dolore per rendere più lieve, più sereno il nostro compito.

Ho riletto in questi giorni una lettera di una madre che è riuscita sempre a cornmuovermi particolarmente; è la mamma di Luciani che scrive al figlio nel lontano 1848, agli albori delle nostre guerre di redenzione; è la lettera di una mente elevata; ma è una lettera di una madre, ascoltatela:

«Mio carissimo figlio,

«Come sopporti tu, mio caro Luciano, codesta vita di stenti e di privazioni? Dalle lettere che scrivi al babbo sembra che la tua salute non ne soffra, ed oh, voglia il Signore che sia sempre così, affinchè la tua povera madre possa vivere, almeno su questo rapporto, più tranquilla!

«Non posso nasconderti che il saperti esposto ai pericoli della guerra non mi sia di una grande afflizione, e, anche occultandotelo, tu non lo crederesti; ma non posso nemmeno celarti, che quando seppi che vi avevano fatto ritornare indietro ne provai un sentimento che non saprei definire che col nome di orgoglio offeso; da questo dùnque tu potrai arguire che io non sono nel numero delle deboli madri italiane, e che in questa nostra maniera di sentire, noi siamo perfettamente d’accordo.

«Mio buono, mio coraggioso figlio, siano tutte le tue azioni guidate dall’onore, abbi sempre viva fede della nostra Santa Religione, non smentire /325/ insomma giammai ciò che apprendesti dai tuoi genitori; affinchè tu possa essere loro di consolazione e possiamo sempre rammentarci di te con quella gioia che si rammenta un figlio virtuoso.

«Addio, amatissimo figlio, stai sicuro che la tua madre prega sempre per la liberazione della nostra Italia e per il ritorno glorioso del suo figlio diletto; ma quando fosse altrimenti, oh, ci rivedremo in Cielo!

«Ricevi la santa benedizione della tua affezionatissima madre

«Giuseppa Luciani»

Luciano Luciani morì a Curtatone il 29 maggio 1848.

E l’ho riletta perchè richiamatami alla memoria da un’altra lettera pervenutami dopo il combattimento del 21 gennaio dalla modesta madre di un Milite caduto in quel combattimento; consentitemi che ve la legga:

« Barco, 6-3-1936 »

«Signor Generale,

«Sono la madre della camicia nera scelta Giuseppe Pellegrini caduto in combattimento nel Tembien alle dipendenze di V. S. Le scrivo oggi perchè voglio che lei sappia che io umile donna del popolo, nel mio immenso dolore, sono fiera di aver donato un figlio alla Patria.

«Mio figlio s’è arruolato volontario dopo aver militato fin da bambino nelle schiere della Rivo- /326/ luzione Fascista per contribuire alla grande impresa africana. Sono certa che l’entusiasmo che non gli è mai difettato qui l’avrà fatto chiudere gli occhi da valoroso. Ciò, nel mio grande dolore mi è di sommo conforto.

«Codesta terra mi è tanto più cara ora che ha la grande prerogativa di accogliere la spoglia mortale del mio adorato figlio. Non imprecherò io contro il destino che mi ha tolto un figlio in cui vedevo il mio sostegno futuro: il suo sacrificio supremo, sono certa, darà la sua messe ed Iddio mi darà la forza di sopportare la mia grande sventura. Ho un altro figlio Rinaldo che arruolatosi volontario in Argentina è sbarcato in questi giorni in Somalia, egli saprà convenientemente vendicare suo fratello Giuseppe.

«Signor Generale, l’impresa voluta dal Duce per il benessere di noi tutti e che le valorose truppe condurranno a buon termine, sarà di conforto anche a me che sentirò di aver contribuito tanto fortemente alla buona riuscita! Nel formulare i migliori voti per ella che non conosco ma che indovino buon papà delle Camicie Nere, mi professo devotissima

«Bernabea Pellegrini

« Barco Pravisdomini (Udine) »

Due lettere, due madri, due tempi!

Gli albori del Risorgimento, la fondazione dell’Impero.

È un ciclo storico che si completa in meno di /327/ un secolo, ma l’anima di chi in tale ciclo vive è sempre la stessa; essa però si trasfonde dalla madre intellettuale di Luciani alla piccola madre del giovane Pellegrini.

È questo il fenomeno che giustifica la nostra potenza.

Non più una minoranza di credenti, ma un popolo che vuole, che pretende la sua grandezza con passione, con religione, con fede, con ardimento, con sacrificio.

