P. Reginaldo Giuliani

Gli Arditi

/230/

Terzo reparto d’assalto di marcia.

I più giovani.

In quel punto dove la strada che da Padova porta a Venezia si divide nel bivio Mestre-Fusina, sorge un’antica e celebre villa: La Malcontenta. L’edificio quadrangolare appare da lungi, sulle casupole del borgo sparso e sui filari di gelso, elevando al cielo il suo nobile colonnato. Sul classico frontone una lapide corrosa e nera dice che la villa fu edificata dai Foscari, allo scopo di offrire un ristoro a non so quale re che tornava da Venezia.

Nell’ultimo anno di guerra, il palazzo eretto dalla prodigiosa munificenza degli antichi dogi per ospitare un re, divenne il quartiere degli arditi della Terza Armata.

Da qualche tempo il Comando Supremo dell’Esercito aveva stabilito che si costituissero reparti d’assalto marcianti, per /281/ fornire i complementi agli altri battaglioni; la nostra Armata volle collocare la sede del nuovo reparto alla Malcontenta. Il colonnello Pavone ebbe l’incarico di dirigere i preparativi.

Alla fine del marzo giunsero i primi scaglioni di reclute da Reggio Emilia, dal deposito generale dei battaglioni di marcia. V’erano molti giovani di recente convertiti alla poesia delle fiamme nere e parecchi arditi anziani che non avevano ancora rifatto nella vena il sangue versato per la Patria, eppure pativano la nostalgia del combattimento. Sotto l’abile direzione del colonnello, coadiuvato da bravi ufficiali, quei cuori giovani e generosi si aprivano alle più belle espansioni e alle più calde speranze.

Vennero costituite le tre compagnie, due delle quali vestirono le fiamme nere e la terza le fiamme rosse, perchè ciascuna doveva rifornire i rispettivi battaglioni dell’armata. Gli accantonamenti furono stabiliti nel castello e nella villa Saibanti.

Un vasto recinto presso la laguna, costruito ad uso di polveriera, venne trasformato in campo di esercitazioni dove le truppe potevano liberamente manovrare con tutte le armi.

/232/ Coll’affluire dei complementi il piccolo borgo parve trasformato in una vivace cittadina: la piccola città degli arditi. Nei dolci tramonti primaverili le strade fiancheggiate dai quieti canali si animavano delle brigate che andavano scherzando e affidavano alla brezza marina liete canzoni.

Il centro di tutto quel movimento era la villa, specialmente dopo che nel piano terreno venne organizzata la Casa dell’Ardito, sotto la direzione degli americani dell’Associazione I. M. C. A più esattamente Young Men’s Christian Association (YMCA), associazione di volontariato dedita, come recita il motto “body, mind, and spirit”, all’educazione fisica e morale della gioventù. Nella I G.M. si distinse nell’assistenza sia ai combattenti, sia ai prigionieri di guerra I. M. C. A., che la arredarono con la loro tradizionale generosità. Il salone centrale fu destinato alla lettura e scrittura: ogni sera lo gremivano i soldati che ricevevano carta da lettere e cartoline per scrivere alla mamma, alla fidanzata.... Era assai bello vedere quei gruppetti che circondavano un segretario improvvisato il quale stendeva per turno le lettere che i compagni gli dettavano, traducendo in italiano non sempre classico il dialetto dei compaesani. V’era pure la sala di giuoco, la scuola per analfabeti e una saletta di convegno per gli ufficiali. Di fuori, aiuole di fiori, e poi la palestra e un grande campo sportivo.

Ricordo con riconoscenza il signor Kraig, /233/ giornalista americano, che diresse la Casa e s’innamorò a tal segno dei nostri soldati che volle portare il distintivo degli arditi.

La Malcontenta riceveva continuamente le reclute che, provate e allenate nei vari esercizi di ginnastica e di combattimento passavano poi alle varie destinazioni.

Talvolta, alla vigilia delle azioni, partivano le squadre, che per l’occasione erano le più numerose e le più festanti; spesso raggiunsero il reparto di destinazione sul campo proprio nel momento in cui si doveva balzare all’assalto: i nuovi arrivati si mescolavano coi vecchi, come se fossero amici di lunga data, gareggiavano nobilmente in bravura.

