/200/

23.
Una funzione, un convito
e piano per liberare un monaco.

arrivo dei bedovini.
compra di pecore.
Arrivarono verso sera i bedoini con delle capre e qualche formagetto da vendere; i monaci sono subito venuti a chiamarmi, ed ho veduto che erano tre persone: ho fatto domandare da Cherubino se venivano da lontano, e mi dissero che partirono a mezza notte; ho fatto domandare il prezzo e volevano dieci piastre l’una, voleva dire adunque che per uno scudo ve ne davano tre. Cherubino discese, le vidde e mi disse che erano buone, allora ho proposto mezza ghinea inglese per tutto quello che avevano, anche il poco formagio: fecero qualche difficoltà e poi acconsentirono, e furono introdotte. (2a)

ragioni di tale liberalità. Con queste liberalità io intendeva di tenere di buon’umore tutti quei monaci miei nemici mortali, quando mi avessero conosciuto, nemici, non per battersi, perché sono vili, piuttosto scaltri per amazzarvi con altri mezzi. Quindi anche perché aveva bisogno di deviare le loro attenzioni per l’affare del povero Cherubino, col quale stavamo discorrendo sul modo di salvarlo; compassione per i monaci.
loro regali a me.
tanto più poi [p. 322] che tutti quei poveri figli di Dioscoro avevano tutte le passioni materiali senza nessun idea affatto di timor di Dio, anzi quasi tutti i più giovani erano là come in un’ergastolo, dopo aver preso tutte le abitudini mussulmane di Cairo senza nessun compenso dalla parte dello spirito. Erano poi gelosi di Cherubino, ed inclinati a credere che vi fosse[ro] fra di noi le stesse passioni materiali che avevano essi, cosa che mi obligava a dare piu segnali di amicizia agli altri, e di guardarmi bene di trovarmi solo con lui, come egli stesso mi consigliava sempre. Queste stesse mie liberalità poi mi frutta- /201/ vano molti regali, segnatamente di uva, e dei pani ostie che ricevevano la Domenica dopo la messa, quasi cose uniche che avevano, se pure non vogliamo contare qualche produzione del loro giardino, come radici e cipolle.

messa sentita la Domenica.
come [è] celebrata dai copti.
Il terzo giorno dal mio arrivo era un giorno di Domenica, in cui vi fu la Messa pura e secca, senza communioni; un poco di canto copto che io già aveva conosciuto in Cairo, col suono dei campanelli e del triangolo, unici loro istromenti di musica. Tutti assistevano in piedi col bastone, quasi come gli Ebbrei. Io che aveva stanza nella Cripta, sulla porta accompagnava quella funzione analizzando il termometro dello spirito, e Cherubino mi dava qualche spiegazione: Cherubino avrebbe desiderato molto di fare la comunione da me, ma io neanche poteva celebrare per mancanza del necessario, sentiva quella Messa, ma nel mio cuore assisteva alla Messa cattolica, cosa che aveva esortato di fare a Cherubino. Bisogna poi dire [p. 323] che quella Messa, ripetuta ancora in seguito due altri giorni è stata l’unico atto religioso veduto colà, neanche ho avuto la consolazione di vedere un segnale di religione mattina e sera. Dopo la Messa gettarono tutti per terra i loro bastoni, ricevettero le loro pagnotte e sortirono a fare il loro mercato delle medesime sulla porta della Chiesa; io ne comprai alcune, ed alcune me le regalarono in modo che ne ho radunato una trentina, il peso è di circa quattro oncie ciascheduno, ed io ne faceva il mio nutrimento quasi unico.

mia assistenza al loro refettorio mentre mangiavano. In seguito poi io ho voluto vedere qualche volta i monaci quando mangiavano in refettorio, dove servivano i giovani monaci; le stoviglie erano molto semplici, una specie di scodella per ciascheduno, una bottiglia d’aqua con un bicchiere di terra, un coltello ed un cucchiaio formavano tutto il corredo, una pagnotta di una libra, ogni dieci una specie di marmitta piena di minestra, ed un bel pezzo di carne di pecora, ma non sempre, da quanto mi dissero; nel mercordì e venerdì in luogo della carne [si serviva] un piatto di lenticchie, o di fave. Ogni decina di monaci ve ne era uno che distribuiva. Non vi fu ne lettura, ne preghiera ne prima ne dopo; solamente il segno della croce, non con tutta la mano come noi, ma coll’unico pollice alla fronte [,] alla bocca, ed al petto. La tavola era una tavola sola lunga della lunghezza quasi del refettorio, ed i monaci [stavano] seduti dalle due parti; la tavola era di alabastro ordinario e mal lavorato. Quando hanno terminato tutti si levarono, eccettuati i capi decina. Mangiando discorrevano, ridevano, ed anche questionavano fra loro, come sarebbe in una taverna.