Potevi tu, o Apostolo di Cristo, mancare all’appello e rinunciare al tuo martirio in una apoteosi di gloria di questo popolo che non ha l’eguale?

Non avevi anche tu nel sangue lo spirito eroico del sacrificio di una madre italiana il cui nome è legato a quello di un missionario che profuse se stesso nelle opere di bene di civiltà, in quella stessa Africa che ha assistito al più recente episodio di gloria degli Italiani?

E chi più di te, o Padre Reginaldo, era degno di assurgere alla gloria, di te che tutta la vita avevi improntata all’amore verso la terra che ti espresse.

Lo abbiamo raccolto noi il mattino del 25 gennaio sul campo di battaglia, al di fuori delle nostre linee di difesa; il suo corpo era intatto; era stato colpito da pallottola all’emitorace sinistro e da un colpo di scimitarra alla spalla destra. L’ho sepolto io, personalmente; era l’unico che, spogliato di ogni indumento, fosse stato lasciato coperto della camicia nera; inspiegabile circostanza se non attribuibile alla Suprema volontà di con- /328/ sentire che nel sacrificio eroico di Padre Reginaldo si dovesse onorare il simbolo dello spirito degli Italiani nuovi.

Onoriamolo questo sacerdote di Cristo, in umiltà; Egli è qui con noi; Egli ci indica la strada; a noi resta il compito di mostrarci degni del suo sacrificio; se la Provvidenza ci ha conservato alla vita non è per concederci un immeritato privilegio, ma perchè sull’esempio di chi più di noi ha donato, le nostre opere, il nostro amore, la nostra fede rendano sempre più forte, più bella, più serena la vita di questo popolo racchiuso tra i confini da Dio segnati per la nostra Italia.

/329/

L’eroica morte del Padre Reginaldo Giuliani
narrata da un testimone oculare

Dessiè, aprile 1936

M. R. Padre Ibertis,

Le rimetto copia di un articolo in parte già apparso in un giornale di Milano, L’Italia1, che ho completato con l’aggiunta della motivazione della medaglia d’oro già concessa.

Siccome sulla eroica fine di Padre Giuliani si continuano a scrivere ed a raccontare inesattezze, l’ho ritenuto mio dovere, sia verso la sacra memoria di Giuliani, sia per fissare definitivamente la verità.

Ho detto soltanto ciò che ho visto e come l’ho visto, il giorno 21 a Mai Beles. E penso che coloro che non hanno partecipato al combattimento di Mai Beles si debbano astenere dal dare descrizioni che sono frutto della fantasia. Ai superstiti della cruenta ed eroica giornata, spetta il diritto ed incombe il dovere di dire quanto hanno visto.

/330/ È ciò che ho fatto io, anche, ripeto, per rendere un tributo di postumo affetto al grande domenicano.

Le invierò prossimamente alcune fotografie del Cimitero di Passo Uarieu, che, come saprà, è stato, per nostra volontà, intitolato al nome di Padre Giuliani.

Accolga, Padre, i sensi della mia più devota stima, e mi creda di lei

dev.mo dott. Alberto Lixia
Gruppo Battaglioni CC. NN.
(Gen. Diamanti) A. O.

Le ultime ore del Padre Giuliani1

L’eco di profondo e commosso rimpianto che in Italia e all’estero – e segnatamente in America – ha suscitato la eroica fine di P. Reginaldo Giuliani, centurione cappellano del Gruppo Battaglioni CC. NN. del generale Diamanti, non è ancora spenta.

Eccezionale temperamento di sacerdote-soldato ovunque è passato, e negli anni della sua ardente giovinezza, esuberante di fede e di patriottismo, (ardito nella Grande Guerra, volontario fiumano), e negli anni della maturità quando la sua mirabile quadrata eloquenza tuonava e da’ più celebrati per- /331/ gami, nelle grandi solennità, ai fedeli innumerevoli e sulle piazze d’armi ai soldati, e nella torrida terra d’Africa alle Camicie Nere, ovunque è passato, P. Giuliani, con la parola e con l’esempio, ha lasciato un’incancellabile scìa di bene, profondendo i tesori della sua fede che affascinava tutti i cuori.

I suoi ammiratori, i suoi amici, umili e potenti, sono falangi. La vita e le opere di Reginaldo Giuliani sono notissime. Un lavoro immane senza soste, senza confronti: davvero grande Apostolo! Si può dire che le sue ultime ore rappresentino la sintesi della sua vita meravigliosa.

