Vita e missione del
Mons. Francesco Cagliero IMC
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10. Diari personali dei Missionari della Consolata
Archivio Istituto Missioni Consolata – Roma

Diario di
P. Francesco Cagliero
I fascicolo
Dal 1 gennaio 1905 al dicembre 1905
(pp. 1 – 130)

A cura dell’Ufficio storico dei Missionari della Consolata”
Pro manoscritto
Comunità “Casa Beato Giuseppe Allamano” - Alpignano

[Taccuini N. I – XII. Catalogo N. VII-41. 41-52]

[Taccuini N. I. Catalogo N. VII-41. 41. Formato cm. 11,5x14,5. pagine 1-96, segnate a matita altra mano, come gli “a capo”]

Estratto da:
Carteggio di un prestito per il Regno
Tanganyika 1919 - 1935
La storia della Prefettura di Iringa
con la storia del Prefetto Mons. Francesco Cagliero
Edizioni Missioni Consolata – Torino. 1978
Cortesemente comunicato da P. Livio Ferraroni IMC

Cagliero: Diario Natale Dicembre 1905

Incomincio dunque perché ti faccia un’idea meno oscura, prendo le mosse più al largo.

Sappi dunque che io mi trovo in mezzo di una grande foresta formata da due versanti di due montagne che, partenti dal Kinangop procedono parallele ed vanno a terminare una a Tusu alla Missione, e l’altra procedendo ancora va a spianarsi vicino a Moranga. Tra di loro scorre il Massioia, fiume abbastanza considerevole, ed all’epoca delle piogge ingrossa e diventa terribile; non può straripare essendo che la sua valle è stretta e priva di pianure. Nasce dal Kinangop. Ad un da Tusu verso ovest, infilando la valle del Massioia troveresti il nostro ampio laboratorio di falegnami, meccanici, coi magazzini attigui, e risalendo 5 minuti troveresti la casa: tutto questo sul versante destro del Massioia, chiamato dagli I Kikuiu rappresentano l’etnia principale del Kenia. Il prefisso A- indica una collettività di persone Akikuiu “Kasongori”.

I fratelli essendo tutti occupati da mattino a sera in laboratorio, chi a fendere in assi i travi, chi a lavorarli, facendo con essi mobili, debbo io occuparmi dei lavori della foresta. Questi sono molteplici: l’abbattimento degli alberi, lo strompamento dei medesimi in altrettanti Bioni piem. bion = tronchi appena sgrossati bioni secondo le misure richieste; il traino dei medesimi in laboratorio; a cui bisogna aggiungere lo spaccamento di quei bioni che essendo troppo grossi, sarebbero in trainabili.

Però noto che il primo fu compito or è un anno fa in men di un mese con una squadra di 18 uomini, che per un mese di seguito gettarono giù circa 1.800 alberi. Il secondo è stato già quasi tutto terminato. Restano ancora il terzo ed il quarto: ed ai quali diamo mano tuttora.

Per lo spaccamento dei bioni grossi, ho trovato due operai proprio indicati e pratici nell’arte. Uno si chiama Manghi di indole ottima, congiunta con giusto criterio; l’altro di nome Kago, pure onesto operaio. Appunto perché il lavoro riuscisse bene, mandai a prendere a Lemoru 4 cunei, che mi furon mandati. Per batterli feci fare una mazza di legno come si fa da noi, accerchiata da due cerchi di moglietta piem. mojëtta bandella metallica moglietta per evitare che si spacchi. Le prime volte, essi non volevano saperne trovandola insopportabile, ma poi, fatta la prova, la trovarono indicatissima. Dovetti già rinnovarla più volte: danno dei colpi così forti che risuonano per tutta la vallata.

Armati, l’uno dei cunei e della scure, l’altro della mazza e cibo (sacchetto di patate), sen vanno nella foresta a spaccar bioni che, comesi esprimono loro, sembrano elefanti. Ci son certi bioni che misurano un metro e mezzo di diametro; così intieri sono intrainabili; spaccati che siano, sono dalle squadre trainati in laboratorio.

