/264/

31.
Ingresso in Abissinia
per la strada di Doka, Gudabiè, Gondar.

è conchiuso il mio ritorno a Matamma; [p. 417] In vista di tutte queste difficoltà ho conchiuso col Sciek di ritornarmene a Matamma per la prima carovana, la quale sarebbe partita l’indomani.

mia partenza con una guida del Sciek. La metà della carovana era degli antichi [viandanti] venuti con me, i quali ritornavano a Matamma, frà questi il mio buon vecchio guardiano dell’asino. L’altra metà erano mercanti venuti dal Sud, frà i quali alcuni venuti da Dabbo. Per il ritorno il Sciek di Luka mi aveva dato una persona come mia guida, onde assicurarsi che nulla [mi] arrivasse per strada. Per questa ragione ritornando fui più tranquillo, perché la mia guida suddetta aveva ordine di riferire a Sciek Hibrahim di Matamma qualunque cosa fosse accaduta.

incontro mercanti;
notizie dell’Abissinia;
rivolta di Kassà a Ras Aly
[inizio 1852];
i due europei erano partiti.
Prima ancora di arrivare a Matamma da viaggiatori che venivano abbiamo inteso che Degiace Kassa si era rivoltato al Ras Aly, e che minaciava una discesa a Matamma, cosa molto grave per me, poiché l’Abissinia era l’unica strada che mi rimaneva [d]a fare, e la strada mia era appunto il Dembea paese di Kassà, il quale si diceva accampato sulle rive del lago di Tsana. Ho domandato se i due europei, il Barone di Marzac ed il Signor Alessandro Vissier si trovavano ancora a Matamma, e mi risposero che erano partiti per Kartum.

Appena arrivato a Matamma sono andato subito a trovare il Sciek Hibrahim per domandargli una casa, poiché la prima era già stata occupata da altri. Ho domandato notizie dell’Abissinia, e mi confermò subito quella della rivolta di Kassà a Ras Aly. Mi assicurò però che tutto il paese continuava ad essere in pace, e che Ras Aly era sempre ancora in Gogiam. Riguardo al timore della discesa di Kassà a Matamma, nulla vi era da temere affatto.

arrivo di una compagnia di soldati egiziani, per il tributo d’uso. [p. 418] Piuttosto era questione della venuta di una compagnia egiziana, la quale viene ogni anno a prendere il tributo; ma questa resta al più otto giorni, e poi se ne ritorna a Doka.

/265/ Difatti passarono appena alcuni giorni che un comandante per nome Melek Sabat con una compagnia di soldati a suon di tromba e di tamburro arrivò, e si stabilì nella piazza con tutte le sue tende; ma il paese non si sconcertò affatto. Il comandante prese alloggio vicino a me. Questi erà un buon vechietto colla barba bianca, il quale all’entrata di Mahumed Aly nel Suddan aveva un piccolo principato vicino a Scendy, fece la sua sottomissione, e prendendo servizio nell’armata egiziana ebbe subito il grado di Capitano chiamato Melek Sahat (Re Sahat).

il comandante della compagnia mi fu molto amico; Questo comandante passava quasi tutta la giornata con me, e mi raccontò tutte le guerre di Mahumed Aly nel Suddan, Kurdufan, e Fasuglu. Egli [non] volle mai gustare un boccone senza di me, ed essendo io ammalato di febbri mi fece da medico a uso del Suddan: mi proibì per tre giorni intieri ogni altra cosa, e mi faceva bere solamente decotto di tamarindi, sino a determinarmi una diarrea potentissima; dopo i tre giorni mi diede una bella dose di kinino, e poi mi raccomandò di mangiare, e così sono guarito perfettamente dalle febbri.