sala della conversazione;
loro divertimenti.
[p. 324] Sortiti dal refettorio andammo alla sala di conversazione, dove si trova un divano tutto all’intorno; in mezzo avvi un seggiolone, dove /202/ nessuno si s[i]ede che il solo abbate, a destra ed a sinistra il divano era un poco più distinto, e vi sedevano i vecchj, dove mi hanno fatto sedere, i più giovani portarono la pippa ed il fuoco; la pippa era di quelle orientali colla canna lunga un mento; alcune particolari avevano il bocchino di falsa ambra.

Per ringraziarmi delle mie liberalità hanno fatto qualche divertimento: hanno disteso delle stuoie per terra [e] fecero delle comedie che io non capiva molto, ma giudicando dai gesti non dovevano essere tanto morali, e la cosa arrivò ad un certo punto che io era tentato di sortire. Ciò che mi faceva più colpo era di vedere che anche i più vecchi ridevano con molta passione; erano finzioni di amori e di atti, ma invitavano alla realtà. Sopra la barca aveva già veduto cose simili frà i marinari, ma quelli non essendo monaci non mi stupivano, ben conoscendo i mussulmani molto inclinati a simili comedie impudiche; sulla barca io mi [poteva] ritirar[mi] in stanza, cosa che politamenre non poteva fare coi figli di S.t Antonio, figli di nome, ben inteso.

un pranzo in campagna con loro nel giardino;
in seguito divertimenti.
Ho lasciato trasparire che avrei bramato di pranzare coi monaci, ma avrei bramato che fosse stato [apparecchiato] il pranzo nel giardino, come un pranzo di campagna; allora fissarono il Giovedì seguente. I giovani piantarono alcuni pali, e con delle canne fecero una specie di capannone coperto con foglie di palme, e distesero delle stuoie per terra, dimodoché riuscì sufficiente per tutti. Quel luogo era molto migliore del refettorio, [p. 325] dove per mancanza di proprieta regnava un fetore tale, che una persona non abituata non poteva resistere. Per compimento del pranzo ho ordinato dell’aquavite (annisetto egiziano che si trova a bon mercato). Per quel giorno fecero arrostire un capretto nel forno tutto intiero, e lo portarono in processione con grande solennità sino alla capanna. Pranzammo tutti seduti per terra. A me diedero piatti e posata europea, ma gli altri mangiarono tutti all’araba colle mani. Dopo il pranzo vi fu la pippa, e poi la comedia, come sopra, forze ancora più libera.

ultime combinazioni con Cherubino;
lettere scritte per lui in Egitto;
mezzi dati per la fuga.
Dopo aver passato otto giorni con quei monaci, ed aver dato tanti segni di benevolenza, andava aquistando maggior libertà col mio Cherubino, di modo ché ho potuto passare qualche ora con lui, non però di notte, perché sarebbe stato sempre sospetto in quel luogo, ma di giorno in qualche luogo visibile, o tutto al più la sera, accompagnandomi in certi luoghi appartati, supponendo certi bisogni. Abbiamo potuto parlare dell’affare nostro, ed egli ha potuto terminare la sua confessione. Ad ogni evento ho preparato lettere per il Cairo a Monsignore Teodoro Abucarim, a Monsignore Delegato, ed anche a M.r Lemoyne Console /203/ Generale di Francia, per assicurare che nulla arrivasse a questo povero giovane al suo arrivo in Cairo, quando Iddio l’avesse protetto.

