/43/

6.
Incontro con un santo a Massaua Umkullu.
Trasferimento a Gualà.

arrivo a Massawah
[28.10.1846]
Ismaele Aggà governatore ci riceve; madama Degutin; i due inviati di Dejacobis; lettera a lui.
In Dalac abbiamo passata la notte, e partiti la mattina prima del sole circa le due eravamo già ancorati nel porto di Massawah. Abbiamo domandato dell’Agente Consolare, ma non si trovava, perché era andato in Egitto col Console di Gedda, e non ci siamo [p. 75] incontrati in viaggio. Il Governatore però chiamato Ismaele Aggà, ci ricevette molto bene per il momento, ed avendo spedito subito un corriere alla moglie dell’Agente consolare Degutin, la quale non si trovava nell’isola di Massawah, ma in terra ferma, essa fra poche ore arrivò subito con due giovani venuti pochi giorni prima dall’Abissinia, mandati da Dejacobis. Già il governatore ci aveva dato una [una] casa sufficiente, ed aveva fatto trasportare alla medesima tutto il nostro bagaglio; di più anzi gia egli ci aveva fatto portare un pranzo arabo sufficiente.

Fatti i convenevoli con Madama Degoutin niente di più premuroso che sentire i due giovani venuti dall’Abissinia, e mandati dal Prefetto DeJacobis. Come noi non potevamo intendere la lingua abissina, Madama Degoutin parlava per loro dicendoci che questi giovani erano già stati mandati più volte nel corso dell’anno da Monsieur De Jacobis lagnandosi per lettera che da un’anno non essendo venuto più dall’Egitto ne lettere, ne denari si trovava nelle più grandi strettezze; [aggiunse:] nel corso di quest’anno noi abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto per soccorrerlo; il Signor Degoutin alla fine, sono 15. giorni si decise di partire per l’Egitto per levare d’imbarazzo la Missione. profezia di Dejacobis Dopo avergli congedato, or sono tre settimane [p. 76] eccoli di nuovo qui da quattro giorni; quando sono arrivati mi sono inquietata, perché [non] avrei potuto fare nulla, ma la necessità non ha legge, e come so che è un’uomo santo, Iddio provvederà, e così me ne stava tranquilla sulla parola che Egli disse loro prima di partire: figli miei andate tranquilli e vi assicuro che ritornerete colle mani piene, ottenendo più di quello che non pensate; io, proseguiva Madama, ho rimesso la cosa a Dio. Questa mattina quando ho veduto da lontano spuntare una barca, e poco dopo [sono stata] /44/ chiamata dal Governatore, allora ho detto frà me[:] coi Santi non si burla, e gia i ragazzi, i quali hanno una venerazione straordinaria per il loro Padre parlavano in tuono trionfante, come è chiaro. Io poi e tutti i miei compagni [eravamo] egualmente storditi al sentire tutto questo, per quan[to] abbiamo esaminato, nessuna notizia era venuta per via ordinaria, ecco tutto quello che posso dire.

Fortunatamente in Egitto M.r Leroi Prefetto dei Lazzaristi mi aveva consegnato una cassa contenente tre mille talleri di Maria Teresa, vale a dire più di 15. mille franchi per il Signor Dejacobis; questa cassa essendo sigillata non ho voluto aprirla; ho preso mille talleri della missione nostra e ripartitili ai due giovani, ho scritto una mia lettera al Signor Dejacobis nella quale gli significava la mia venuta, e lo pregava di prendere tutte le misure necessarie, e mandarci tutte le opportune istruzioni per venire in Gualà, oppure altrove, come Egli avrebbe ordinato, [p. 77] essendo nostra risoluzione di eseguire ciecamente i suoi ordini. spedizione dei giovani con lettere e denari...
[2.11.1846]
Così l’indomani partirono trionfanti i due bravi giovani Tekla Hajmanot e Walde Ghiorghis per Gualà, dove si trovava il suddetto Prefetto. Il luogo era abbastanza lontano, e domandava almeno sei giorni per arrivarvi, altri sei giorni per fare tutti i preparativi, e quindi altri sei per arrivare in Massawah, il che vuol dire una ventina di giorni che dovevamo aspettare.