Io mi trovava molto imbarazzato, perché non trovava[va] un servo; ho scritto a Kartum per avere un servo;
mandò un suo soldato.
venuta del servo Giuseppe da Kartum;
ho rimontato a Doka col Comandante.
scrissi una lettera a Kartum di cercarmene uno. Egli fece partire subito un soldato con un dromedario, ed i missionarii di Kartum mi mandarono un giovane abissino venuto di recente da Gerusalemme per nome Giuseppe, [p. 419] il quale mi arrivò circa tre settimane dopo con alcuni oggetti lasciati in Kartum. Mentre io stava aspettando questo servo che venisse, essendo passati gli otto giorni, il comandante dovendo ritornare a Doka coi suoi soldati volle che io andassi con lui, e sono andato, restando colà sempre in casa sua.

buone qualità di questo Comandante;
conferenze con lui.
Aveva egli una casa montata in forma con molta servitù, la più parte schiavi; fra i quali i più giovani, e più belli erano come paggi ben vestiti, co[me] già dissi di Fasuglu, destinati al servizio dell’interno della casa. Cogli altri comandanti di Fasuglu e di Gassan [non] ho mai avuto il coraggio di parlate della corruzione pentapolitana, perché vedeva i padroni molto vaghi di questo, ma col Melek Sahat ho parlato direttamente di questo: = anticamente in questi paesi queste cose non si vedevano, [osservò;] dopo l’arrivo degli egiziani nostri signori è divenuta come una necessità, ed un vero bisogno di darli anche ai forestieri; io quando sono in campagna ancorché non abbia donne, pure non amo questo; i giovani, sono sempre sue parole, una volta accostumati a questo non sono più uomini, io gli lascio fate, ma non gli voglio vicini = Allora gli ho fatto le mie congratulazioni, ed egli mi soggiunse, la sorgente di ciò è la Mecca, di là ha innundato il mondo, ed a noi qui venne dall’Egitto.

/266/ lodò i preti cattolici, e biasimò i copti. Parlando con lui dei Preti, quando sono a Kartum, diceva, io tutti i giorni vado dai Preti di Roma, perché quelli sono buoni e non amano queste cose, mentre i nostri preti Copti sono peggiori di noi, e qualche volta che vengono alloggia[no] da me [e non] trovano mai un ragazzo di loro gusto: io sono mussulmano, diceva, ma sono mussulmano alla moda antica, non alla moda turca; [p. 420] Mahumed Aly era un grand’uomo, diceva, come io era del paese sono stato sempre la sua guida in tutti i suoi viaggi del Suddan, Kurdufan, e Fasuglu; egli aveva sempre con se una delle sue mogli, ma non amava queste cose, perché egli non era egiziano; per questa ragione Iddio gli ha dato molti figli. Io poi lontano da tutte queste miserie, ho tanti figli che non so contargli. =

Ho voluto portare le parole di questi oracoli mussulmani, per far conoscere che la corruzione di cui si parla non è mai antichissima, ed universale; e l’oracolo della legge naturale si fa ancor sentire anche frà i mussulmani, tanto che basta per renderli innescusabili.

lettere venute da Kartum col servo Giuseppe; Dopo tre settimane arrivò da Kartum il servo Giuseppe, partito di là nel momento che stavano per arrivare i missionarii tedeschi col loro Provicario Apostolico D. Ignazio Knobleker, ed erano perciò sulle mosse [di partire] i due Padri Gesuiti Pedemonti e Zara. La risposta era del Padre Pedemonte, il quale mi dava tutti i detagli i più minuti.

notizie di guerra in Abissinia;
consiglio di passare per Gudabiè;
partenza.
In Abissinia si parlava di guerra trà Ras Aly, e Degiace Kassa dalla parte del Dembea, e del lago di Tsana, epperciò dovendo partire, il Melek Sahat mi consigliò di lasciar la strada di Matamma, di Waini per montare il Dembea, e prendere invece più al Nord quella di Gudabiè, la quale monta la Provincia dì Armaciò, e va direttamente a Gondar.

Così, disposte tutte le cose nostre, e muniti di raccomandazioni, abbiamo lasciato Doka sul finire di Maggio 1852. arrivo a Gudabiè; e nel quinto giorno siamo arrivati a Gudabiè, paese come indipendente dall’Abissinia e dagli egiziani pagando di quà e di là qualche tributo, [p. 421] come si è detto [parlando] di Matamma, unendosi a quest’ultima in molte cose. In Gudabiè avvi un mercato, dove il Vulkaït discende a comprare il cotone e qualche altro genere proveniente d’Europa, ma è questo un piccolo mercato, dove non discendono i grandi prodotti dell’interno.