Durante l’offensiva austriaca del giugno, il battaglione intero fu portato al Montello, presso il bivio di San Mauro e Sovilla: erano gli ultimi giorni dell’offensiva, ma gli attacchi nemici si rinnovavano senza posa: le reclute resistettero collo stesso valore delle vecchie schiere. Il bravo capitano Degeronimi, antico e degno aiutante del colonnello Pavone, fu gravemente ferito: il capitano Roberto Cellai perdette la giovane vita. I superstiti tornarono cantando:

/234/

Il nostro battaglione ha vinto sul Montello,
perchè c’era con noi il nostro colonnello.

Nell’azione del basso Piave, gli arditi della Malcontenta, sotto la guida del capitano Mario Bragatto, si unirono agli altri battaglioni dell’Armata per conquistare alla Patria quel lembo di terra che sta tra due foci del fiume.

Anche il battaglione di marcia s’era adunque formato degne tradizioni, pur non contando tutti i valorosi che aveva ceduto agli altri reparti.

Alla fine di agosto aveva dovuto dividere la truppa nei diversi battaglioni: così la Malcontenta riprese il secolare silenzio.

Però non passarono molti giorni che si ridestò al vivace clamore d’una invasione di gioventù: erano le reclute del millenovecento, i primi ragazzi di diciotto anni che giungevano al fronte portandovi la gioia chiassosa dei fanciulli nei giorni di festa.

L’aria echeggiava dei loro canti tutto il giorno dalla sveglia fino al melodico squillo del silenzio. Una squadra, istruita dal tenente Bonarelli, faceva l’adunata e si scioglieva con un coro.

Era per me un graditissimo sollievo in- /235/ trattenermi con questi giovani docili ed aperti e godere la familiarità e l’intimità di queste anime fresche. Passai una giornata intera con una compagnia che era stata isolata per misure igieniche in quarantena sulla laguna. Il capitano Giovanni Frattaroli aveva preparato giochi, gare sportive, esercizi curiosi, ed io portai i premi. I giovani arditi facevano prodigi di agilità, e intercalavano gli esercizi con canti, e fischi e arguzie ingenue.

La Malcontenta divenne anche un campo d’istruzione per tutti gli arditi dell’Armata, nei turni di riposo. Il colonnello Pavone aveva preparato un gran piano d’istruzione da eseguirsi nel poligono: vi concorreva una batteria di medio calibro che sparava sopra l’obbiettivo, al quale gli arditi si avvicinavano gradatamente, sotto la parabola dei proiettili, toccando il segno appena v’era scoppiato l’ultimo colpo. I diversi reparti eseguirono parecchie tattiche su questo tema, imparando a superare praticamente non lievi difficoltà di combattimento.

Negli ultimi giorni del settembre si raccolsero là contemporaneamente tutti i nostri battaglioni, per celebrare la festa degli arditi, alla quale si volle dare la massima /236/ solennità. Furono fatti larghi inviti: Gabriele d’Annunzio scusò la sua assenza con la lettera seguente:

Mio Colonnello,

Un giorno della primavera scorsa io fui molto fiero d’esser consacrato ardito, a Capo Sile, da un giovane capitano che mi donò il suo pugnale non ancora ben netto di sangue austriaco.

Quel pugnale porto alla cintura in tutti i miei voli di guerra, come un talismano potente e come il miglior compagno del mio cuore. Lo portai nel cielo di Vienna; lo portai l’altro giorno nel cielo di Pola. Lo porterò domani partendo per le linee francesi col mio velivolo del 9 agosto. E, come ardito, in onore dei miei compagni arditi, mi propongo di tralasciare il consueto Cenisio ferroviario e di superare il Monte Bianco.

Il 23 porterò agli arditi della fronte occidentale il saluto dei fratelli adunati alla Malcontenta per la festa dell’Ardire, che è italianissima festa. Soltanto così potrò alleviare il mio rammarico.

Ma verrò, quando sarò tornato. E passeremo una sera a cantare i nostri canti; /237/ e forse allora sarà prossima l’attuazione di un disegno che apre all’impeto degli arditi le vie del cielo.

Intanto la mia parola di oggi è questa:

Dio ci guardi dalla gente ignobile.

Dio ci guardi dalla pace germanica.

Dio ci accresca le forze per imporre la pace latina.

Io credo che il pugnale degli «arditi» abbia ancora molta sete.

E me ne rallegro.

Viva la guerra.

21 settembre 1918.

Il suo devoto e grato
Gabriele d’Annunzio.

La fiera parola dell’ardito del cielo ci commosse profondamente.

La Malcontenta non aveva mai più visto tanta affluenza, dal giorno del famoso banchetto offerto al re dal doge veneziano.