Quanto al traino dei bioni è pregio pure dell’opera spendere qualche parola, perché il lettore si faccia un’idea meno inadeguata delle nostre faccende. Adunque: attualmente quattro sono le squadre che lavorano nella foresta intente ad ammucchiare bioni sparsi qua e là. Due di esse sono a giornata: le altre due a cottimo. Queste ultime due, secondo il patto, devono trascinare dalla foresta in laboratorio tanti mucchi di bioni quanti sono i lavoratori, notando che ogni mucchio deve constare di 16 bioni.

Quando il numero dei mucchi uguaglia il numero degli operai della squadre, allora ognuno prenderà 4 rupie. Cosicché a noi 4 bioni vengono a costare una rupia di trasporto. Spiegata così la cosa, portiamoci, o lettore, a visitare una di queste squadre nella foresta mentre sta lavorando.

Per esempio: rechiamoci a visitare la squadra di Mesò, cosiddetta dal suo mnyapara = capo di una squadra di operai mnyapara... traversiamo il ponte del Massaia, infiliamo il sentiero cosiddetto di Karangia, perché tracciato da lui circa 6 mesi fa, quando era lui capo della squadre. Il sentiero, che meglio si direbbe stradone, va salendo per diagonale sul versante della montagna, e di tanto in tanto incontriamo altri sentieri che quali rami di esso penetrano nella foresta: per essi gli operai estrassero quei bioni che ora occupano il magazzino del laboratorio. Esso ora sono abbandonati, essendosi estratti tutti i bioni. Noi però. Dobbiamo salire ancora: qui lo stradone prende una direzione perpendicolare al versante; epperciò la salita è forte, quasi a picco. Giù per questa china presero il volo tanti bioni, lanciati dagli operai, che si deliziano quando incontrano tali discese. Lo stradone ad un punto si fa più stretto, è anzi tortuoso; bisogna camminare tra albero e albero. Come va? La ragione è questa: quando arrivò il La missione italiana ebbe spesso difficoltà con l’amministrazione coloniale inglese. Le guardie forestali tentarono più volte di impedire il taglio degli alberi. forest-officer col suo divieto, gli operai erano arrivati a questo punto.

Proibiti di tagliare, come trainare i bioni? Si fa, come si dice, di necessità virtù: cioè si trascinano i bioni per mezzo di una liana, che serve benissimo di catena; si fa scaldare una estremità sul fuoco, si contorce ben bene, si lega il bione ad un’estremità, e così si tira da tutti, mentre alcuni, con grossi bastoni, fanno da leva e sollevano il bione quando incontra impedimenti.

Eccoci arrivati presso il luogo dove lavora la squadra. Padre, ne mohoro = stai bene? – Sì, rispondo, e voi? – noi pure. Padre là c’è un bione che è impossibile estrarlo, non vedi che pende su un precipizio? – Sta tranquillo, Mesò, che lo estrarremo. Moea, va subito a casa a prendere la catena di ferro, la fune e la puleggia.

Dopo circa un’ora di aspetto arriva Moea con l’occorrente. Subito leghiamo il bione: la squadra prende un capo della fune e si mette e tirare. Ma ecco che uno salta fuori e dice: Padre, preghiamo prima Iddio che ci aiuti. – Benissimo e tutti insieme portata la mano alla fronte si segniamo col segno della croce. Fatto questo, gli operai si mettono a tirare con lena: il trave si muove; ma poscia si ferma e non vuol più procedere.

Esamino la cosa, scendo abbasso dall’altra parte del bione pendente giù per la china e vi scorgo che il bione è trattenuto da un nodo grup: piemontesismo (grup); lo faccio subito tagliare da un operaio, mentre questi raccomanda ai compagnidi non lasciar rallentare la fune, trovandosi in posizione critica e pericolosa. Tagliato il ramo, ci togliamo da quel posto pericoloso e comando subito di tirare la fune. Ma ecco che alla catena che fermava la puleggia si snoda un anello; gli operai che erano in posizione di tirare cadono a terra, il bione rincula indietro di alcuni metri, ma non precipitò più in giù. Quello che è certo si è che se fossimo stati nel posto primiero ci avrebbe schiacciati: attribuiamo al segno della croce l’aver la catena tardato un momento a rompersi.