Difatti non si fece aspettare gran cosa di più. Per causa nostra Madama Degoutin con tutta la sua famiglia lasciò [la] terra ferma e ritornò nell’isola per assisterci, e non mancava giorno che non ci mandasse qualche cosa dalle stesse sue provviste di casa per addolcire un tantino la nostra situazione, perché, tanto essa che le sue figlie erano molto religiose, epperciò [andavano] fuori di lore di trovarsi colla Messa tutti i giorni. Approssimandosi frattanto il tempo di vedere qualcuno arrivare dall’Abissinia i nostri occhi erano sempre rivolti da quella parte, come chi aspetta con anzietà qualche buona novella. Monsieur Dejacobis era di un cuore troppo nobile per mandarci qualcheduno e non venire egli stesso, epperciò, arrivo di Tecla haïmanot mentre noi stavamo aspettando, eccoti all’improvviso venire il nostro giovane Tekla Haimanot venuto prima a darci la bella novella che il Signor Dejacobis era vicino e fra poco stava per arrivare.

arrivo di Dejacobis; incontro nostro con lui
[26.11.1846]
[p. 78] Appena sentito questo non solo la nostra casa, ma ancora la casa dell’agente consolare fù tutta in movimento; ad eccezione di Fr. Pasquale rimasto a custodire la casa, noi quattro siamo subito sortiti, disposti anche di passare il mare per andargli incontro, ma appena arrivati al mare Tekla Hajmanot, eccolo sulla barca che viene, disse; una /45/ barca veniva diffatti con otto o dieci abissini, fra i quali un portava un parasole di paglia, ma in tutto il resto [era] vestito di tela bianca come tutti gli altri, ed a misura che si avvicinava, appariva di tutti il più mal vestito, e se nella figura e nel colore non si fosse fatto conoscere per un’europeo, nessuno di noi avrebbe detto essere [egli] Dejacobis il Prefetto della missione lazzarista.

Appena sbarcati, alla presenza di tutti quei mussulmani egli il primo, e poi tutti gli altri gettarmisi ai piedi: transeat gli altri, [osservai io,] ma Ella è nostro superiore: troppo giusto, disse, l’atto che faciamo troppo Le è dovuto, dovuto, perché troppo lo desideravamo, dovuto poi ancor più al pensare che sono più di tre secoli che un vescovo cattolico non ha calpestato più questo terreno abbandonato da Dio: oggi incommincio [a] sperare di salvare questi poveri tapini, e lì ci siamo tutti abbraciati strettamente, e poi camminammo verso la casa: Madama Degoutin anche essa colla sua famiglia [p. 79] gli baciarono le mani e ci seguivano sino alla casa nostra. Madama Degoutin per quella giornata volle pensare essa a tutta quella comitiva; tutti presero il caffè, e fatta un poco di conversazione, ministero di Dejacobis in Massawah;
Umkullu in terra ferma
[1.12.1846]
il Signor Dejacobis, domandatomi permesso incomminciò a fare una conferenza a tutta quella comitiva, dicendo che pensava [di] cogliere la circostanza del poco tempo che gli rimaneva sino alla nostra partenza per istruire i pochi neofiti che vi erano, e quindi amministrare i sacramenti, pregando Madama di fare avvertire i pochi che vi erano, affinché si raccogliessero in Umkullu in terra ferma, dove sarebbe andato, e dove i suoi allievi anche per parte loro avrebbero istruito. Ciò detto, furono congedati e restammo soli.

Appena partita tutta la comitiva si parlò degli affari nostri: si parlò della morte di Gregorio XVI. e dell’elezione di Pio IX. che ancor non sapeva, gli ho consegnato tutte le lettere che portavamo per lui in grande quantità, e poi si parlò di tutto il resto; io dissi quello che aveva portato per lui, ed egli parlò di tutti gli ordini dati per la nostra partenza, dei cinque muli comprati per noi, e via dicendo, ma poi ci esortò ad avere pazienza, per alcuni giorni, onde soddisfare ai suoi doveri di ministero in Massawah [p. 80] diffatti, passata la notte con noi per discorrere e soddisfare ai bisogni del suo cuore che anelava informarsi dell’Europa; l’indomani ci assegnò due dei suoi giovani, sia per il servizio di casa, sia sopratutto per fare gli involti secondo l’uso del paese, e poi se ne partì per Umkullu, seguendolo colà Madama Degoutin e la sua famiglia.