Il giorno 21 gennaio a Mai Beles (Tembien), il Gruppo Battaglioni CC. NN. del generale Diamanti ha visto P. Giuliani confuso tra i militi nei punti più pericolosi come sempre: come sempre una parola buona per tutti. La battaglia infuria violentissima; giungono i primi feriti. Con la soavità affettuosa di una madre, col trepido amore di un fratello, armato della sola Croce di Cristo, P. Giuliani è lì, attorno ai feriti che gli sorridono, rispondendo al suo sorriso: lo stoicismo della Camicia Nera lo commuove e lo esalta, gli occhi del Padre brillano di luce meravigliosa; ma il volto è come velato di mestizia: vede le giovani carni straziate delle CC. NN., il sangue che cola ovunque: non un lamento. È il miracolo della fede che si compie!

P. Giuliani si allontana dal posto di medicazione: una commossa intima gioia gli muove il pianto.

/332/ La battaglia continua più aspra che mai, i feriti aumentano, giungono i primi caduti. Un centurione, Capparelli Francesco, nobile figlio di Calabria, è caduto mortalmente ferito all’addome mentre alla testa della sua compagnia si slanciava all’assalto di un’importante posizione.

P. Giuliani, appena avutane notizia, si porta, sprezzante del pericolo, verso la zona dove opera il Battaglione ed accompagna la salma dell’eroico ufficiale al posto di medicazione, dopo poco dopo ritorna col generale Diamanti.

Tutti assistiamo muti alla scena, baciamo la fronte del caduto con lo schianto in cuore ma, da soldati, senza battere ciglio, ci inginocchiamo per un istante mentre P. Giuliani prega.

Il 4° Battaglione ha conquistato i Roccioni scacciandone il nemico.

L’ebbrezza per la vittoria non fa perdere la testa a nessuno; sappiamo che il nemico è venti volte superiore a noi, ed attendiamo, con calma e pronti a tutto osare, l’urto di questa enorme massa di selvaggi urlanti. Comandi secchi e brevi si susseguono: reparti si spostano, rapidi, in silenzio.

Nel viso di P. Giuliani, che è vicino a me al Comando di Gruppo, passa come un’ombra appena percettìbile; lo guardo senza parlare.

Mi dice sottovoce:

– La giornata sarà dura. –

E poi, con un balenio delle fulgide pupille, aggiunge con forza:

– Maggior gloria ne verrà alle Camicie Nere del generale Diamanti! –

/333/ Mirabile vaticinio!

Alle ore 16 le orde abissine straripano da ogni parte: è in pieno svolgimento un accerchiamento in grande stile. Di lì a poco la lotta si fa selvaggia, corpo a corpo. Siamo uno contro venti. I feriti aumentano e molti sono i caduti. Sublime l’eroismo delle CC. NN. che si battono come leoni, trasfigurate dall’ardore della battaglia.

Al Comando di Gruppo cade colpito a morte l’ufficiale medico del 4° Battaglione, il capo manipolo Chiavellati, mentre è intento a medicare una Camicia Nera gravemente ferita. P. Giuliani si china sul ferito, che spira in pochi istanti. La salma del giovane e valoroso medico è pietosamente composta dal Cappellano. Dalla sinistra si profila un’altra grave minaccia di aggiramento; con la calma dei forti tutti siamo in linea. Il pericolo è grave e diventa, di attimo in attimo, più minaccioso: gli abissini sono a poche centinaia di metri da noi ma la linea di resistenza formata dagli elementi del Comando di Gruppo è salda come una muraglia; lo stesso generale Diamanti che, impassibile, dirige la battaglia, confuso fra le CC. NN. è sulla linea del fuoco con la mitragliatrice prima e col moschetto poi.

Fanno fuoco anche gli scritturali, i telefonisti, gli attendenti, i portaordini: fuoco preciso, calmo e micidiale che arresta per un po’ l’impeto delle orde che si fermano, quanto basta, per dare il tempo di rinforzare la linea e di predisporre i movimenti per sventare la gravissima minaccia sul fianco sinistro.

/334/ P. Giuliani è sempre in moto: pare che abbia improvvisamente acquistato il dono dell’ubiquità. Anche all’ala destra la pressione del nemico diventa insostenibile. Da Uork Amba scendono masse foltissime. Una sola compagnia, già molto provata, ne sostiene l’urto con eroica fermezza, il Comandante di Compagnia cade colpito a morte, ma le CC. NN. tengono duro. Molti altri cadono e restano avvinghiati all’arma come in un supremo anelito.