prendo una guida;
parto per Hamaciò.
Abbiamo preso in Gudabiè una guida dataci dal Sciek, la quale doveva consegnarci ai primi villaggi di Harmaciò. Partiti da Gudabiè ci siamo trovati in presenza di una gran pianura tutta deserta, la quale basterebbe per un mezzo millione di abitanti, perché [è] un terreno vegetabile ad una profundità di due mettri; pianura abitata da elefanti, leoni, e gran serpenti. Abbiamo camminato tutta la giornata per arrivate ad un /267/ fiume, il quale discende dalle frontiere nord del Dembea, e riceve probabilmente le aque di Gondar.

passato il fiume pernottai sotto un ficomoro;
gran pioggia nella notte.
Passato il fiume alla distanza di un chilometro al più abbiamo fatto stazione sotto un gran ficomoro carico di frutti. Come eravamo solamente tre, ed il deserto è pieno di elefanti e bestie feroci bisognava pensare a radunare molte legna per fare gran fuoco tutta la notte. Il bedoino di guida cavò il fuoco colla frizione di due legni, uso antichissimo, e possiamo dire patriarcale, e poi ci siamo posti a mangiare un poco di pane. Fatto ciò, e fatto un poco di conversazione, avendo io ancora qualche debito da pagare a Dio, ho detto ai due di porsi a dormire, incaricandomi io a custodire sino ad una cert’ora in cui avrei chiamato uno per sollevarmi dalla guardia; questo consiste a custodire [p. 422] il fuoco, a gettate qualche tissone in lontananza per spaventare le bestie feroci, e guardarsi dai ladri. Dopo le nove circa ho fatto levare la guida per mettermi a dormire; ma il cielo era molto torbido, e gran lampi si vedevano in lontananza. Non tardò ad avvicinarsi il temporale, e fu tale un diluvio di aqua che faceva spavento, e minaciava di smorzare quasi totalmente il fuoco; gran vento e tempesta di fichi. l’aqua però sarebbe stata meno male, il vento era così impetuoso, ed agitava quel grand’albero in modo, che da una parte minaciava di rompere qualche gran branco e gettarlo sopra di noi, dall’altra parte poi una tempesta di fichi si staccavano con tanto impeto, che si sarebbe detta una tempesta di pietre sopra la testa.

Per fortuna non durò molto, del resto poco mancava di essere suffocati. Cessato il temporale, la terra era tutta innondata di aqua, e minaciava di smorzare il fu[o]co unica nostra risorsa; anche le legna essendo bagnate non volevano più accendersi; tutte le vesti, le coperte erano inzuppate, e fummo costretti a restarsene quasi nudi. Fortu[na] che in quei paesi non faceva gran freddo, del resto non so come si sarebbe campato. I piaceri del mondo passano, ed anche le tribolazioni finiscono: poco per volta riprese il nostro fuoco, e così dissiparono le tenebre, e le vesti seccarono, [p. 423] ma il gran male fù che [si] passò quasi tutta la notte senza poter dormire, e non fu che verso mattina che abbiamo potuto riposare.

La mattina ci siamo levati col sole, ed abbiamo visitati gli effetti, ma i più preziosi essendo dentro gli otri non avevano sofferto; solamente la farina era un poco umida, e si dovette aspettare il sole per far seccare ogni cosa, e non abbiamo potuto partire che più tardi. Strada facendo la mattina abbiamo trovato gran fango, bestie, insetti e serpenti al sole per ristorarsi;
anche i fichi caduti dall’albero si trovarono buoni col benefizio del giorno.
e nei luoghi un poco netti dall’erba quasi sempre si trovavano bestie, bestiole, insetti, ed anche serpi al sole per rifarsi dall’aqua. Prima di lasciare l’albero abbiamo trovato /268/ che tutti i fichi caduti non erano tutti cattivi, alcuni erano maturi e si lasciavano mangiare. Non tutti, ma alcuni di questi ficomori fanno frutti, i quali, non sono eccellenti, ma pure al viaggiatore che non trova [di] meglio sono buoni. Per fortuna che avevamo passato il fiume la sera, del resto [in] quasi tutta la giornata non sarebbe stato passabile.