Ricongiunsi la catena, rilegai nuovamente il tronco (di 5 metri di lunghezza, e 30 cm. di diametro), si misero a tirare, e dopo vari sforzi, si riuscì a trarlo fuori sul sentiero. Finito questo ordino a due operai di piem. strompé = troncare stromparlo in mezzo essendo troppo lungo. – E quell’altro albero che sta diritto, appoggiato ad un altro? Come fare a gettarlo giù? Colla puleggia (ngari), rispondo io.

Legatolo al tronco ci mettiamo a tirare e l’albero poco per volta si stacca s’avvicina a noi e finalmente cade facendo un fracasso della malora. Un po’ di timore ci prende per paura che l’albero, cadendo, fracassi gli alberi diritti verdi, vigendo sempre il divieto del forest-officer, di cui tutti abbiamo paura. Ma per fortuna cadde senza fare del male agli altri alberi.

Si fa notte, conviene ritornare a casa per sbrigare le faccende casalinghe. Ma ecco che appena arrivati ci vengono incontro due giovani ed uno di loro mi porge la malloa. Donde venie? – Dal Karema, mi rispondono. – Leggo il biglietto: è di D. Giocosa che mi domanda assi di scarto. Benissimo. Quando volete partire? Adesso oppure domani? Ehe, (no, no) siamo stanchi del viaggio, partiremo domani. – Come volete. L’indomani li caricai di assi e partirono per il Karema.

Spedizione della casa di legno per Wambogo. Il Fr. Celeste già da parecchi giorni era venuto alla Sega per intendersi con Benedetto circa la conformazione dei singoli pezzi della casa e ritirarla ed accompagnare la carovana a Wambogo. La carovana constava di 150 uomini. La distribuzione dei pezzi procedette con ordine. Tutti furono messi in fila; entravano in laboratorio vuoti, da una porta, e uscivano per l’atra porta muniti del loro carico. A ciascuno che ritirava il carico si domandava il nome per registrarne il carico, e si faceva la debita raccomandazione perché lo portassero bene senza romperlo. A mezzogiorno del dì, tutto era finito. Rimasero ancora una sessantina di carichi, che vennero poi ritirati in seguito.

Il catechismo. Ogni giorno faccio il catechismo agli operai per mezz’ora, non più nella foresta, ma al mattino dalle 7 alle 7 e ½. Sono in generale sempre una quarantina di uditori: siccome fa freddo a quell’ora, si accoccolano tutti attorno ad un fuoco che qualcuno s’incarica sempre di accendere.

Come da noi v’ha sempre chi vuol parlare dei suoi affari privati con altri e bisogna sempre che intoni la solita antifona di aver pazienza e far silenzio. Procedo sempre avanti lezione per lezione ogni giorno. Un giorno spiegavo l’eccellenza dei 10 Comandamenti, la facilità di osservarli ecc. ed uno mi disse: son tutti facili, ottimi, tolto il sesso. Questo non mi va; negli akikuiu non è così: quando il marito di una donna è assente, ci va un altro a trovarla nella sua niumba. Io gli risposi: così va bene? Ti comperi coi tuoi sudori una donna ed una altro, ecc. sei contento? Saresti contento che uno vada a prenderti le patate nella tua mugunda? – No. – Ebbene di’ lo stesso a riguardo del sesto comandamento.

Altra volta, spiegando loro l’altra vita, il paradiso, si meravigliarono che lassù non vi sia più da soffrire: ed uno tra gli altri mi domandò se vi fossero montoni. – Posso constatare che il catechismo fa del bene, attecchisce, se non riguardo alla parte pratica, certo riguardo alla parte istruttiva. Senza accorgersi della verità della nostra religione, penetrano nella loro mente vergine e vi rimangono. Superstizioni. Molte sono le superstizioni che regnano su vasta scala tra gli Akikuiu. Il contatto continuo con loro me ne ha fatto conoscere molte, che cercherò di radunare qui sotto una sola rubrica. Porgendomene il destro il fatto capitatomi in questi giorni.