Finito tutto questo io sarei partito volontieri, ma la carovana per il Nilo era già partita, e si doveva aspettare la partenza di una seconda carovana, la quale tardò altri quattro o cinque giorni.

quanti e quali monaci si trovano in s. Antonio. [p. 326] Il monastero contava più di 50. persone; di questi dieci o al più dodeci sono monaci veri nel loro senso, perché, da quanto ho potuto vedere non hanno voti solenni e conosciuti. Altri dodeci sono vestiti da monaci, ma sono pagati per i gran servizii, e sono quelli che ubbidiscono all’Abbate, e servono anche come esecutori della giustizia per l’occasione di dare la bastonata a qualcuno. Un’altra quindicina sono giovani messi in punizione come in ergastolo più o meno guardati secondo le circostanze. Il restante sono aspiranti. Da quanto ho potuto vedere, nella condotta morale sono poco presso tutti eguali, perché il capitale di spirito manca affatto, epperciò le passioni sono più forti di quello che siano nella stessa città del Cairo, dove si trova tutto ciò che si desidera per sfogarle. Tolta qualche anomalia, la religione non è più che una professione esterna, questione per lo più di casta o razza, chiamata con altro nome nazione; in questo senso si devono calcolare tutti gli eretici levantini chi più chi meno.

il monastero manca di aspiranti;
per qual ragione;
i contadini come sono?
Il povero monastero di S.t Antonio stenta [a] trovare proseliti, ed [per] i pochissimi non è che un semplice calcolo temporale che gli guida. Io avrei ringraziato il Signore di trovarvi dei cristiani, con veri costumi cristiani nelle cose essenziali, ma hoc opus hic labor e forze non si trovano; più facilmente si trovano nella classe dei contadini, la quale è la più conservata, come arriva anche in Abissinia. Ma sgraziatamente questa classe si trova sotto la pressione della classe sacerdotale [di coloro] qui custodiunt civitatem, e la povera sposa dei cantici sarebbe imbarazzata molto dai medesimi. oh quanto io desiderava di poter parlare, eppure doveva usate prudenza, il mio Cherubino vive ancora;
quanto riconoscente.
ed il mio Cherubino, oggi prete [p. 327] cattolico in Cairo può fare testimonianza; egli si chiama abba botros (Padre Pietro) ed il suo Vescovo oggi si trova qui in Roma che lo conosce. Qualche volta che mi ha trovato in Cairo nel mio passaggio si getta ai miei piedi, come al suo Mentore: sia questi una testimonianza di quanto scrivo oggi in Roma esiliato nell’anno 1881.

Prima di riferire la partenza debbo riferire ancora una cosa che servirà per conoscere lo stato di questo monastero di S.t Antonio.

un monaco ammalato mi tribolava per medicine. Un giorno uno di questi monaci più vecchi mi domandò se io era medico, ed io gli ho risposto che sapeva bene un poco la medicina, ma che /204/ non avendo portato con me nessun medicamento io non poteva occuparmi di questo. Allora egli incomminciò una leggenda che non finiva più. In breve disse che aveva una malattia molto cattiva che lo rendeva odioso a tutti; ma cosa posso fare io? [domandai;] per l’amor di Dio! io sono un’uomo perduto, e ciò dicendo si gettò ai miei piedi, gli stringeva, gli baciava, dicendo[:] sono uno che non sono ne uomo, ne donna, abbiate pietà di me; voleva farmi vedere il suo male, ed io non voleva; per cavarmelo [di torno] gli ho promesso che arrivato al Nilo gli avrei mandato una medicina. Il più che mi faceva venire la stizza era di vedere questo individuo, non pentito per il suo peccato, o per l’incommodo della malattia, ma perché non era più ne uomo ne donna, perché nessuno lo cercava più; questo povero monaco mi fece passare quattro e più giorni di purgatorio, cogliendo tutti i momenti che poteva avere, [p. 328] per supplicarmi di questo anche in facia a tutti, non vergognando[si] anche di fare vedere le sue nudità schifose; tanto sono caduti [in basso] così detti figli di S.t Antonio.

arriva il giorno della partenza;
difficoltà per Cherubino;
il monaco della medicina ci ajuta.
Finalmente arrivò il giorno della partenza; ma vi erano ancora grandi difficoltà [d]a spianare rapporto al trafugo del povero Cherubino, il quale per una parte era nei numero dei giovani sorvegliati, perché mandati in castigo, da un’altra parte essendo un giovane educato nel cattolicismo da Propaganda si era tirato l’affezione di tutti. La mia venuta al monastero, ed i regali fatti tutti per mano sua l’avevano posto in una situazione da lasciar sperare, che domandandolo me lo avrebbero dato per compagno sino al Nilo. Ho preso il partito di parlarne a quel monaco a cui aveva promesso la medicina dicendogli che venendo egli avrei potuto mandargli tutta la regola da tenere per la medicina; io però non ho osato parlarne, temendo di ingerire sospetto.