passata la notte ai piedi della montagna sotto un’altro ficomoro vicino ad un torrente.
caduta dell’asino col suo carico nel precipizio.
Ciò nonostante quella pioggia fu causa che non si poté arrivare alla montagna di quella giornata, ed abbiamo dovuto passare la notte ancora in quel vasto deserto, arrivati in poca lontananza della montagna; fummo però più fortunati, perché abbiamo avuto una bella notte per riposare ai piedi di un’altro ficomoro. L’indomani siamo partiti e siamo arrivati ai piedi della montagna circa le nove. Serpeggiava un torrente colà il quale aveva poca aqua, [p. 424] ma la riva opposta mangiata dalle aque presentava una difficile salita, massime per le bestie cariche, ed è perciò che dopo essere quasi arrivati in cima, mancato il piede ad uno degli asini cadde precipite nel fiume col suo carico. Come l’altezza era molto forte tutto ci lasciava temere, che, se non altro, una qualche gamba doveva essersi rotta, e già si sa che l’asino senza gamba si manda all’ospedale delle jene. Siamo discesi, e slegatolo sembrava quasi morto e non voleva più alzarsi; quasi eravamo decisi di lasciarlo, e preso noi il carico suo stavamo rimontando, quando il povero asino vedendosi lasciato solo, fece uno sforzo, e si levò in piedi; zoppicava bensì un poco, ma poi incomminciava a seguirci.

abbiamo diviso il carico in tre, e l’abbiamo portato noi. Abbiamo diviso il carico in tre parti, e preso ciascuno di noi la nostra parte, abbiamo montato alla meglio una parte della salita, ed il povero asino ci seguiva da lontano. Abbiamo trovato un piccolo ripiano, dove vi era un poco d’erba [e] ci siamo fermati all’umbra di un’albero, dove fatto un poco di caffè per noi, e mangiato un pezzo di pane, la guida volle esaminare l’asino, gli montò a cavallo, e camminava. La povera bestia, pote riprendere il suo carico un poco minore, e così abbiamo proseguito il nostro viaggio sino alla cima della montagna. La s’incominciarono a vedere campi seminati, e quindi non abbiamo tardato molto che si trovarono alcuni piccoli villaggii.

nostra entrata sul confine della provincia di Harmaciò e perciò in Abissinia. La guida ci condusse alla casa del messeleniè, dove fatta la consegna, si congedò da noi per ritornare in Guidabiè. [p. 425] Abbiamo passato la notte in una capanna che ci hanno dato. Come era ancora giorno ho voluto fare qualche passo, accompagnato da un monaco vecchio, e molto semplice, il quale mi fece vedere in lontananza un monastero, di cui nel momento che scrivo non mi ricordo il nome, ma molto conosciuto, il quale passa per uno dei monasteri, anzi l’unico di tutta l’Abissinia, in cui vi si trovi la vita comune; il monaco che mi guidava raccontava /269/ risolte storie antiche di questo monastero, il quale ha incomminciato sotto alcuni Preti franchi, i quali sono stati ammazzati in Gondar.

conferenza con un monaco abissino; Questo monaco niente affatto istruito non fece altro che riferir quel poco passato in storia popolare tradizionale. Io poi credo bene [di] far conoscere in questo luogo alcune cose, le quali possono [s]chiarire in qualche modo quanto disse il monaco suddetto. (1a)

storia supposta dei padri Agatangelo e Cassiano nostri martiri
[† 7.8.1638].
Dopo l’espulzione dei Padri Gesuiti dall’Abissinia la famiglia imperiale essendosi sempre mantenuta fedele alla fede Cattolica (2a), e non avendo più Sacerdoti, dopo molti anni ha fatto venire dal Cairo due Cappuccini, i quali devono essere i Padri Agatangelo da Vendome, e Cassiano da Nantes francesi, e non potendo farli venire a Gondar gli aveva collocati sulla frontiera occidentale più vicina, dove alcuni della corte secretamente si recavano per ricevere i Sacramenti. Rimasero colà alcuni anni sempre nascosti, ma alla fine essendo stati scoperti, il partito clericale eretico gli fece prendere e trasportare a Gondar, dove furono lapidati.