Cerco con gli occhi P. Giuliani: sono fermo sulla pista che da Sella Uarieu conduce ad Abbi-Addi per organizzare il deflusso dei feriti e per medicare quelli che sopravvengono. Ecco il Cappellano, un po’ distante da me, chino su alcuni caduti. Con lui sono alcune CC. NN. È completamente accerchiato: intuisco il dramma che sta per svolgersi. Gli grido di spostarsi a sinistra per sfuggire all’accerchiamento; ma nel frastuono della battaglia non mi ha certamente potuto udire. Altri feriti mi costringono a spingermi più avanti della posizione dove si trova P. Giuliani.

Sono le 16,30, la battaglia aumenta d’intensità: ovunque le CC. NN. si battono con estremo valore.

Le scimitarre che si vedono roteare per l’aria accompagnate dall’urlio demoniaco delle orde inferocite non fanno che centuplicare l’impeto delle CC. NN. La mischia è furibonda, le nostre perdite sono dolorose, ma il nemico è addirittura falciato dalle mitragliatrici. Molti capi-arma cadono, ma sono immediatamente sostituiti da altri. Molti /335/ feriti continuano a combattere. Ci siamo sottratti alla stretta nemica e siamo ormai in vista dei fortini di Passo Uarieu.

P. Giuliani ha tentato di trascinarsi dietro la salma del capo manipolo medico Chiavellati per sottrarlo alla furia selvaggia del nemico che lo circonda da ogni parte. Sembra ferito: con la mano sinistra appoggiata a terra come in atto di chi tenta di rialzarsi con fatica, tenendo alto nella mano destra un piccolo crocifisso di legno che ha sempre tenuto con se. La sua opera non è ancora finita, i morenti anelano la sua parola.

Un gruppo di amhara inferociti si precipita contro di lui: un tremendo colpo di scimitarra vibratogli da mano omicida lo atterra.

Una morte da eroe, da santo: un simbolo che resterà!

Ho ritrovato la sua salma sul campo di battaglia il mattino del 25, ha ancora indosso la camicia nera bagnata del suo sangue generoso. La clavicola sinistra è nettamente spezzata. La sciabolata gli è stata vibrata proprio sulla spalla sinistra dove sulla tasca della sahariana è visibilissima la croce rossa, segno distintivo dei Cappellani.

A Sella Uarieu, nel cimitero intitolato al suo nome, riposano le sue ossa in attesa di essere definitivamente tumulate nella chiesetta di Adi-Caieh, da P. Giuliani voluta e dalle CC. NN. del Gruppo Diamanti edificata.

In quel giorno i superstiti di Mai Beles e di Passo Uarieu inchineranno i gloriosi gagliardetti /336/ degli eroici Battaglioni e sul marmo sarà incisa a caratteri indelebili la Motivazione della Medaglia d’Oro sul campo:

Durante lungo accanito combattimento in campo aperto, sostenuto contro forze soverchianti, si prodigava nella assistenza dei feriti e nel recupero dei caduti.

Di fronte all’incalzare del nemico alimentava con la parola e con l’esempio l’ardore delle sue Camicie Nere, gridando: «Dobbiamo vincere, il Duce vuole così».

Chinato su di un Caduto, mentre ne assicurava l’anima a Dio, veniva gravemente ferito. Raccolte le sue ultime forze, partecipava ancora con eroico ardimento all’azione per impedire al nemico di gettarsi sui moribondi, alto agitando un piccolo Crocifisso di legno.

Un colpo di scimitarra da barbara mano vibrato troncava la sua terrena esistenza, chiudendo la vita di un Apostolo, dando inizio a quella di un Martire.

Mai Beles, 21 gennaio 1936-XIV.

Alberto Lixia

/337/

L’anima del Padre Reginaldo Giuliani

Avrebbe dovuto nascere crociato: la lorica sotto la bianca tunica crocesignata. Tutto in lui era del monaco, come lo sentì l’evo di mezzo: cuore e poesia, amore e morte, croce e spada; tutto in lui sarebbe stato istinto di lotta, se religione e ministero, tale istinto non avessero placato e pacato: tutto in lui rimase sempre bisogno di attività instancabile, di dedizione generosa.

Era di quegli uomini rari che donano, donandosi.