  1. Stando un giorno coccirando (deliberando) con una squadra di donne con a capo, un certo Adegua, senza avvedermene feci un giro attorno a loro. Stavo per andarmene via, quanto tutte mi corsero avanti, troncandomi il passo. – Che fatemi, cosa succede? Il capo mi spiegò la cosa: ti hai girato attorno a loro; ora, quando uno più vecchio come sei tu (giacché gli Akikuiu vedendomi con una lunga barba mi credono più vecchio di quel che sono) gira attorno ad un crocchio di donne come questo, è cosa riprovata. Se fosse uno più giovane di loro, non sarebbe niente, ma tu essendo più vecchio di loro, non va, ed è per questo che esse attraversando il tuo passo hanno cercato di disfare quello che tu hai fatto. Ma che dici? Io son vecchio? Eh ti sbagli. – Con tanto di barba, disse il munyapara, è impossibile che non sia vecchio. Mi misi a ridere e tutti loro insieme.

  2. Qui vi sono molte api e la foresta è piena di alveari sospesi sopra gli alberi. Indotto io pure dalla utilità di esse, ho pure io sospeso un alveare su d’un piccolo albero avanti alla casa. Ma che lo posi sopra uno di quegli alberi su cui gli Akikuiu non sogliono sospenderli. Il girono dopo uno mi dice: Padre, togli da quell’albero il moatto (alveare) altrimenti nessuno andrà a toglierti il miele? E perché? Ripresi io. – Eh gli Akikuiu si rifiutano, non lo fanno, è questo costume antico dei padri nostri. – Se non piace a voi, piace a me e se nessun akikuiu vorrà andare a togliermi il miele, andrò io stesso... la ragione, perché voglio che stia là, si è perché quell’albero è basso ed io potrò vedervi dentro, senza dovervi salire sopra. Voglio osservare come fanno le api a fare il miele.

  3. Un altro fatto capitatomi tempo fa, è questo: Una giovane sposa stava per partorire; abitava un villaggio vicino a noi: io stavo attento in caso di pericolo di morte del bambino, per battezzarlo. Ne diede alla luce due e tutti e due morti. Un nero incaricato da me di stare attento ed avvertirmi nel caso di pericolo, riferitomi l’aborto, mi diceva poi così: Tra gli akikuiu è oru (male) che una giovane sposa partorisca due bambini, la prima volta. Nascendo vivi si gettano nel bosco tutti e due.

  4. Un’altra superstizione scoperta tra gli akikuiu è questa: è tenuto come dannoso, nocivo pregiudiziale bucherellare, per es. con bastoni, l’aia; dicono che questo pregiudica tutta la famiglia ed il gregge.

    Il fatto che mi diede occasione di scoprire questa superstizione è questo: avevo dei bioni in prossimità del villaggio del mio amico Keciora. La strada diretta e più facile era farli attraversare la sua aia. Noti il lettore che i miei operai spingono i bioni facendoli rotolare per mezzo di grossi bastoni che fanno l’ufficio di leve. E facendo attraversare i sopraccennati bioni attraverso l’aia sua, necessariamente restava tutta bucherellata da questi bastoni. Incontrandomi con l’amico un giorno, gli disse: Keciora siediti meco qui che ho da coccirare (deliberare, discutere) con te di una cosa. Guarda, tu il sai, io ho dei bioni vicino al tuo villaggio, ora ho bisogno di trainarli, fammi questo piacere, permetti ai miei operai di traversare coi bioni la tua aia. – Padre, Padre, che mi dimandi! Mi rispose. Non posso, è male presso noi. Per poter fare questo, bisogna prima uccidere un montone. Dammi un montone, lo ucciderò, e poi tu fa pure quanto mi dimandi.

    Cercai di persuaderlo dell’assenza d’ogni male, ma inutile. Gli portai il mio esempio, dicendogli: Vedi che l’anno scorso io facevo rotolare i bioni attraverso la mia aia, chi di noi è stato avvelenato? (È di questo che temono, hanno paura che dentro questi buchi qualcuno di notte venga a versarvi l’oroghi (il veleno). – appunto per questo, soggiunse subito, che i tuoi buoi morivano. – Oh no, ripresi io, non è per questo, perché venivano già da Vango ammalati e poi a Niere pure morivano. Fu inutile e dovetti rassegnarmi a rispettare al sua opinione e far prendere altra via ai bioni.

  5. A proposito della malattia dei buoi, mi ricorderò sempre del seguente fatto. Avevo ammazzato un manzo rosso (moribondo). E siccome noi soli non potevano smaltirlo tutto, l’ho messo in vendita. Ma, cosa curiosa, nessuno voleva quella carne. Domandato al boy il perché, mi rispose: Gli akikuiu di Tusu non ne mangiano di questa. – E perché, soggiunsi io, perché? Non è forse carne come altra? – No, Padre, noi non mangiamo di questa carne, così c’insegnano i nostri vecchi, e così decretò tempo fu il mundu mogo: stregone mundu mogo.