il p. Hajlù Michele nostro sacerdote indigeno mi parlò molto di questa storia. [p. 426] Il P. Hajlù Michele mio allievo, nativo di Gondar, dove prima della sua conversione era conosciuto sotto il nome di Deftera Abebaju, fatto poi dopo monaco terziario nostro, e quindi sacerdote e poi missionario zelantissimo rimasto in Kafa dopo il mio esilio, e morto colà circa dieci anni dopo. Questi mi parlò molto di questi (1b) martiri nostri; io gli aveva promesso di mandarlo a Gondar per raccogliere tradizioni sul loro sepolcro, e cercare di avere qualche reliquia; perché egli conosceva /270/ il sepolcro dove era. Tutto ciò era una cosa decisa da noi, ma non da Dio, perché nell’anno 1861. venne il mio esilio da Kafa, ed egli rimase solo missionario colà sino alla sua morte, avvenuta nel 1873, Per questi due martiri si consulti il Bollario dei Cappuccini Provincia Turonensis Pag. 83. Tom. 5.

partiti dal primo villagio siamo arrivato alla città di degiace Tascio;
riposo di un giorno.
Ciò detto di passaggio ritorno al mio viaggio, lasciato sopra. Passata la notte, l’indomani il Messelenié ci diede una guida per accompagnarci alla città di Degiace Tascio, il quale governava in quel tempo tutta la provincia di Harmaciò. Siamo arrivati in un giorno alla città suddetta, dove Degiace Tascio ci ha ricevuto molto bene, e dopo un giorno di riposo ci ha dato un’altra guida, la quale ci condusse sulle frontiere della sua Provincia, con ordine di prendere là un’altra guida officiosa, la quale da un’amico all’altro ci facesse attraversare tutti i paesi Camant comandati da degiace Kassa in guerra con Ras Aly, senza consegnarci a nessuna autorità per non comprometterci col rivoltoso Kassà suddetto.

arrivo alle frontiere di Harmaciò verso Celga;
precauzioni prese.
Lasciata la Città di Degiace Tascio siamo andati sulla frontiera Est di Harmaciò alla casa di un suo Messelenié, dove abbiamo passata la notte; l’indomani, fece partire gli asini carichi soli, come mercanti indigeni, i quali dovevano aspettarci i[n] una casa particolare amica. [p. 427] Io poi con un’altra guida sono partito tutto solo, e dopo poche ore siamo arrivati al luogo convenuto, dove abbiamo passato la giornata e la notte. Questo luogo era tutto vicino alla montagna o fortezza di Celga, dove Degiace Kassà mantiene tutti i suoi tesori, ed i prigionieri di stato. paese Camant.
sua altezza.
sua fertilità.
La Provincia di Celga detta dei Camant è una delle più belle provincie di tutta l’Abissinia; la sua altezza media non passa i due mille mettri sopra il mare, cioè a dire è un’altezza media sufficiente per avervi una [una] frescura sufficiente, e mai fredda, e quanto si può desiderare per la vegetazione.

razza Camant.
suo carattere.
sua religione.
La razza Camant e una razza robusta, ardita, guerriera a suo tempo, e data all’agricoltura. Nel tempo stesso poi è una razza calma e seriosa. La sua religione è un mistero. In Abissinia si dicono pagani, e si posso- /271/ no anche dire tali in realtà, nel senso che non sono ne Cristiani, ne ebbrei, ne mussulmani, ma sono costanti a credere in Dio, e non sono perlopiù idolatri o fetissi; hanno delle pratiche mosaïche, ed anche della pratiche cristiane. Sono poi molto cortesi ed ospitalieri. Se il clero abissinese fosse un clero apostolo, vicini come sono alla capitale sarebbero già tutti cristiani, ma già si sa che gli abissini se ne curano molto poco del proselitismo; solamente sono tenaci a non permettere che altri insegnino nel loro paese. l’Abissinia fatta cristiana per forza da principio;
così si mantiene.
L’abissinese è divenuto cristiano per la forza del governo, e tien fermo questo sistema di mantenersi nella fede colla forza, e propagare il cristianesimo colla forza, d’altronde malattia questa di tutto l’oriente. Malattia piantata dall’impero bisantino, continuata dall’islamismo, e portata oggi all’eccesso dalla Russia.