L’ardore interiore onde bruciava, sì che a poco più di quarantasei anni l’avresti detto più vecchio assai, traluceva per mille segni e lasciava facilmente intravederne la fiamma costante. Quella testa volitiva, dai tratti romanamente vigorosi, i capelli repellenti intorno alla larga tonsura, quasi fotosfera intorno al volto, e quella fronte aperta e chiara, sotto cui stellavano due occhi mobili, guizzanti, tutti faville, sincronizzanti al suo dire maschio, a scatti, rotto come colpi di arma da fuoco, avevano una linea e una struttura potente.

/338/ Viso aperto e leale, che domandava naturalmente il viatico dell’amicizia e lo donava con eguale prodigalità, senza sottigliezza, senza diffidenza, senza vana limitazione.

Forse era il suo corpo naturalmente agile e pronto: forse sarebbe stato felino se la gran tonaca bianca di Padre Domenico non gli avesse conferito una gravità semplice e spontanea: egli portava le sacre lane nobilmente, quasi come una toga pretesta: l’abito esteriore era l’immagine viva di un profondo decoro sacerdotale, tutto interiore.

La cinghia di cuoio, robusta e rozza sembrava attorno ai suoi fianchi, nell’attesa di una spada al posto del pacifico rosario, che tinniva al ritmo del suo passo rapido e deciso: ma quel rosario era veramente l’arma sua; quella che ne aveva protetto la giovinezza luminosa, ed aveva date le necessarie forze spirituali alla sua ardente virilità: più tardi fu scudo, non solo a sè, ma a tutti gli Arditi suoi figli spirituali: dopo la guerra fu come emblema di pace, non altro più che Corona di salutazione alla Regina, di cui era ad un tempo e servo e paggio e scudiero e cavaliere innamorato.

Tornata l’ora cruenta fu di nuovo arma e scudo: ed ora è certamente posata tra le mani conserte in pace per l’eternità. È giusto che sia così. L’antico eroe, morto sul campo, veniva composto dai compagni nello scudo e portato a spalla verso il sepolcro: P. Giuliani non è morto diversamente di un pio cavaliere del Graal: anch’egli è giunto ormai al suo Monsalvato.

/339/

Frate predicatore

Molto in questi giorni si disse nobilmente di lui. Si può dire che l’abbia commemorato in pianto tutta l’Italia. Lo ricordarono i commilitoni, ne rievocarono le gesta, superiori e compagni di ogni tempo, di ogni rango: furono ripetuti i motti gustosi, le penitenze ardite, inflitte ai suoi arditi – quasi pagine di Fioretti – l’attività senza tregua, la grande fiamma di amor patrio, il coraggio veramente sacerdotale.

Tutti amano rievocarlo nel corrusco bagliore della vita di guerra: gli uomini lo sentono in quel clima eroico che più pare il suo.

Il fendente dell’irregolare amhara gli ha conferito quasi un alone di martirio; di suprema testimonianza verso Iddio e verso la Patria, non certo discaro al cuore di chi fu veramente un soldato d’Italia ed un completo sacerdote di Dio. Ma tutto ciò fu, perchè prima di tutto e soprattutto, P. Giuliani era frate domenicano.

Arse di tal fiamma, prodigò il bene di un ministero incessante, seppe forzare il segreto di tanti cuori chiusi, forse ostili, non per il suo valore, non per la sua lealtà accostevole, non per il balenante splendore dell’animo: se mai tutto ciò ne fu il mezzo: ma perchè tutti codesti doni, da un altro più eccelso dono, egli ripeteva, da quell’abito e da quella regola sotto cui aveva piegato la sua giovinezza, tra le fila dei figli di San Domenico, /340/ e dal sacerdozio che ne aveva potenziate ed illuminate tutte le facoltà migliori.

Vi fu chi giudicò talora P. Giuliani troppo battagliero: e forse talora potette anche apparire così. Ma quante volte, osservandolo io, reclino e smarrito davanti all’altare, quasi l’essere suo inabissato e soppresso, io sentivo bene che i colloqui solinghi di quell’anima forte col suo Dio erano il segreto vero del suo impeto e della sua forza: sentivo bene che egli si abbandonava a quella mistica corrente che sfocia dal gurgite vasto di Dio e trasmuta l’uomo e lo plasma al modo di una divina volontà, che tale lo vuole, perchè possa compiere la sua missione.

Da questi isolamenti nella profondità della preghiera e della meditazione, da quei salmi cantati in coro giornalmente, scaturiva quel fascino che lo trasformava sul pulpito.