    Avevo pure ammazzato in quel tempo un altro bue pure moribondo, ma di altro pelo: l’ho venduto tutto in tante giornate di lavoro: e siccome la carne di questo stava frammischiata con quella del (manzo) rosso, i compratori si raccomandavano al boy che gliela discernesse. E siccome certe volte era indiscernibile, la lasciavano, piuttosto che risicarsi di mangiare carne d’un bue gattune (rosso). D’allora in poi divenne celebre fra noi quella parola gattune e volendo scherzare con qualcheduno e dissuaderlo dal mangiare qualche cosa, siam soliti dire: Eh, tiga, ne gattune (lascia stare, è rosso). E giù una risata d’ambo le parti.

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25 dicembre 1905

Il giorno del santo Natale! Il mio secondo anniversario della partenza per le Missioni. Ad accrescere la solennità concorsero le Rev. Suore di Tusu col loro Superiore D. Barlassina. Io cantai la terza Messa alle 11, dopo aver celebrato quella di Mezzanotte e quella dell’aurora...

Alla sera vi fu il canto dei Vespri, la predica, la S. Benedizione. Ma Gesù Bambino non volle lasciarmi passare quel suo giorno senza procurarmi una gioia speciale. Voglio raccontartela, o lettore, sperando che sarai contento che ti metta a parte delle mie gioie intime, come sovente ti contristo con quelle meste.

Dunque la sera appunto di questo giorno dopo cena, e mi sentivo stanco dalle faccende del giorno: quasi volevo dispensarmi dall’andare nella singara ad insegnare le orazioni agli operai che in essa ritrovavano. Ma che? Scacciai quella tentazione pensando che non sarei stato un Missionario, rifiutandomi di lavorare, quando l’occasione si presenta, pensando che allora appunto si è Missionario, quando si lavora pur essendo stanco, presi la mia lanterna e mi recai nella singara.

Essendo il Natale di lunedì, anche gli operai fecero due giorni di festa ed erano arrivati appena alcune ore prima dalle loro case che distano parecchie ore, per procurarsi il cibo durante la settimana: Come state? Domandai loro – Benissimo, mi risposero, eccetto il temporalone, l’acquazzone che ci siamo presi in dosso. Difatti si mise a piovere a dirotto per diverse ore. Entrammo nei soliti discorsi, parlando cioè del vento e della pioggia, come si dice. Ad un punto, così menando il discorso. Domando a uno di nome Muanghi, bravo giovane: Dimmi proprio la verità. Senti: che cosa dicono gli Akikuiu del Padre? Chi credono chi sia? Lo distinguono dal Gettari (governatore), dal forest-officer, ecc.? Dimmi proprio la cosa come sta. In qualunque modo mi dica non m’importa, dimmi solo la verità.

Egli mi rispose: Padre, ti posso assicurare che gli Akikuiu conoscono ora chi è il Padre, non lo confondono col Gettari, né col forest-officer, sanno il perché è venuto tra noi, sanno che è venuto per insegnare loro la parola di Dio. A proposito senti cosa ho fatto ieri: “Stavo seduto nel cortile col mio vecchio padre, discorrendo. Io gli domandai: Babbo, sai di dove vengono gli uomini tutti? – Io non so, rispose mio padre, io non saprei. Lo sai tu? – Sì. gli risposi, me l’ha insegnato il Padre. Tutti gli uomini, bianchi e neri, vengono da due soli, uno chiamato Adamo e l’altro Eva. – Ma come! È così? – Sì è così. E sai come li ha creati? Ha preso del fango, poi gli soffiò in bocca e diventò vivo: fu chiamato Adamo. Eva poi fu formata con una costa tolta da fianco di Adamo, mentre dormiva. Quel soffio, poi, è l’anima che sta dentro di noi, che pensa, che ricorda, che desidera.