Essendo venuto nella notte a trovarmi, gli ho dato qualche somma di denaro colle lettere che aveva preparate, ad ogni evento che non avesse potuto partire con me; egli poi che più di me desiderava di venire passò d’accordo col monaco della medicina, il quale seppe [così] ben perorare, che la cosa fù conchiusa per l’affermativa.

generosità dei monaci nella mia partenza. I monaci che molto mi amavano raccolsero tutte le pagnotte delle due Messe posteriori state celebrate, e me le presentarono, ed io in facia a tutti ho dato un napoleone al superiore pregandolo di comprare carne per tutti quei bravi monaci, oppure aquavite, come più avrebbero amato. Allora il superiore [p. 329] mandò a raccogliere tutta l’uva che vi era ancora, [e] me l’aggiustarono in un cestino per il viaggio.

partenza con Cherubino;
accompagnamento;
nostra separazione.
In questa favorevole condizione io sono partito lasciando quei monaci nella più grande afflizione, dai quali ci siamo separati colle lagrime; il /205/ monaco della medicina, ora stringeva i piedi a me, ora a Cherubino sperando nel suo ritorno. Sono disceso, e discesero una metà dei monaci per accompagnarmi; fecero più di un miglio, e mi volle tutto per fargli ritornare; nel separarci disse quel monaco stesso che mi accompagnò venendo, queste genuine parole = questo signore non è un uomo, non è una donna, ma è un’angelo venuto dal cielo, a metter la pace in questo monastero = e sono queste le ultime parole sentite da quella povera gente.

quei luoghi fatti per santi, ma veri ergastoli per chi non ha spirito di Dio. Veramente bisogna confessare che quel luogo, e così credo quella di S. Paolo, sono luoghi fatti per santi forniti di un gran capitale di virtù e di grazie, senza di che sono veri ergastoli per tutti, anche per le persone più attempate; bastava a convincermi quello che ho veduto e sentito, dopo mille violenze per non vedere, e per non sentire il resto che formerebbe il più bello della storia.

fummo liberi di parlare col mio Cherubino;
ultimi consigli per la sua evasione.
Dopo che ritornarono gli altri restammo soli coi tre camelieri, i quali non sapevano l’italiano, epperciò liberissimi di parlare dei nostri affari col mio Cherubino. Il viaggio fu una vera delizia, due giorni e due notti ci [ap]parvero due ore. L’unico nostro discorso era quello di conferire sul modo di compire la sua evasione, e sulle cautele [p. 330] da usarsi per non guastare l’affare che mi costò tanto. Egli avrebbe desiderato di venire con me, ma io mi sono rifiutato dicendogli che dovendo io viaggiare fra i Copti, e frequentare anche le missioni cattoliche per confessarmi, e celebrare la Santa Messa, sarebbe stato per lui un pericolo, ed anche per me.

Secondo me, dissi, tu tenendo sempre lo stile prudenziale, come facevi nel monastero, mi lascierai partire, ed una volta partito, senza dare nessun segnale che possa ingerire sospetto, preparate le tue cose, dopo un giorno o due partirtene un poco travestito, e se potrai facendo anche il mestiere di barcajuolo sino al Cairo. Senza andare in Caïro dove i Copti sono forti, sopra un’altra barca partire direttamente per Alessandria, e ricoverarti come domestico di Monsignore Delegato, e poi lasciarti guidare da lui. Egli colle mie lettere al Console Generale ed a Monsignor Teodoro aggiusterà tutto.