Piaceva alle folle. Ma piaceva anche ai più diversi ingegni, soddisfaceva alle più svariate inclinazioni: la sua parola giungeva ai cuori, o che predicasse tra i pericoli di una radunata al campo, sotto cieli rutilanti di sole, o vigilati da stelle silenziose, o che nelle belle chiese la sua voce ridestasse potenti echi e sembrasse scendere dall’alto, mònito di un numero remoto di secoli perenti: piaceva perchè ognuno ritrovava nella sua parola ardente e sacerdotale, qualche cosa della fiamma di una lontana giovinezza, remoti pensieri, appena avvertiti, slanci troppo spesso smorzati dall’egoismo arido e quotidiano, qualche cosa di quella vita /341/ che intravvedeva quale avrebbe dovuto essere e non era, ma che la parola viva del Domenicano fasciava di speranze, di aneliti, di rimorsi, di taciti propositi.

La sua eloquenza era robusta, mirava al cuore: vi andava. In breve s’impadroniva dei suoi ascoltatori e nel medesimo tempo ad essi si donava senza limiti: tutti gli argomenti tratti dalla vita, dai ricordi, dalle battaglie, dalle prove, dalle esperienze della sua vita religiosa portavano il loro contributo d’interesse, di veemenza, di persuasione, di pietà, di consiglio, d’incoraggiamento, che la parola adornava, il gesto ingrandiva, la voce sonora vestiva con note come di fanfara, ma in ultimo era il cuore che riassumeva, quel cuore di prete gettato là, verso gli ascoltatori, quel cuore che sapeva di quanto pianto, di quante tristezze, di quante agonie, di quante insufficienze fossero fatti i cuori degli altri.

Direttore spirituale

Perchè poi, appunto per tutto ciò, P. Giuliani fu un ottimo maestro dello spirito. E non tanto per quel devoto femmineo sesso, per cui prega la Chiesa e si tormentano spesso i confessori, quanto più verso quelle giovinezze tempestose ed acerbe che andavano a lui, per certe virilità scaltrite ed indurite, per alcune vecchiezze, ancora non dome nè placate, nè consapevoli del crepuscolo, forse della notte imminente.

Per costoro, difficili penitenti, era proprio il con- /342/ fessore ideale. Egli prendeva dal profondo tesoro del suo cuore di padre quelle ragioni suasive, che andando diritte al cuore, ne avevano ragione assai più di ciò che avrebbero fatto i bei ragionamenti, e l’apologetica usuale. Tant’è, nelle vie di Dio la Charitas ha sempre la sua divina precedenza e la sua sicurissima efficacia sulla dialettica tanto cara agli astuti figli degli uomini.

Ma accanto a codeste forze spirituali, scaturienti in profondo dall’animo sacerdotale del P. Giuliani, vi era qualche cosa ancora a renderlo caro ed era la sua fondamentale semplicità di bimbo: egli era rimasto, malgrado la vita e le sue esperienze, malgrado la guerra e il suo clima violento, l’antico fanciullo che in un giorno lontano aveva vestito le bianche lane.

E sorprendeva. Dietro quel balenar d’occhi, quel cipiglio alla brava, quel dire rotto ed affannato, quel gestire imperioso e volitivo, quella perpetua febbre di lavoro, sorprendeva la trasparenza inattesa di un’anima gentile, la semplicità elementare di alcune sue idee, i gusti, da dirsi, quasi casalinghi, la stessa sua meraviglia di fronte a certi casi della vita, che se il moralista indagava, il candido uomo rifiutava di accogliere, in un estremo gesto d’indulgenza. Perciò era un uomo estremamente lieto, giocondo di quella festevole sicurezza che ha le radici nella pace interiore, perciò il suo riso si commesceva spontaneo al riso della giovinezza turbolenta che gli era sempre attorno e la sua voce squillante, su tutte si alzava e faceva risuonare gli atrii e i claustri: perciò veniva ai suoi /343/ giovani, o negli studi o nelle armi, tutto rorido di una letizia che rendeva la Religione amica e faceva pensare che stando con lui si era in quel clima così dolce di Tiberiade o del lago di Genezaret o là «tra i giunchi di Galilea, dove dondola ancor la barca di Gesù».