E poi continuai: E sai, babbo, dove vanno a finire gli uomini? – Eh muoiono, Presso i Kikuiu era considerato di cattivo augurio che una persona morisse in casa; i moribondi venivano portati nel bosco. Quando una persona moriva in casa, la casa doveva essere bruciata. vengono portati nel bosco, la iena di notte ne divora il cadavere. – No, non è così: l’uomo quando muore, è solo il corpo che muore, ma vi resta l’anima che non muore, né può morire. E sai dove va? Va in Paradiso con dio, se è stato buono quaggiù; se invece è stato cattivo, va a bruciare per sempre nel fuoco col diavolo.

Stavo così discorrendo, quando altri molti, e uomini e donne, udendo parlare di cose inaudite, s’unirono ad ascoltarmi. - È il Padre a logoro (della sega) che t’insegna tali cose? – Sì, è egli. Ah! Peccato che è troppo lontano, altrimenti andremmo anche noi ad udirlo. – Io gli dissi: Tutti i giorni per mezz’ora la mattino ci fa il catechismo e poi ci manda al lavoro: alla sera, dopo cena, viene a trovarci nella nostra singara e c’insegna a pregare Dio”. Fin qui il giovane Manghi. Altri operai mi soggiunsero che fecero lo stesso nei loro villaggi.

T’assicuro, o lettor mio, che godetti in quel momento una gioia ineffabile, e credetti ricompensate ad usura tutta le fatiche e prove della mia vita passata. Sono apostoli questi in erba sì, ma che servono a meraviglia a prepararci il terreno. Deo Gratias.

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1 gennaio 1906

Molti sono i neri che lavorano alla Sega: sono divisi in 6 squadre e ciascuna ha il suo capo, chiamato mnyapara, pure responsabile degli strumento e del lavoro.

Ogni mattina alle 7 in punto esco in cortile e lì trovo le squadre degli operai accoccolati al loro fuoco: e faccio loro recitare le orazioni, e poscia insegno loro un po’ di catechismo. Come da noi, vi sono sempre coloro che arrivano in ritardo, e sapendo che tal cosa mi dispiace si presentano alle buone, vengono a toccarmi la mano, mi domandato, se sto bene ecc. poi si accoccolano. Oggi la lezione versa sulla necessità della fede e rivelazione.

V’ha sempre chi vuol parlare col suo vicino e non bastano le più gravi minacce, perché sanno che nel castigare il Padre va adagio ed è mite. – Finita la lezione, faccio l’appello dei presenti ed assento, poi li spedisco al lavoro. È questo l’ordine di tutti i giorni.

Poscia discendo in laboratorio e consegno parecchi carichi ad una carovana di 8 uomini a Wambogo. Ma si rinnovò la solita storia che avviene ogniqualvolta che bisogna caricare una carovana. I carichi erano questi: una parete intera per casa a Wambogo, una scala esterna d’entrata. I fianchi di detta scala erano, a dir vero, malagevoli, non però pesanti, e nessuno voleva caricarli.

Facevan parte della carovana alcune donne, ma su di loro non c’era da far conto, imperocché, oltre a non esser carico per loro, molto più difficile è indurle a caricarsi. M’appigliai pertanto agli uomini e consegnai a due di loro i due fianchi della scala. Questi non volevano saperne e tirarono fuori quanto escogitava il loro genio per scusarsi. Ammaestrato già dall’esperienza di tali casi, tagliai corto e dissi loro: Guardate, il vostro carico è lì pronto, io faccio la malloa, volete caricarlo, bene; non volete, lasciatelo; degli omini ne ho molti; manderò per mezzo d’altri. Consegnai la malloa al capo che aveva il suo carico e m’allontanai.

Dopo pranzo scesi i laboratorio a far il catechismo ad una quadra di donne e figlie che stanno lavorando per coprire le tettoie d’isange. Non per dire, ma le donne son più ciarliere degli uomini, anche tra gli Akikuiu. Dimostrai loro, tra le altre cose, che il catechismo (kerera) è una cosa assai più preziosa che la pezza (soldo). Che cosa vale che uno abbia la saccoccia piena di pezze, se poi morendo va a casa del diavolo? – Porterà con sé le pezze? – Oh no, mi risposero. – Invece chi sa il catechismo, non va a casa del diavolo, ma con Dio; chi sa la kerera, morendo se la porterà con sé e gi servirà come chiave per aprire la porta del Cielo.

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