Abbiamo camminato ancora una seconda giornata sempre frà i Camant di Celga, e la sera siamo entrati in altra casa di [di] un’amico di Degiace Tascio, altro Camant molto buono. Il Padre di famiglia era un vecchio [p. 428] di circa 80, anni, il quale ancor giovane essendo stato paggio in una casa Cristiana si fece battezzare, ma tutta la sua famiglia non è battezzata, e conta come una famiglia Camant, prova questo che i Camant non sono alieni dal cristianesimo. Debbo poi confessare che quella famiglia numerosissima è una delle famiglie più ben ordinate che abbia veduto in Abissinia.

arrivo alle vicinanze di Gondar. Sortiti da questa casa, nella giornata siamo arrivati alle vicinanze di Gondar, ed abbiamo preso alloggio in un piccolo villaggio lontano una piccola ora dalla capitale. Ho mandato subito un biglietto alla missione, raccomandando gelosamente il secreto, e dicendo di venirmi a prendere, perché contava di entrare di notte. viene abba Tekla hajmanot Difatti non tardò ad arrivare Abba Tekla Hajmanot, un prete indigeno stato da me ordinato in Gualà [dell’]Agamien. Arrivato egli, ho congedato la guida presa da Degiace Tascjo, e lasciando là tutti i carichi con gli uomini, i quali sarebbero venuti l’indomani, io sono partito con Abba Tekla Hajmanot, e siamo arrivati alla missione ad un’ora di notte.

Ho abbraciato la il caro Fr. Filippini ed altri giovani della casa conosciuti in Tigrè, e nel precedente mio viaggio di Gondar. mi fermo una giornata per la Messa; Come Gondar era un luogo molto pericoloso per me, avendo fissato di restarvi un sol giorno si combino subito per la Messa del domani e posdomani, di cui io era molto affamato. Ho passato quel poco tempo occupato nei miei bisogni spirituali avanti tutto; quindi a prendere le informazioni sullo stato dei miei missionarii, sulla politica del paese, onde saper organizzare le mie mosse, e le mie operazioni, e quindi a raccogliere nel deposito di Gondar gli ogget[ti] dei quali aveva bisogno.

/272/ notizie dei missionarii.
della politica;
ho scritto loro il mio arrivo.
Seppi che il Padre Giusto d’Urbino si era stabilito in Betlemme dopo l’espulzione da Tedba Mariam, e che [p. 429] il P. Cesare da Castelfranco mi stava aspettando in Gogiam. Scrissi quindi a tutti [e] due notificando la mia venuta, e di combinare il modo di ritrovarci per conferire sulle future nostre operazioni. [Ho] Cercato quindi portatori che dovevano partire con me, e preparato quel tanto che mi dovevano spedir dopo. Dopo due giorni di dimora affatto secreta in Gondar, di notte tempo ho lasciato quella capitale, ed ho preso la via d’Iffac, accompagnato dal domestico Giuseppe, e da un solo portatore preso in Gondar.

Io sono solito [a] viaggiare in Abissinia colla massima economia, e per lo più sempre a piedi per non dare nell’occhio al publico, per sbrigarmi dai grandi per lo più molto pericolosi quando sono amici, come lo sono quando sono nemici; quindi per non espormi ad allarmare l’opinione publica. parto per Iffagh;
arrivo ad Amba Mariam, vi passo la notte.
parto.
Partito da Gondar, la sera del primo giorno sono arrivato ad Amba Mariam, un piccolo Santuario, o città che si voglia dire. Io non usava mai entrare nei luoghi centrali, ma piuttosto nei piccoli villaggi, ma i servi amano i gran villagi per molte ragioni, prima, perché si trova della birra a comprare; secondo perché si trovano donne, e poi cento altre ragioni che vi sono per gli uomini di mondo.

La ragione principale era quella che io non conoscendo il paese, mi portano dove non voglio; fatto stà che mi sono trovato in Amba Mariam. Siamo entrati in una casa, ai passò la notte ancora bene, e la mattina seguente siamo partiti per Iffac. Appena siamo sortiti [p. 430] dal paese, ancora non eravamo lontano un miglio eccoci inseguiti da un soldato del Nagadaras, ossia capo delle dogane (1c), come fossimo contrabandieri; in Enferas sono preso e legato dal Nagadaras
[giu. 1852]
questi ci costrinse a andare ad Enferas paese non molto lontano, dove esiste in rovina un’antico castello fatto dai portoghesi, dove gli imperatori usavano passare qualche tempo in campagna anticamente, ed oggi [è] divenuta una residenza del capo dei doganieri, per lo più sempre mussulmano ricco appaltatore delle dogane.