Il buon giovane prese il mio consiglio, e così tutto fu conchiuso, e dopo un felicissimo viaggio, arrivo al villagio;
i monaci già ci aspettavano.
nel terzo giorno di mattina già eravamo in vista del villaggio, dove le notizie del monastero già essendo arrivate prima quell’ospizio ci aspettava con impazienza epperciò siamo entrati come in trionfo. Io non era più pellegrino e forestiere come prima, ma era di famiglia.

/206/ ho consegnato la medicina al superiore;
fatto scrivere il modo di prenderla;
Il Sciech di parola aveva fatto in modo che la barca dovesse trovarsi a tempo. Io, appena fatti i convenevoli a quei monaci, [p. 331] pensai subito a preparare la medicina al povero sifilitico di S.t Antonio; ho aperto il mio sacco di notte dove aveva la mia piccola farmacia, ho preso una trentina di pilole fatte da me con una proporzione molto al disotto della misura ordinaria che io aveva imparato all’ospedale dei Cavalieri [di Torino], e poi chiamato il superiore della casa che scriveva in arabo, fingendo di non fidarmi di Cherubino, ho fatto scrivere il sistema da tenersi, ed il regime da osservarsi in modo ben chiaro, e poi ho consegnato le pilole al Cherubino, raccomandandogli bene di farne poi anche la spiegazione.

la sifilide dei paesi caldi. Le pilule erano di sublimato; se fosse in Europa ci sarebbero molte cautele [da usare], ma in questi paesi caldi dato a metà dose e quasi certa la guarigione, ma vi vogliono molti giorni di più. Nei nostri paesi abunda la sifilide bubonica, ma in questi paesi caldi questa è quasi mai visibile, invece è la cancrenosa che domina, ed è molto più mite, massime nelle persone di bassa classe che si nutrono di vegetali, epperciò raramente si trova un capitale di pletora, quale sempre esiste frà i nostri.

trasporto del bagaglio sulla barca;
addio Cherubino mio!
L’indomani essendo venuta la barca si trasportarono subito gli effetti alla medesima; passammo però ancora la giornata per aspettare alcuni marinari, i quali non si erano ancora radunati. Io però me ne stava la più parte sul fiume, benché i monaci volessero trattarmi con un buon pranzo. Ho finito tutto con Cherubino, egli doveva aspettare due giorni dopo la mia partenza [p. 332] per Assiut. La sera ho finito i miei conti col Superiore dell’Ospizio, aggiungendogli qualche piccola riconoscenza, e me ne sono ritornato alla barca, dove tutto era preparato per la partenza per la notte.

partito la mattina;
mie preoccupazioni per Cherubino;
14. anni dopo mi raccontò in Caïro tutto l’esito.
Verso mattina un piccolo venticello ci favorì ed al sortire del sole eravamo già fuori di vista del villagio. La preoccupazione del passo che doveva fare Cherubi[no] mi diede [d]a pensare tutta la giornata. Non fù che 14. anni dopo che ebbi notizia di lui: egli partì di notte per terra, due giorni dopo [di me], trovò una barca nella città vicina, e con essa arrivò al Cairo, dove entrato nel vaporetto, in due giorni arrivò in Alessandria. Monsignore Delegato lo tenne nascosto qualche giorno, il Console Generale avendolo preso sotto la sua protezione se ne restò qualche giorno con lui; con lui andò in Cairo, dove poté parlare coi suoi parenti, i quali essendo ritornati al cattolicismo, poté restare definitivamente con Monsignor Teodoro, [e] farsi Prete tranquillamente.


(2a) Avendo fatto interrogare quei bedovini, [e] mi dissero che lontano una piccola giornata il deserto non manca [di] Wasis, nelle quali vegeta un poco di erba, ed alcuni arbusti, dei quali può nutrirsi una piccola quantità di capre, ed anche di cameli. Quei bedovini cercavano di nascondere [la loro merce] per non essere visitati dai soldati egiziani. Da quanto pareva erano quelli bedovini quasi indipendenti, e pagavano solo qualche tributo ai loro capi, i quali soli avevano relazione col governo. Ho domandato loro, se avevano figli, e mi risposero che ne avevano molti, ma gli tenevano nascosti per paura dei turchi. Come erano tipi molto ben conservati, certamente che i turchi non gli avrebbero risparmiati. [Torna al testo ]