E quelle ore apparentemente scanzonate erano di arduo lavoro: qua una parola, là un rimprovero, a questi uno sguardo, a quello un consiglio: qui una correzione al lavoro di latino, là un’occhiata all’aoristo forte male impiegato: non altrimenti lieve, gaio e bonario nelle ricreazioni coi padri. Il bimbo non mutava: fiorivano le arguzie, aneddoti e racconti di quaresimali e di novene, qualche ormai raro accenno al tempo lontano della guerra – perchè poi il cuore era tuttora là, coi vivi ritornati e con quelli per cui pregava ogni giorno.

In fondo avresti, vedendolo così, fatto davvero fatica ad immaginarlo in grigio verde, perchè sentivi che il saio domenicano gli stava bene, come quello che col suo nero pareva incupirne le pupille fosche e i capelli scuri, in contrasto del viso ulivigno e di tutto il bianco della tonaca, da cui pareva come illuminato, quasi un riflesso di una luce interiore.

Neppure te lo immaginavi in giro, come fu, per il mondo, predicatore e confessore e soprattutto mendico per amor dei suoi frati che sapeva in strettezze e povertà, per amor di quelle giovinezze fiorenti nel noviziato e negli studentati e che taluna volta non sapevano come provvedere al do- /344/ mani: mendico senza sosta, ma ricco nella sua mendicità, perchè bisognava sentirlo con quale fierezza si parava delle glorie del nostro Ordine! Sembrava che fossero suoi antenati, tutti i santi, i sapienti, i martiri, i docenti, che da Domenico avevano brillato nel cielo della Chiesa: egli sentiva bene di poter stendere la mano in nome di glorie imperiture, di conquiste senza limiti, di affermazioni spirituali piene di audacia. E allora era un altro uomo. Il frate antico, il frate dell’evo di mezzo, quello che dominava la Sorbona e le Università risuscitava in lui, balenava in quel suo atteggiamento di sicurezza, in una specie di ebbrezza vittoriosa, in cui l’uomo scompariva totalmente, per non rimanere che l’«alfiere» di un’idea, il testimonio di una spirituale genealogia profondata nel tempo e nell’eternità: una fiaccola.

Cappellano militare

Ed ora io penso, quanto vuoto laggiù tra i suoi soldati del Tembien! Anime, come quella del P. Giuliani, quando se ne tornano al Padre, lasciano un grande silenzio attorno. Da non parer possibile, che si siano dileguate.

Eppure P. Giuliani doveva finire così. Era segnato. Doveva essere come una luce nelle ore supreme. Nell’atto eroico e supremamente sacerdotale, impersonare tutta la falange ardita e santa dei giovani cappellani di guerra, che sono tanta vita tra i soldati, esempio di coraggio umano e sacerdotale, di prontezza, di ardore, di altruismo: /345/ prova di quanto bene questa assistenza abnegata e prodigata fino alla morte, possa fare tra le fila di coloro che combattono.

Mi fu detto che morì abbozzando un supremo gesto benedicente verso il nemico. Sarebbe in carattere: sarebbe perfettamente consono al pensiero di chi non obliava mai di essere tra i soldati e alla guerra, come sacerdote; pensiero che gli faceva raccomandare ai suoi: «Coraggio, ragazzi, combattete valorosamente, ma senza odio e senza vendetta». Le uniche parole che può dire il sacerdote di Cristo, il sacerdote, che anche in guerra e sul campo, è sempre ministro di pace e di perdono.

E del cappellano militare sentì la missione con grande spirito di responsabilità sacerdotale. Era un esempio. È ciò che si legge in tutte le numerose necrologie spontanee ed affrettate apparse in questi giorni.

Ho letto che si è anche pensato di portarne la spoglia a Torino: ma io spero che invece lo si lasci laggiù, a riposare in quella chiesetta di Adi-Caieh sorta come per incanto, malgrado tante difficoltà e per cui il Vescovo eritreo Chidanè Mariam Cassa lo aveva ringraziato con toccante riconoscenza. Io vorrei che riposasse là e fosse la sua tomba quasi una nuova presa di possesso di quelle terre che i Padri di San Domenico ebbero per i primi evangelizzate: riposasse sull’amba da lui consacrata e di cui scrisse con tanta grazia e semplicità, in cui lavorò capo muratore improvvisato, tra torme di bimbi tigrini, che naturalmente ve- /346/ nivano a lui, come spontaneamente erano venuti a lui tanti bimbi d’Italia.

Fu notato, quando partì, che vi era in lui una austerità insolita quasi presaga di ciò che l’attendeva. In vero, la sua gioia mi apparve contenuta e severa: parlava come chi si stacca dal suo mondo per un viaggio di cui non prevede il ritorno: le sue parole erano misurate, gli addii fieri, ma commossi.