Arrivati là furono legati i due servi, ed io messo sotto custodia. Mi domanda di dove veniamo? e si risponde che veniamo da Gondar, dove /273/ vogliamo andare? vado in Gogiam; perché avete preso una strada di traversa per fuggire le dogane? [ribatte;] e rispondo che io non conosceva [quella strada]. Dunque siete un negoziante forestiere, [sentenzia,] e fate il contrabando (2b). esame del bagaglio e nulla fu trovato; Fece venire i pochi otri che vi erano, si aprirono, e non si trovarono che proviste di viaggio, con alcuni oggetti di Chiesa per la S. Messa, con alcune mie camicie di soprapiù.

ma la mia colpa era l’esilio;
questa mi obligava a fare la pace
Da ciò si vedeva ben chiaro che io non era un gran mercante, ma essi non desideravano altro che un motivo per mangiare qualche cosa, ed io mi trovava in circostanze da non volere moltiplicare le questioni, per non cadere nelle mani di Ras Aly, e del partito Copto, anzi pensava di andarmene presto, attese le circostanze di guerra, e le pioggie che [p. 431] già erano molto innoltrate e minaciavano di chiudere le strade. Si legarono gli otri, dove vi erano denari contati, e così ci lasciarono come legati.

Passarono due giorni, e bisognava aggiustare questo affare: alcuni mandati secretamente dal Nagadaras facevano proposizioni di pace, ed io la cercava più di loro (1d). Parliamo col padrone, dissi, e venne, ed allora presi io il discorso: avete veduto che io non sono un mercante, ma sono un forestiere che voglio andare dal Ras prima che si chiudano le strade: faciamo la pace, ed egli mi domandava cento scudi per la pace. ho fatto la pace con 40. talleri e certe condizioni. Se vi do cento talleri, dissi, vi do tutto, e poi io cosa mangierò, e per tagliar curto l’abbiamo aggiustata con 40. (2c) scudi, compresa la mancia /274/ agli uni, ed agli altri, io mi obligava a non sollevare la questione con Ras Aly, ed egli si obligava, a darmi una casa nel caso di passare l’inverno in Iffac, e di darmi una guida fino a Basso, in Gogiam, affinché non si rinnovassero altre questioni di dogane. Così si fece la pace, e siamo divenuti amici.


(1a) In quel tempo io non conosceva ancora le tradizioni abissine. Io ho supposto allora, che i monaci, dei quali è questione in questo luogo siano stati il P. Agatangelo e Cassiano suo compagno, ma questi sono venuti in Abissinia per la via della costa del mare rosso, e non sono rimasti; ma sono altri venuti posteriormente, ed anche martirizzati. A questo riguardo si consulti la vita dei due suddetti fatta stampare dal Signor d’Abbadie nel 1883.; quindi tradotta in italiano, e stampata in Milano dello stesso anno. [Torna al testo ]

(2a) Nella storia qui citata io no[n] ho tenuto conto del tempo. Nell’epoca della rivoluzione l’imperatore Fassilidas, vivente la sua madre stata causa della sollevazione contra il cattolicismo, non ha dato segni di cattolicismo; la chiamata dei monaci europei non deve attribuirsi al suddetto imperatore Fassilidas, in tempo del quale ebbe luogo il martirio di Agatangelo e del suo compagno, ma ad un suo successore, epperciò sta detto molti anni dopo. Non solo la tradizione orale, ma il poco di storia abissina che si trova, parla di fatti e non si cura di epoche, motivo per cui è un vero caos. [Torna al testo ]