Sin dalle primissime ore del mattino arrivano numerosi autocarri, che portano tutti gli arditi dell’Armata. Colle fiamme nere e rosse sono le compagnie d’assalto dei diversi reggimenti e le rappresentanze di tutti i corpi. Giungono poi vetture con ufficiali di alto grado e con un bel numero di signori milanesi. Il ponte della Malcon- /238/ tenta è imbandierato: la strada che mette al poligono è ornata di archi e di iscrizioni. Sull’immenso campo stanno schierati i battaglioni: di fronte v’è la folla di spettatori. Quando il gagliardetto ducale s’innalza, e un vibrato ordine del colonnello Pavone annunzia l’arrivo di S. A. R. Emanuele Filiberto di Savoia, comandante della Terza Armata, cento lingue di fuoco dagli apparecchi lanciafiamme s’avventano fumigando al cielo. Il Duca passa in rassegna le truppe e sale quindi il palco per assistere all’azione. I corpi di rappresentanza intanto si stendono alle ali e lasciano libero il campo, sullo sfondo del quale si scoprono le trincee con i ricoveri e i reticolati. Il ventottesimo battaglione si prepara a sferrare l’assalto: le compagnie d’attacco sono al loro posto, sostenute alle spalle dalle ferrigne macchine autoblindate. Il fuoco comincia: i difensori rispondono prima tenuemente e poi, coll’approssimarsi della prima ondata d’assalto, accrescono il furore. Gli assalitori balzano, lanciano nugoli di petardi che scoppiano con fragore lacerante: si aprono la via fra i reticolati, saltano e piombano sul finto nemico che fugge o s’arrende.... passano poi i lanciafiamme a /239/ lambire col terribile fuoco le trincee ed i ricoveri. Vi fu qualche ferito e, purtroppo, non finto....

Il Duca pronunciò una di quelle magistrali e forti allocuzioni che formavano la corona di tutte le solenni cerimonie della Terza Armata. Furono distribuite parecchie ricompense, e a tutti gli arditi del Piave venne offerta in dono una medaglia espressamente coniata, per desiderio e consiglio dell’on. Gasparotto, da un comitato milanese. Nel pomeriggio si eseguirono gare e si assistè ad una rappresentazione del teatro d’Armata.

Fu quello l’ultimo convegno dei nostri reparti. Un mese dopo i battaglioni effettivi attraversavano il Piave e travolgevano le prime linee austriache nell’impeto iniziale della vittoria che doveva portarci al compimento delle aspirazioni nazionali.

Il reparto di marcia inviò i complementi sul campo nei giorni stessi dei combattimenti: ma non ebbe parte diretta alla lotta che vibrò il colpo fatale sul nemico. Prese la via della vittoria quando già gli altri battaglioni erano sul Tagliamento, e giunse a Trieste nella seconda metà del novembre: quivi fu trattenuto a prestare servizio di vigilanza nel Punto Franco. Comandava /240/ il battaglione il copitano Genduso, giovane e bravo palermitano.

L’animo dei nostri giovani, tra la esultanza meravigliosa della città liberata, ebbe dei fremiti: per le vie gloriose di tricolori svolazzanti, in mezzo alla popolazione acclamante, colle altre nobili divise dell’esercito, passarono le fiamme nere e rosse tra le unanimi simpatie.

Ma come un fulmine a ciel sereno, ai primi di gennaio del millenovecentodiciannove giunse l’ordine di scioglimento, secondo il quale ufficiali e soldati del reparto dovevano passare agli altri battaglioni dell’armata. Era il primo passo verso lo scioglimento totale dei nostri reparti.

L’esistenza del battaglione marciante fu breve, ma bella come una primavera in fiore. I giovani trapiantati in questo giardino, non subirono che per qualche momento le tempeste dei combattimenti: più fortunati dei loro coetanei, i fanciulli del novecento che godettero la generosità del volontario di guerra, che videro la nostra fronte dolorosa senza patire morte o ferite, avranno l’orgoglio di narrare un giorno ai loro figli di aver preso parte al conflitto mondiale. E già portano oggi, lieti borghesi, nella vita civile, i frutti spirituali /241/ maturati nel giovane cuore al sole della guerra: forse si sentono più uomini ed anche più italiani. La forza di coesione che affratellò nel sangue tutti i cuori delle fiamme nere, a dispetto delle differenze sociali, politiche, regionali, continuerà ad avvincere gli animi nella pace forte che brilla sul cielo d’Italia.