Mi disse: «Ormai non è più il giovane di una volta che parte.... sono vecchio» e pensava a vent’anni prima, giovane frate, tutto madido di studi, tutto fresco delle prime esperienze religiose.

Forse non era un vero presagio, ma il naturale dolore per il distacco dai Padri e dagli amici: forse un senso più profondo della vita, che gli faceva intravedere nella loro realtà, le asprezze della nuova guerra, gli aspetti cruenti della lotta e il solco degli inevitabili dolori e distacchi.

Il ministro di Dio, fatto maturo, soverchiava ormai l’antico giovane pieno di sana baldanza: era veramente il monaco-crociato che salpava, ma sotto la croce purpurea appuntata sul petto vi era un cuore che tremava per il dolore altrui, per le giovinezze che gli stavano d’attorno e di cui qualcuna non sarebbe tornata più.

Era un nuovo cuore di samaritano. Ed è morto, sulla via, a lato dell’infermo, che assisteva e confortava.

Così si è conclusa la vita di un uomo che fu buono e generoso, di un vero sacerdote di Dio, /347/ tutto ardore e bontà. Majorem hac dilectionem nemo habet, ut animam suam ponat quis pro amicis suis (San Giov., XV, 13).

Perciò in quell’ora suprema in cui la vita ci viene incontro con tutto ciò che di bene e di male essa fu, in quell’attimo in cui lo spirito se ne parte sull’ala serena dell’ultima preghiera, quanta pace, caro Padre Giuliani!

Ecco la tua vita: ti è venuta incontro, da quando, bimbo schiettamente torinese, aspiravi all’altare e al chiostro, malgrado la vivezza del carattere: ti è venuto incontro il bianco noviziato con la lotta generosa dell’adolescente contro se stesso: il pensoso studentato, tra archi di claustri severi e parole di dottrine profonde: eccoti all’atto della prima Messa, e poi il primo schiudersi della vita religiosa! Brevi pause: poi la guerra e il ministero incessante, folle di combattenti e folle di oranti, teorie di anime trepide e di cuori dolenti, segreti di adolescenti, di uomini in cerca di Dio....

Tutto è finito già: ecco il tuo breve orizzonte di pietre e di sicomori si allarga, quanto più il tuo cuore sta spegnendosi: tacciono i rumori della battaglia e le vane voci degli uomini. Ma non sei solo! Oh, quanti volti conosciuti ti sorridono dalle trasparenze della loro pace e ti vengono incontro! Sono i tuoi giovani morti che ti aspettano da tutti i campi di battaglia ed in capo a loro è quello che è morto con te, nelle tue braccia, quasi scortato al trono di Dio, da te.

È tutto il tuo cielo ormai un batter di ali bianche, di preghiere che ascendono come l’incenso, /348/ di voci che implorano, mentre tu vai: bianca è la schiera che avvicini: sono i tuoi frati che ritrovi, i tuoi candidi santi, le glorie del tuo Ordine, come faci splendenti: e in testa ad essi ti accoglie il Beato Domenico e ti accompagna: ancora l’orizzonte pieno di luce si allarga e si trasmuta: al di là dei cori, ecco la bianca tua Regina, le mani nimbate aperte ad accoglierti.... e forse mentre te ne morivi laggiù, nell’amba desolata, qualcuno sul tuo volto ha visto un tenue sorriso: ha sentito che tu vedevi ciò che nessuno attorno vedeva, annuncio della vita nuova che si apriva e ti accoglieva, tutta rorida dell’alba immacolata di Dio.

Carlo Lovera di Castiglione O. P. T.

Fine

[Note a pag. 307]

1 Sua Eminenza il card. Maurilio Fossati, arcivescovo di Torino. [Torna al testo ]

2 Le loro Eccellenze il Prefetto di Torino e le diverse Autorità superiori civili e militari. [Torna al testo ]

[Nota a pag. 329]

1 La Domenica, settimanale illustrato del giornale L’Italia. 22-3.1936-XIV. (N. d. E.) [Torna al testo ]

[Nota a pag. 330]

1 Questa relazione è sostanzialmente identica a quella di cui parla il corrispondente Vincenzo Grigolato nel numero del citato settimanale La Domenica. Ma qui essa ha una immediatezza più concreta perchè più diretta. (N. d. E.) [Torna al testo ]