(1b) Abba Hajlù Michele mi parlò molto di martiri stati [stati] strangolati e lapidati. mi parlava del miracolo del fuoco sortito dal loro sepolcro, e di alcune altre particolarità: come di cose di tradizione nella dinastia imperiale. Egli mi parlò pure del monastero qui mentovato, nel quale, egli diceva, esiste qualche tradizione francescana. Il povera indigeno supponeva che fossero i martiri Agatangelo e Cassiano stati uccisi sotto l’impera di Fassilida, i quali avessero lasciate le tradizioni /270/ francescane in quel monastero. Era questo un grande suo errore; io, diceva, da alcune famiglie di schiatta imperiale, troverò la vera storia. Doveva recarsi a Gondar per questo, ma poi, venuto il mio esilio, dovette restare in Kafa, e la cosa restò nella sua oscurità.
Dopo la mia partenza da Kafa, il Padre Hajlù suddetto so che ha preso molte informazioni relativamente ai martiri Agatangelo e Kassiano, ed anche relativamente agli altri manici supposti fondatori del monastero suddetto. Più so [di] certo che ha lasciato scritto qualche cosa. Io [ho] sempre sperato di trovare questi manoscritti; ultimamente ancora sperava di trovare detti manoscritti fra quelli del P. Leone; non ho fin qui trovato cosa di qualche rillievo. I manoscritti del P. Hajlù, come manoscritti in lingua amarica, forze sono stati presi dagli indigeni. [Torna al testo ]

(1c) Ho chiamato qui il Nagadaras capo di dogana; egli lo è in realtà, ma si direbbe meglio apaltatore; egli suol dare un tanto al governo, e quindi esigge le dogane per suo conto; per questa ragione suol commettere anche delle crudeltà per esiggere, anche dove non avrebbe diritto. Per l’ordinario in Abissinia le sole mercanzie che vengono di fuori stato dal mare, oppure che vanno al mare sono soggette alle dogane, come tele nere o rosse, drappi, rame, verotterie, schiavi, avorio, muschio, e simili; i prodotti di cangio indigeno, come grani, bestiami, butirro; questi articoli di commercio indigeno non pagano dogane, e neanche sono soggetti al Nagadaras. [Torna al testo ]

(2b) Per tre ragioni io poteva [ingenerare] sospetto di contrabando. Prima come forestiere supposto mercante. 2. Perché non unito alle carovane, e fuori di strada delle grandi carovane. 3. Come supposto avente articoli di contrabbando. Nel paese non vi sono leggi scritte, ma solo usi suscettibili di arbitraria interpretazione, epperciò avrebbe potuto anche condannarmi a gravi pene e vessazioni; tanto più che egli ha dovuto avere delle cattive raccomandazioni dal partito Copto mio nemico. Egli non mi conosceva personalmente, se pure qualchedono dei suoi servi non mi conobbe; il fatto [era] occorso due anni primo in Gondar sotto il suo predecessore, come già si disse a suo tempo, il quale mi legò e mi fece pagare una gran somma, e che poi perdette l’impiego. [Torna al testo ]

(1d) Io cercava lo pace, perché non voleva andare dal Ras. Il Nagadaras cercava anche la pace, affinché io non mi lagnassi presto il Ras; egli aveva veduto gli oggetti di Chiesa, e non dubitava più che io non fossi prete; egli doveva sapere che Ras Aly amava la missione cattolica, e sapeva ciò che accadde al suo predecessore che mi legò in Gondar. Per questa ragione fummo presto d’accordo. [Torna al testo ]

(2c) Qui parlo di scudi per servirmi di un termine più generico e più conosciuto, in Europa dai miei lettori; ma giù si è detto altrove, ma non è lo scado, ne di Francia, ne d’Italia, ne di altro paese, del valore di cinque franchi, ma il solo tollero austriaco si trova in corso in tutta l’Etiopia. Dicendo tallero non si intende il tallero in corso in Austria, ma il solo tallero di Maria Teresa, ben fornito di tre segnali, cioè la corona in testa coi ponti ben spiegati, in petto la rosa coi segnali delle perle ben visibili, ed a basso le due lettere consuete ben visibili. In difetto di questi segni gli stessi talleri di Maria Teresa vanno soggetti a rifiuti, o per lo meno ad un ribasso, massime nel commercio al minuto presso gli indigeni non accosturnati alla costa. Io ho veduto europei colle mani piene di talleri, che nei mercati indigeni nulla potevano comprare per vivere. [Torna al testo ]