Appena rimasti soli sentivamo tutti un bisogno di esprimere a vicenda nostre ammirazioni sopra Dejacobis la grave impressione che ci fece l’apparizione di questo uomo; già ave- /46/ vamo sentito di lui molte cose dalla famiglia Degoutin, ma l’impressione che fece a noi sorpassò tutto. Uno esaltava la sua umiltà, un’altro il suo raccoglimento, chi il zelo d’istruire, e chi questa e chi quella virtù. Tutto era per noi un frutto nuovo che Iddio ci ha voluto far vedere prima ancora d’entrare nel campo del nostro apostolato, e ne ringraziavamo Iddio di questo bel tipo: che Iddio benedica il nostro viaggio sino a Gualà, io dissi, e pregheremo questo santo uomo a dettarci i santi spirituali esercizii, cosa ne dite? e tutti uno ore applaudirono la mia risoluzione.

disposizioni per il viagio; Mentre egli in Umkullu faceva le sue parti di missionario, noi disponevamo il nostro bagaglio sotto la guida di Walde Ghiorghis, al quale noi facevamo vedere e passare gli oggetti, ed egli gli inviluppava e gli riduceva in tanti involti proporzionati alla forza dei portatori, secondo l’uso [p. 81] alcuni altri poi per essere caricati sulla schiena di bovi, o di asini, secondo la diversa natura degli oggetti, dovendo venire a un dato giorno fissati dall’Abissinia i portatori, e dalle tribù dei paesi bassi anche una quantità di bovi da carico, ed asini. In quei paesi non si parla più di carri, di vetture, e neanche di sacchi, perché in luogo di quest’ultimi vi sono delle pelli di pecora e di capra, le quali senza essere tagliate in intiero così conciate servono per il trasporto degli effetti, dei grani, del butirro, e dell’aqua medesima.

arrivo dei portatori. Fratanto incomminciavano a discendere dall’Abissinia i nostri muli di cavalcatura, e da un giorno all’altro incomminciavano pure a radunarsi i portatori, ed i bovi. Il Signor Dejacobis aveva preparato una bella funzione, e Madama Degoutin il necessario vitto per noi in Umkullu, dove la prima volta siamo andati sul continente affricano due giorni prima della nostra partenza. L’indomani si fece una funzione solenne col mezzo delle vesti sacre da noi portate, cioè alcuni battesimi, Messa Pontificale, e qualche cresima.

invenzione del balsamo Dopo la funzione, fatta una piccola collazione, andammo a girare un poco [per] quella campagna, e venivano con noi alcuni dei giovani abissinesi; girando [per] quelle colline uno dei giovani volle rompere un piccolo [p. 82] branchicello di un’arbusto che egli altre volte aveva trovato, me lo portò affinché lo odorassi, al vederlo viddi subito che sembrava a quello del balzamo portato da Gedda. L’abbiamo esaminato e rompendolo dava una specie di sugo gommoso coll’istesso odore del balzamo; ritornammo al luogo dell’arbusto, [e] tanto io che tutti i compagni abbiamo giudicato che fosse proprio quello. Ritorniamo in casa, niente di più bello che darne notizia al Signor Dejacobis che abbiamo /47/ trovato il balzamo, fecimo sortire dall’involto il vaso di vetro dove stava chiuso quello venuto da Gedda, e si trovò la perfetta identità. Dejacobis era fuori di se di contentezza, e volle andare subito a vedere l’arbusto, fece egli stesso il confronto, e poi dopo ne fece raccogliere una piccola quantità che mi disse [di] voler mandare in regalo a Roma.

