Mark Cooper

Ando Gilardi
La Fotografia si Vendica

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Malgrado l’età già avanzata del mezzo, sono quasi due secoli, continuano a farsi ridicoli sforzi, per convincere non si sa più bene chi, che la fotografia sia un’arte, quando invece gli artisti, intendo tutti quelli che si ostinano a fare le immagini a mano, appena le hanno finite iniziano a farsi in quattro perché diventino fotografie: per un catalogo, listino, guida turistica o di museo, o anche per una notizia qualunque. Perché le cose sono andate in modo che un quadro, per fare l’esempio maggiore, oppure una statua, un disegno, un affresco, se poi non diventano fotografie è come se non fossero stati mai fatti. Il bello è che la fotografia di un quadro dipinto a olio, per fare l’esempio più comune, resta per chi ne parla e ne scrive un quadro a olio: non importa che l’olio non ci sia più, come si può toccare con mano, ma chi nel testo ne parla e magari l’analizza, parla della fotografia, la commenta e descrive come se fosse proprio il quadro davvero. Si tratta, so bene, di una innocente forma di schizofrenia, e uso il termine nel suo significato clinico, però a un vecchio fotografo come io sono, che ha passato la vita a fotografare – e non esagero che ho novant’anni – decine di migliaia di opere d’arte, fa quasi sempre sorridere ma a volte dà anche un poco fastidio.

Il vecchio fotografo no ma la fotografia si vendica: nel senso intendo che per diventare …un quadro non ha più bisogno dell’olio. Dovete scusarmi vi prego, ma io non sono mai stato capace di parlare e meno ancora di scrivere d’arte, in modo serio e meno che mai su di tono: insomma da critico e storico; per cui vado avanti a battute, a epodi e giambi come diceva qualcuno. E come allora si vendica la Fotografia? Trovando Opere d’Arte belle pronte per essere “prese”, per essere esatti – cose che in fotografia diventano immagini che a tutti gli effetti e con piena ragione si legano alla storia e alla produzione dell’arte manufatta – le cose belle pronte si trovano da tutte le parti ma specialmente in natura. E quelli disponibili e pronti e provvisti del mezzo e dei modi per fare un gran salto, e intendo proprio per continuare a fare il giullare e scavalcare quell’olio, sono i fotografi come Mark Cooper. Un caro amico, un caro ragazzo gentile e di cuore che lui non lo sa, di essere uno di quelli che io da sempre chiamo i grandi Boia dell’Arte: nel senso intendo che per ottenere la fotografia di un quadro non hanno bisogno della esistenza dell’olio, e nemmeno che esista e sia mai esistito, e che cominci a esistere dopo che è stato fotografato, così come era nell’istante preciso e non è poi più nel momento che segue.

Ebbene lo so che capirlo è difficile: farò l’esempio del pupazzo di neve, uno di quelli con la pipa in bocca e in testa un vecchio cilindro, fotografato in una calda giornata di sole: non dico il giorno dopo ma pure dopo un istante, la fotografia rifatta non è più come quella già fatta. E qui potrei sviluppare un lungo discorso che porto avanti da tanti anni e che si conclude… ma non voglio perdere quei quattro lettori che forse mi sono rimasti: vorrei solo dire che le fotografie diciamo astratte di Mark hanno per chi conosce la fotografia non per quanto si dice ma per quello che è, hanno – dicevo – un fascino incredibile specialmente per un vecchio fotografo che sotto il dito della mano destra – quello del clic – ha diecimila opere d’arte: che ogni tanto mi chiedo « dove saranno? Sono sempre rimaste appese a quello stesso chiodo, povere mummie di un morto spettacolo? » Oh! Quanto sono belle le opere prese dal grande fotografo chiamato Mark Cooper, perché credete, da chi se ne intende, ch’è bravo davvero: e le sue opere, per essere viste, non hanno bisogno di olio e di chiodi che furono, ma solo di quelli di adesso e ancora in questo io trovo un incanto sottile.

La fotografia dicono che abbia cambiato la vita: ma non significa niente se non si aggiunge che l’abbia cambiata nel senso di renderla spaventosamente più complicata per il linguaggio, la semantica, insomma la terminologia disponibile per trattare un argomento, nel caso attuale quello dell’arte. Vedete, se io fossi una persona seria, avrei scritto che Mark è un eccellente fotografo della land–photographie, nata dalla « Land–art o Earth Art nata negli Stati Uniti negli anni ’70 come esperienza creativa nell’ambito dell’arte concettuale, e la cui definizione venne utilizzata per la prima volta nel 1969, in California, da Gerry Schum, autore di un famoso video sull’argomento, in riferimento al lavoro di artisti come Richard Long, Barry Flanagan, Robert Smithson, Dennis Oppenheim, Walter De Maria, Christo, ecc. che agiscono direttamente sul paesaggio, modificandone l’aspetto mediante interventi temporanei o facendo uso di materiali naturali. L’azione prevede quindi l’obsolescenza delle opere, programmata dall’artista o affidata all’indomita vitalità degli agenti naturali, che rende il tempo, cioè il nemico principale dell’arte tradizionale, indissolubilmente connessa al concetto della sua persistenza, un protagonista positivo e previsto fin dall’inizio del linguaggio artistico. » 1 

Poi cosa credete, potevo anche infierire scrivendo ancora che « la fotografia del Cooper può essere vista pure come la palingenetica obliterazione di un antropomorfismo universale… » eccetera eccetera ma non l’ho fatto. E non solo perché ho molta simpatia per Mark, un giovane e bravo collega, ma perché per scrivere questi testi ci sono altri esperti molto più bravi di me e, per dirla come il mio caro vecchio nonno giudeo, quando con coscienza ecologica per evitare lo spreco di una risorsa fertilizzante non andava a farla al gabinetto ma lontano nei campi: « non voglio portare via il pane a nessuno. »

Ando Gilardi
Storico della fotografia,
fondatore della Fototeca Storica Nazionale.

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