L’indomani passammo tutta la giornata per distribuire i carichi ai portatori, e non è a dire le difficoltà per convenirsi il prezzo; tutti i carichi furono collocati in fila, or l’uno, or l’altro andavano lo pesavano e poi ritornavano fingendo di non poterlo portare; facevano congresso frà [di] loro, e col loro capo, ed or domandavano di aggiungere prezzo, ed or fingevano di volersene andare; noi ci sgomentavamo, ma il Signor Dejacobis che conosceva le loro abitudini ci faceva segno di lasciar fare, e non è che alla sera che si poté combinare il tutto; fecero il contratto, [p. 83] diedero sicurtà, e noi abbiamo assegnato due dei nostri, i quali registrarono il loro nome, fissarono il numero degli involti, e che dovevano sempre accompagnarli. A ciascheduno di noi poi fu fissato il mulo coi suoi fornimenti, ed un giovane il quale doveva accompagnarci. partenza da Umkullu
[8.12.1846];
nuovi letti, nuove vesti.
Il Signor Dejacobis diede a ciascuno di noi un letto di viaggio consistente in una pella conciata, da stendersi per terra nel luogo il più piano che si può trovare; per coperta di notte, è una tela doppia di fabbrica abissina; per capezzale è un piccolo sacco dove ci sono le camicie da cangiarsi in strada, ed ecco tutto. Così camminano gli uomini apostolici.

La mattina seguente, se non erro il 21. Novembre, dopo celebrata la S. Messa, e fatto un poco di collazione abbiamo lasciato Umkullo bello non per altro che per i suoi pozzi di aqua dolce che ogni giorno manda all’isola di Massawah per i signori che possono comprarla, perché il basso popolo beve aqua venuta sulle barche da Arkeko un poco più salmastra, ma più a buon mercato. Partiti da Umkullu verso le dieci [del] mattino abbiamo passato la notte in Arkeko, detto anche Dehonò sede del Nahïb capo, o specie di regolo che governava allora tutte le tribù nomadi di terra ferma sino alle altezze dell’Abissinia; questi anticamente riceveva la sua investitura dal governo [p. 84] d’Abissinia, a cui pagava tributo, ma poi dopo che i Turki hanno messo un governatore nell’isola di Massawah con un battaglione di soldati, incomminciò anche a pagare il tributo ai medesimi per mantenere la sua autocrazia divenuta precaria da due parti, e soggetto a due governi, ai quali è continuo fomite d’inimicizia. Noi intanto abbiamo dovuto passare la notte in Arkeko per regolarizzare i nostri conti col Naïb suddetto, prendere da lui le guide, senza le quali non si può passare frammezzo [a] quelle tribù erranti, benché il Signor Dejacobis fosse molto amico /48/ loro, ed avesse già incomminciato ad esercitare il suo ministero fra i medesimi. Il Naïb ci regalò un bue ed un otre di miele, regali ben inteso che poi sono contro cambiati in melius, secondo l’uso di quei paesi. La sera si ammazzò il bue, del quale, presa una piccola parte si distribuì alla carovana, la quale, tutto compreso, contava più di 60. persone.

L’indomani mattima prima del giorno siamo partiti da Arkeko perché quel piano suo è molto caldo, verso le undeci siamo arrivati ad un fiume che scorre frammezzo alberi, dove abbiamo fatto il nostro pranzo mangiando alcune composte europee, ed un poco di carne arrostita sul fuoco, bevendo un poco di aqua con miele. Verso le tre ore di sera abbiamo di nuovo sellato i muli, e siamo partiti per passare la notte vicino ad un’altro fiume, dove si trovava erba per i nostri poveri muli. I pastori nomadi [p. 85] ci regalarono [di] molto latte, e qualche agnellino. arrivo ai piedi della Taranta: salita, freddo Di qui partiti in tre giorni sempre seguitanto lo stesso torrente, e quasi sempre frammezzo a due montagne vulcaniche siamo arrivati ai piedi della Taranta, la gran montagna che serve di ertissima scala all’alto piano del Tigrè, regno del nord d’Abissinia, allora governato dal Re Ubiè. Ai piedi di questa montagna abbiamo passata la quinta notte dalla nostra partenza da Umkullu. Come la montagna versa al perfetto levante, per non avere il sole sul dorso, appena spuntava l’aurora già si sellavano i muli, e subito partimmo; i precipizii erano molti e più della metà [del percorso] si fece a piedi; Passati i due terzi della montagna in un ripiano, dove vi si trovava molt’erba ci siamo riposati per fare il nostro pranzo, e per lasciare mangiare i muli, i quali non avevano mangiato la sera avanti. In quell’altezza la vegetazione incomminciava a presentarsi molto deliziosa, e tanto più deliziosa a noi che dopo il delta dell’Egitto avevamo sempre camminato fra paesi abbruciati dal sole. Venuti anche noi da paesi estremamente caldi, a misura che si montava, incomminciavamo [a] sentire un freschetto non indifferente: a segno che il Signor Dejacobis ordinò a tutti noi di aggiungere qualche camicia prima di terminare la [salita della] montagna, come abbiamo fatto.

nostro arrivo sopra l’alto piano; profezia dei padri Cesare e Felicissimo
[13.12.1846]
[p. 86] Verso le due siamo partiti, ed in meno di un’ora siamo arrivati in cima della montagna, e fù allora che [per] la prima volte [che] il vasto piano abissino si lasciò vedere da noi; il P. Cesare da Castelfranco, ed il P. Felicissimo da Cortemilia si misero a cantare[:] hæc requies mea, e ne avevano ragione, quel bell’orizzonte, e quell’aria balzamica ben se lo meritavano, e Iddio pare che gli esaudisse tutti [e] due, perché di cinque che eravamo essi appunto non ritornarono più [dalla missione], perché il P. Cesare morì in Kafa sul fine di Febbraio 1860., /49/ e P. Felicissimo divenuto Vescovo di Marocco morì parimenti in Kafa nel mese di Febbrajo 1877.

arrivo ad Hallai
[13.12.1846];
primi cattolici
Una volta saliti la montagna il più era fatto, perché poco più di un’ora dopo entravamo in Hallaj primo villaggio abissino, villaggio di frontiera, dove le guide dateci dal Naïb di Arkeko dovevano ritornarsene con molti altri dei paesi bassi che erano venuti coi loro buoi. Hallaj era un paese, dove il Signor Dejacobis aveva già esercitato il suo ministero, e vi avevano parecchj Cattolici, i quali ci riceverono con gran trasporto di piacere. Siamo entrati in casa di un cattolico abbastanza ricco perché aveva molti bestiami, segnale di richezza in quei paesi, ed al nostro arrivo ci regalò sul momento [di] un gran vaso di birra, e subito fu distribuito un corno a ciascheduno; il Signor Dejacobis già accostumato lo bevve con gran piacere, ma noi ancora stranieri a simile uso stentavamo [a] inghiottirlo, primo [p. 87] per la qualità della birra ancora in fermentazione, e molto carica di farina e crusca; secondo per causa del corno, il quale, benché lavato ha sempre un’apparenza mal propria; il Signor Dejacobis accorgendosene ci fece portare del latte in quantità. Dopo [ciò] il padrone di casa ci regalò un bue, il quale fù sul momento ammazzato e distribuito alla carovana.

L’indomani ci siamo trattenuti per due ragioni. La prima ragione era perché vi erano dei cangiamento a farsi nei portatori, e questo è sempre un’affare diplomatico in Abissinia, il quale prende molto tempo. La seconda ragione era perché il Signor Dejacobis aveva qualche dovere di ministero da eseguire. arrivo a Tukunda
[16.12.1846];
tradizioni abissinesi sull’Arca del testamento
Aggiustata ogni cosa, il giorno appresso siamo partiti per Tukunda, altro villaggio più a Sud, ma sempre sul bordo dell’alto piano. Nelle tradizioni abissinesi l’arca del testamento che si crede venuta in Abissinia con molti israeliti della schiatta sacerdotale fuggiti nel tempo della schiavitù di Babilonia, la quale si crede ancora attualmente esistere nella Chiesa cattedrale di Axum si dice essere passata in Tucunda, ed ivi essere stata nascosta per qualche tempo prima di passare in Axum (1a). Anche in Tukunda siamo entrati in una casa /50/ [p. 88] di un cattolico, il quale ci ricevette con molto piacere e ci regalò un bue, che poi non abbiamo voluto ricevere, abbiamo invece ricevuto una bella pecore ed una capra.

usi dei cristiani e dei mussulmani diversi; ragazzi che mangiano carne cruda Qui essendomi trovato presente casualmente mentre i giovani amazzavano la pecora ho veduto una cosa che mi fece molta impressione: alcuni piccoli ragazzi poveri presero le budella della pecora, e tali [e] quali ancora calde se le dividevano un bracio caduno, e senza lavarle, solamente le spremevano per far sortite gli escrementi, e poi se le mangiavano. Un poco lontano dal luogo altri giovani della nostra carovana portatori amazzavano la capra, e domandando [io] perché mi dissero che quelli essendo mussulmani non potevano mangiare la carne amazzata dai Cristiani, come questi non possono mangiare quella dei [macelli] mussulmani, perché altrimenti sarebbe come una professione di fede (1b).

ragioni per non mangiare carne dei mussulmani. Alcuni dei nostri hanno voluto fare delle osservazioni relativamente a questa prattica di non mangiare carne di [macelli] mussulmani sul riflesso che noi non dobbiamo favorire simili superstizioni, ma pure vi sono delle ragioni fortissime che militano in contrario; la prima di tutte le ragioni, e la più pratica è che, anche nel supposto che non vi fossero altre ragioni il solo riflesso che il publico non [p. 89] si può supporre istruito e convinto in un giorno, e fino a tanto che si può supporre esistere ancora qualcheduno, il quale possa pensare che noi mangiando la carne uccisa dai mussulmani noi siamo mussulmani, dobbiamo noi supporsi nel caso identico dell’Apostolo quando diceva[:] si esca scandalizat fratrem meum non manducabo carnes in æternum. Lo stesso [argomento] muta per i mussulmani per obligargli a mangiare la carne uccisa dai Cristiani prima di essere convinti in favore della fede Cristiana, perché operando contro conscienza farebbero peccato, e noi non possiamo direttamente concorrervi. Questa ragione serve ancora per non disprezzare gli infedeli troppo direttamente, quando in buona fede fanno qualche atto superstizioso prima di conoscere la fede cristiana. /51/ Gli Apostoli quando hanno comandato ai Cristiani di astenersi dagli idolotiti erano senza dubbio [indotti da] simili ragioni estrinseche.

Avvi poi ancora un’altra ragione che consiglia a tollerare quest’uso di non mangiare carne scannata dai mussulmani, ed è che tutti i Cristiani d’Abissinia essendo tutti cristiani di pura abitudine senza istruzione affatto, [sono] mantenuti solo da certi atti esteriori, i quali si possono dire più segnali di casta, che non veri atti religiosi figli di una convinzione: ora se questi cristiani mangiassero la carne [p. 90] uccisa dai mussulmani poco per volta si farebbero tutti mussulmani, e non si potrebbero più convertire al cristianesimo, perché i mussulmani sostengono la loro setta non coll’istruzione ma colla minacia di morte, come i veri frammassoni nostri. i mussulmani non si possono fare cristiani senza esporsi ad essere amazzati. Non è già che frà i mussulmani vi si debba supporre sempre un’ordine del governo che comandi di uccidere i cristiani, ma sibbene un principio di educazione fra loro, per cui credono di farsi un gran merito uccidendo un cristiano, sopra tutto un’apostata mussulmano fatto cristiano, in questi ultimi viaggi fatti in oriente mi sono convinto che questa stessa educazione dei mussulmani contro i loro apostati incommincia [a] introdursi fra i greci contro i latini, massime in certi luoghi; perché è proprio di tutte le sette che non si sostengono colla convinzione di sostenersi colla forza e col prestigio; in proporzione è sempre lo stesso principio che agisce frà i mussulmani, frà i greci, frà i Russi, frà i protestanti, frà gli Abissini, e simili.

partenza da Tukunda Ritornando ora al filo della nostra storia: in Tukunda abbiamo preso una guida per passare un piccolo deserto, dove i nomadi Taltal fanno delle scorrerie, e passato questo, verso sera abbiamo passata la notte in una piccola borgata in casa di un Prete indigeno eretico amico di Dejacobis, arrivo a Zaquarò
[17.12.1846];
dopo due giorni arrivo a Gualà
[19.12.1846]
mentre si faceva la preghiera.
e l’indomani sera siamo arrivati [a] Zaqquarò un bel piano circondato da colline, [p. 91] dove vi erano belle praterie per le nostre bestie, e dove fummo anche noi ricevuti da qualche bravo neofito del Signor Dejacobis, regalati secondo il solito di carne, di latte e di pane (1c). Da Zaqquarò in due piccole giornate siamo arrivati a Gualà, dove aveva il suo stabilimento e dimora ordinaria il nostro santo Prefetto Dejacobis.

Noi siamo arrivati a Gualà verso sera mentre quella numerosa famiglia stava facendo le sue preghiere della sera, e siamo entrati in casa mentre /52/ nostra impressione. si terminavano le preghiere suddette col canto del Pater noster in lingua abissina, e tono europeo; le voci di molti piccoli ragazzi ci apparvero un’armonia veramente angelica. Se non mi sbaglio arrivammo in Gualà Provincia dell’Agamièn, e Patria di Degiace Sabagadis, quello che ha governato tutto il regno del Tigrè [† 15.2.1831] prima di Degiace (2a) Ubiè: e siccome siamo rimasti in Gualà circa un’anno, e qui ebbero luogo molte operazioni, dovrà restare stazionaria la storia dei nostri viaggi per dar luogo a quella di tutto l’operato in Guala; cercherò di narrare tutto questo in breve per quanto sarà possibile senza tenere l’ordine del tempo, osservando piuttosto quello delle materie di diverso genere.


(1a) La tradizio[ne] dell’Arca del testamento venuta in Abissinia è pura tradizione abissina senza una base storica di qualche valore. Essa potrebbe essere vera, ed anche, se si vuole con qualche probabilità, perché nel tempo che disparve regnava la guerra e Gerusalemme si trovava in preda del pigliagio: l’Abissinia poi in quel tempo era forze l’unico paese, dove regnava il culto mosaïco, già introdotto molti secoli prima. Tuttavia [non] sarà mai un fatto storico provato con qualche fondamento. Giova sapere però, che il forestiere deve guardarsi dal contradirlo, se non vuole esporsi a qualche persecuzione. Si dice che si trova in Aksum nel santuario di questo nome, ma nessuno l’ha veduto; non solo i forestieri, ma gli stessi Vescovi abissini non sono ammessi a vederla. Alcuni suppongono che per causa della guerra, essa si trovi nascosta sotto terra. Io ho parlata con delle persone le più gravi in Abissinia, le quali credono come di fede il fatto, ma ne sanno anche essi un bel nulla. Nell’ipotesi che sia venuta sarebbe probabilissimo che sia passata a Tukunda, e che abbia dovuto rimanere qualche tempo. [Torna al testo ]

(1b) Dopo che io ho meditato bene la questione della carne amazzata dai cristiani e dai musulmani ho finito per convincermi che Monsignor Dejacobis aveva ragione dicendo che il mangiare carne scannata dai musulmani era una specie di professione di fede musulmana. Questo, non solamente per rispetto all’opinione publica, e per lo scandalo che ne avverrebbe, così già abbastanza dimostrata in seguito, ma avvi in questo atto qualche cosa di più: in Abissinia il cristiano scanna dicendo[:] nel nome del Padre...; il musulmano scanna dicendo[:] besmillà... nel nome di Dio uno ecc. cioè in nome del formolario della propria fede. Gli uni e gli altri poi intendono di fare un vero sacrifizio dell’ordine mosaïco: gli uni e gli altri lo fanno, sia per i morti che per i vivi, e lo fanno anche per voto ecc. È chiaro perciò che sì gli uni, ché gli altri devono guardarsene, per non comunicare in divinis. [Torna al testo ]

(1c) Zaquarò è il nome della provincia attigua a quella dell’Agamien, dove eravamo diretti, e dove siamo rimasti un’anno e più, per esercitarvi il ministero ordinato dalla S. C. di Propaganda colla sua lettera ricevuta in Egitto. La Provincia detta Agamien era la patria di Degiace Sabagadis, quello che aveva regnato molto tempo in tutto il Tigrè prima di Degiace Ubiè. [Torna al testo ]

(2a) La casa di Dejacobis si trovava in un luogo chiamato Gualà attiguo alla Chiesa di S. Giovanni; chiesa patrizia stata fabricata dal principe Sabagadis suddetto; essa era distante solo qualche kilometro da Aldegrad, antica capitale del principe medesimo. Dejacobis aveva preso solenne possesso della Chiesa di S. Giovanni, la quale era amministrata da lui. Detta Chiesa essendo di gusto abissino, ed amministrata in rito etiopico, poco si prestava per le funzioni latine, epperciò nell’interno del suo recinto Dejacobis aveva innoltre una Cappella abbastanza grande dove noi dicevamo la Messa, e dove ebbero luogo le ordinazioni in rito latino. [Torna al testo ]